Laici Missionari Comboniani

Con il cuore nella missione

P._Enrique_Sanchez

“Con l’avvicinarsi della festa del Sacro Cuore – venerdì 27 giugno – desidero condividere con voi questa piccola riflessione perché ci aiuti a prepararci a questa celebrazione fissando il nostro sguardo in quel Cuore aperto da cui nasce la nostra vocazione missionaria, per attingere le forze di cui abbiamo bisogno in questo momento del nostro cammino come eredi di san Daniele Comboni”. P. Enrique Sánchez G., mccj.

Con il cuore nella missione

“Io non voglio tacerle qui che, allorché la S. Sede mi ha affidato questa vasta e laboriosa Missione, la mia coscienza era un po’ titubante, perché conoscevo la mia piccolezza di fronte a questo mandato enorme che Dio mi ha affidato tramite il suo augusto Vicario Pio IX. Allora io ho pensato che con le nostre forze non riusciremo mai a fondare il cattolicesimo in queste immense regioni dove la Chiesa, malgrado gli sforzi di tanti secoli, non è giammai riuscita. Allora ho gettato tutta la mia confidenza nel Sacro Cuore di Gesù e ho stabilito di consacrare tutto il Vicariato al Sacro Cuore di Gesù il 14 settembre prossimo. A questo scopo ho inviato una circolare per fare questa grande solennità e ho pregato l’apostolo ammirabile del S. Cuore, il P. Ramière, a redigere l’atto di Consacrazione solenne, ciò che egli ha fatto” (Scritti3318).

Cari confratelli,
Con l’avvicinarsi della festa del Sacro Cuore desidero condividere con voi questa piccola riflessione perché ci aiuti a prepararci a questa celebrazione fissando il nostro sguardo in quel Cuore aperto da cui nasce la nostra vocazione missionaria, per attingere le forze di cui abbiamo bisogno in questo momento del nostro cammino come eredi di san Daniele Comboni.

Il 31 luglio del 1873, san Daniele Comboni scrisse una lettera a Mons. Joseph De Girardin, dalla quale ho preso il testo con cui inizio questa mia riflessione. L’ho scelto perché mi sembra che contenga alcuni elementi che corrispondono alla realtà che ci troviamo ad affrontare in questo momento della nostra vita e della nostra missione e che meritano una riflessione da parte nostra.

Come a quel tempo, anche oggi non è difficile affermare che la missione a noi affidata continua ad essere vasta e laboriosa; spesso essa ci appare molto più esigente e al di là delle nostre forze. E questo – lo dico subito – non è un aiuto a viverla con responsabilità ed efficacia.

Negli ultimi trent’anni, infatti, l’Istituto si è sviluppato considerevolmente e nel suo processo di crescita si è impegnato in tanti settori, su molti fronti e in tante e diverse realtà missionarie la cui vastità è evidente. L’immenso Vicariato dell’Africa centrale è diventato per noi ancora più immenso, con una presenza in quattro continenti e una diversità d’impegni missionari tale da farci credere di essere presenti su tutti i fronti della missione. Questo fatto, per alcuni di noi, è un bene, sembra rispondere al bisogno di affermare un ego, ci fa credere che siamo grandi missionari perché portiamo il Vangelo in tutti gli angoli del pianeta e in tutte le periferie dell’umanità, per usare un’espressione cara a Papa Francesco.

Alla vastità, bisogna poi aggiungere la laboriosità, la complessità di una missione che è esigente, sfidante e in profondo cambiamento per la frenetica trasformazione del mondo e della società. La missione sta cambiando senza darci il tempo di capire in quale direzione orientarci e il grande rischio sembra essere un’incapacità, da parte nostra, a essere in anticipo su questi mutamenti.

Ma la laboriosità che oggi la missione esige diventa sfida alla nostra creatività, alla nostra capacità di metterci in discussione, di sognare per intraprendere sentieri nuovi che possono costringerci a camminare su terreni sconosciuti, inauditi – come ci è stato detto qualche tempo fa – invitandoci a non vivere del lascito che abbiamo ereditato e che può ingannarci con una pretesa di onnipotenza missionaria.

Comboni, in quella lettera del 1873, si diceva titubante perché conosceva la sua piccolezza. Anche noi oggi stiamo diventando più consapevoli della nostra piccolezza, e non solo perché le statistiche ci ricordano la costante diminuzione del personale. Non penso sia solo questione di numeri. Credo che questa piccolezza possa farci capire che le nostre forze non saranno mai sufficienti per rispondere alle esigenze della missione e che il Signore non fa i suoi calcoli usando la matematica.

Sagrado CorazónAllora, come orientare il nostro sguardo, dove attingere le forze e la luce per vivere radicalmente la nostra vocazione missionaria comboniana?

Penso che per noi, oggi, la piccolezza debba essere misurata guardando alla nostra qualità di vita, alla coerenza nel portare avanti i nostri impegni personali e le opzioni di vita che abbiamo fatto, alla capacità di non essere superficiali nel vivere la nostra consacrazione religiosa per la missione, alla nostra totale disponibilità nell’andare a servire i più poveri, alla libertà di non lasciarci confondere dalle facili suggestioni del nostro mondo: consumismo, apparenza, superficialità, ecc.

Senza far riferimento a nessuno in particolare e senza voler rimproverare, penso che ognuno di noi debba riconoscere la propria povertà, la propria fragilità e il proprio limite, la tentazione di far diventare la missione qualcosa che mi serve e non invece quella realtà che mi chiama a donarmi senza condizioni e senza usare pretesti per farla diventare una “missione su misura”.

Ho una profonda ammirazione per tanti confratelli che vivono con enorme entusiasmo, dedizione e spirito di sacrificio in situazioni di indicibile violenza e pericolo. Sono quelle pietre nascoste di cui – ci ricorda Comboni – c’è bisogno per costruire la missione. È alla luce di queste testimonianze che dobbiamo misurare la nostra risposta alla chiamata che abbiamo ricevuto e riusciremo a scoprire quanto grandi, forti e capaci potremo essere per abbracciare la missione che ci viene affidata oggi.

Comboni dice con molta umiltà: “ho pensato che con le nostre forze non riusciremo mai”. Non è un’espressione di scoraggiamento, è anzi la convinzione di portare con sé una missione che non dipende da noi. “Allora ho gettato tutta la mia confidenza nel Sacro Cuore di Gesù”. Forse, e senza il forse, penso sia il momento per noi di fare quest’esperienza di abbandono e di fiducia, di fede e di apertura all’azione di Dio nella nostra vita, che non vuol dire rifugiarsi in una spiritualità che ci porta fuori dalla realtà o dalla responsabilità di impegnarsi nella costruzione del Regno.

Confidare nel Sacro Cuore di Gesù è, anche per noi oggi, la sfida che ci obbliga a sporcarci le mani nella trasformazione della nostra umanità, attraverso il nostro servizio missionario, senza dimenticare che l’unico e vero protagonista della missione è e sarà sempre il Signore.

Se Comboni ha voluto consacrare il suo Vicariato a questo Cuore, che non è altro che l’amore senza limiti di Dio per ognuno di noi e per tutti quelli ai quali ci manda come suoi missionari, penso che valga la pena vivere questa festa rinnovando la nostra disponibilità perché il Signore realizzi i suoi piani su di noi, riconoscendo che la missione che nasce dal suo Cuore ha un bel futuro. Per questo dobbiamo viverla nella fiducia che il Signore non ci deluderà.
Buona festa a tutti.
P. Enrique Sánchez G. mccj

La visione ecclesiale che emerge dal “Piano” di Comboni

Comboni

“Comboni – credendo nell’unità del genere umano e nel fatto che il Vangelo debba, perciò, essere annunciato a tutti – si pone in un atteggiamento di demistificazione profetica di quella forma culturale razzista…” (Prof. Fulvio De Giorgi, Consiglio di Direzione di Archivio Comboniano).

 

Collocazioni di contesto
Una riflessione attuale sul “Piano” di Comboni che non sia puramente storica, ma sia di tipo spirituale, pastorale, missionologico (che cioè assuma un punto di vista di fede, di appartenenza alla Chiesa cattolica e di ‘figliolanza’ comboniana) deve, comunque, partire da alcune collocazioni di contesto e non porsi su un piano di lettura diretta e immediata (cioè senza mediazioni), come se si trattasse di un testo scritto oggi. L’attualizzazione deve sfuggire ai rischi di un certo ingenuo fondamentalismo attualizzante: che sarebbe, nel migliore dei casi, una banalizzazione, ma correrebbe anche rischi di deformazione grave. Qualsiasi testo del tempo (non solo di Comboni) non può essere letto senza filtri di contesto: altrimenti chi, in quel momento storico, era – per esempio – antirazzista, rischierebbe perfino di apparire, oggi, razzista.

Non si tratta soltanto di tradurre un linguaggio ottocentesco in linguaggio corrente (con un’operazione che non è unicamente di semantica storica): anche se già solo questo semplice aspetto segnala un più vasto problema, quello cioè delle forme di continuità/discontinuità culturale (e spirituale) tra noi e i nostri Padri e le nostre Madri del passato, tra la nostra visione e la loro visione.

Comboni si collocava all’interno della Chiesa cattolica: ma anche noi oggi. E però la Chiesa cattolica è un organismo vivo che cresce: è perciò ‘cresciuta’ rispetto all’Ottocento. In questa crescita è compresa anche l’autoconsapevolezza: la stessa visione ecclesiale. Ecco allora che non possiamo ritrovarci ‘perfettamente’ nei panni ottocenteschi: altrimenti vorrebbe dire che tutto è fermo, che il cristianesimo non è vivo ma morto, che il nostro compito non sarebbe storico ma archeologico…

Attualità e profezia
Insomma è ben evidente che il paradigma ecclesiologico di Comboni, la sua visione ecclesiale, era quello del Vaticano I e non del Vaticano II e che la sua cultura, al cui interno si definivano tanti aspetti della medesima visione ecclesiale, era quella lombardo-veneta del XIX secolo e non quella del XXI. Ma, allora, cosa significa questa osservazione (ovvia) sul piano della nostra lettura? Quali insomma i tratti di continuità e di attualità e di profezia e quali quelli di discontinuità, nei quali c’è stato un superamento (cioè una crescita)?

Più gli elementi culturali di Comboni si avvicinano al Vangelo più c’è continuità: la Chiesa annuncia il Vangelo di Cristo come una proposta di alleanza liberatrice rivolta da Dio a tutto il genere umano (il che, e non era ovvio allora come non è ovvio oggi, implica l’unità del genere umano: c’è un solo genere umano e tutti gli uomini e tutte le donne sono figli e figlie di Dio, uguali in dignità personale). Così se, alla metà del XIX secolo, si formava, nel cuore della Europa, una forma culturale nuova che era il razzismo, Comboni era estraneo e ostile rispetto a questi processi culturali. Il razzismo implica due punti essenziali, come forma culturale: 1. Esistono le razze umane (in genere ridotte a tre); 2. Ci sono razze inferiori e razze superiori. Comboni – credendo nell’unità del genere umano e nel fatto che il Vangelo debba, perciò, essere annunciato a tutti – si pone in un atteggiamento di demistificazione profetica di quella forma culturale razzista. Su questo, pertanto, non solo c’è continuità, ma c’è una permanente attualità di tale approccio, poiché in forma esplicita o più spesso dissimulata permangono, ancora oggi, visioni razzistiche, che possono insinuarsi persino nella visione ecclesiale.

Discontinuità come crescita
Elementi culturali di discontinuità sono quelli, invece, più legati alle specificità di mentalità e di pensiero del tempo: un’ignoranza ‘geografica’, etnografica, culturale degli Europei rispetto ancora a tante parti del pianeta e a larghi strati di umanità; una presenza – pertanto – di fantasie mitiche e di luoghi comuni tradizionali (anche religiosi: come la cosiddetta ‘maledizione di Cam’) che colmavano questi vuoti cognitivi e che oggi possono apparire come ‘pregiudizi razzistici’ (pre-giudizi, sì, come tutti noi ne abbiamo; razzistici no, perché non partecipavano – come ho già detto – agli aspetti specifici di quella forma culturale).

Capire questa differenza è, sul piano metodologico, essenziale per inquadrare la riflessione sul “Piano” di Comboni, sulla sua visione ecclesiale e sulla sua attualità profetica.

Unità, utilità e semplicità
Se infatti partiamo da un’ottica razzista, allora riteniamo la civiltà europea come superiore e perciò destinata a dominare sulle altre: condannandole ad uno sviluppo ‘separato’ (apartheid) o ‘civilizzandone’ dall’alto e dall’esterno alcuni aspetti, per meglio dominarle e sfruttarle, ai fini dello sviluppo maggiore della Civiltà ritenuta superiore. Comboni nel “Piano” assumeva invece un opposto paradigma: quello dell’unità del genere umano. In questo quadro, è possibile che alcuni popoli (storicamente sono stati gli europei, ma potevano essere altri) arrivino prima, per casualità storiche, a conquiste da considerarsi positive (per esempio la scrittura, l’alfabetizzazione, la medicina, la scienza e la tecnica): queste conquiste allora vanno fatte conoscere a tutti, vanno condivise, messe a disposizione per ‘rigenerare’ tutta l’umanità, per migliorarne cioè l’esistenza reale, diminuendo tutte le forme di sofferenza, di povertà, di ingiustizia, ai fini insomma della utilità comune. Ma questa ‘civilizzazione’ (cioè ‘condivisione di conquiste di civiltà’) non va imposta dall’alto e dall’esterno: se così fosse, anche con le migliori intenzioni, si introdurrebbe un’asimmetria e perciò un possibile squilibrio e dominio. La civilizzazione/condivisione va proposta e realizzata dal basso e dall’interno, con un protagonismo in prima persona dei beneficiati, senza furbizie o mediazioni complicate, ma nella semplicità: solo così è ri-generatrice (cioè intrinsecamente emancipatrice). Gli esiti saranno, allora, sempre generanti e generatori, cioè creativi e innovativi, autoctoni e originali, non estrinsecamente simili (cioè as-similati) a quelli europei, ma neppure ad essi ostili: perché frutto di un incontro fraterno, in cui si ricerca il bene di tutti, e non di un incontro squilibrato (cioè, in realtà, di uno scontro di culture), in cui si cerca il bene solo di una parte (quella più forte).

I presupposti, dunque, della visione ecclesiale di Comboni nel “Piano” si possono riassumere in queste sue parole-simbolo, ancora attualissime: unità, utilità, semplicità.

L’approccio del Piano
Tale approccio del “Piano” è in effetti tanto più attuale oggi, in un mondo globalizzato e interdipen­dente (molto più di quanto non fosse nel XIX secolo), perché indica l’unica via possibile per uno sviluppo unitario ma non uniforme del genere umano, su un piano di nonviolenza e di condivisione sempre rispettosa dell’altro. L’approccio del “Piano” demistifica due prospettive che costituiscono, oggi, i due rischi maggiori di disumanizzazione: da una parte dinamiche di sviluppo diseguale, con logiche (come quelle del neoliberalismo) che tendono ad aumentare la forbice della ricchezza, con chiusure comunitariste e xenofobe, con il rifiuto della uguaglianza in diritti e in dignità personale; dall’altra un’occidentalizzazione culturale feroce, come massiccio diserbamento di ogni cultura locale, come omologazione universale, come mcdonaldizzazione del mondo.

Questo approccio del “Piano”, che appare in sintonia profetica con l’insegnamento sociale della Chiesa (e si pensi, solo, agli attuali indirizzi di papa Francesco), pur essendo stato formulato in un periodo in cui questa stessa espressione di “insegnamento sociale della Chiesa” non esisteva ancora, era, per Comboni, una conseguenza di una visione ecclesiale che si doveva radicare nel Vangelo di liberazione di Gesù di Nazareth. Al Vangelo va dunque, ancor oggi, sempre riportato, per meglio comprenderlo e attualizzarlo in fedeltà al carisma: è questo un essenziale criterio ermeneutico nella lettura odierna del “Piano”.

Di conseguenza, alcuni tratti essenziali della visione ecclesiologica del “Piano” (che, all’epoca, non erano per nulla né maggioritari né scontati, anche se potevano ricollegarsi ad una tradizione significativa di Propaganda Fide) appaiono profetici e, ancor oggi, portatori di rinnovamento evangelico: l’Implantatio Ecclesiae come fondazione di vere Chiese locali, con un clero indigeno; la parità di genere, in ogni ambito significativo, specialmente spirituale e di vita cristiana; l’importanza – ad intra e ad extra – del laicato cattolico.

Un discorso ampio, fecondo e ricco di possibili nuovi sviluppi – ma che mi limiterò, in questa sede, solo ad accennare – è infine quello dell’impianto pedagogico del “Piano” che, con originalità, combina elementi diversi: la portata emancipatrice dell’ istruzione per tutti; l’educazione come carità intellettuale; la pedagogia degli oppressi.

Visione ecclesiale armonicamente unitaria
Proprio tale impianto pedagogico consente una visione ecclesiale armonicamente unitaria – perché unitariamente fondata sulla “istituzione” (che significa formazione della coscienza) – di evangelizzazione e promozione umana: “L’istituzione che dovrà darsi a tutti gl’individui d’ambo i sessi appartenenti agli Istituti che circonderebbero l’Africa, sarà d’infonder loro nell’animo e radicarvi lo spirito di Gesù Cristo, l’integrità dei costumi, la fermezza della Fede, le massime della morale cristiana, la cognizione del catechismo cattolico, e i primi rudimenti dello scibile umano di prima necessità” (S 826).
Prof. Fulvio De Giorgi
(Consiglio di Direzione di Archivio Comboniano)

Incontro della Famiglia Comboniana presente in Spagna

Familia Comboniana

Nel fine settimana del 5 e 6 aprile, si è tenuto a Madrid il primo incontro di tutta la Famiglia Comboniana presente in Spagna: religiosi, religiose, secolari e laici comboniani riuniti attorno ad uno stesso carisma e alla figura di san Daniele Comboni, nel segno della celebrazione del 150° anniversario del “Piano per la rigenerazione dell’Africa” scritto da Comboni nel 1864.

Comboni dice nei suoi Scritti: “Nell’anno 1864 il 18 settembre, mentre mi trovavo a Roma e nella basilica di S. Pietro assistevo alla beatificazione di S. Margherita Maria Alacoque, come un lampo mi balenò il pensiero di proporre un nuovo Piano per la cristianizzazione dei poveri popoli neri, i cui singoli punti mi vennero dall’alto come un’ispirazione. In seguito esso ottenne il beneplacito di Sua Santità il Papa Pio IX, che lo fece rimettere alla S. Congregazione di Propaganda Fide. Fu tradotto in varie lingue e se ne fecero varie edizioni. Basandomi su questo Piano, la mia intenzione era di dare alla Missione tra i poveri neri dell’Africa Centrale una sistemazione di maggior vitalità e consistenza. Feci pertanto la proposta di fondare in Europa, in posto adatto, due Istituti per ambo i sessi, allo scopo di formare personale per la direzione di queste missioni dell’Africa Centrale, sia missionari come missionarie…” (S 4799).

È stata un’opportunità per riflettere assieme sulle intuizioni, presenze e forme di vivere la missione oggi come famiglia comboniana alla luce del Piano di Comboni e crescere come famiglia.

Come Famiglia Comboniana siamo eredi del grande “sogno di Comboni” che non ha risparmiato sforzi perché la sua opera di evangelizzazione dell’Africa Centrale andasse avanti: rendiamo grazie a Dio per l’opportunità che abbiamo avuto di condividere esperienze e per averci chiamato alla vocazione missionaria.

Grazie a tutte e tutti coloro che hanno reso possibile questo incontro.
LMC Spagna

 

Il Piano di Comboni e la ministerialità

ComboniFacendo una lettura attualizzata – in base alle sfide missionarie di oggi – del Piano di Daniele Comboni, scopriamo due intuizioni profetiche il cui valore, col passare del tempo, non ha fatto che crescere:

  1. “La rigenerazione dell’Africa con l’Africa” (Scritti 2753).

Daniele Comboni è convinto, attraverso la sua esperienza e quella di altri grandi apostoli, che per questa “rigenerazione” non c’è altra strada se non quella di coinvolgere il popolo africano come autentico protagonista della propria storia e costruttore della propria liberazione.

  1. “[Trovare] un eco di approvazione, ed un appoggio di favore e di aiuto nel cuore dei cattolici di tutto il mondo, investiti e compresi dallo spirito di quella sovraumana carità che abbraccia la vastità dell’universo, e che il Divin Salvatore è venuto a portar sulla terra” (S 2790).

Con audacia ancora maggiore, Daniele Comboni dichiara che la realizzazione di questo Piano per la rigenerazione dell’Africa ha bisogno della collaborazione incondizionata di tutte le istanze della Chiesa e della società civile, superando qualsiasi tipo di frontiera, pregiudizio o meschina argomentazione.

In queste pagine ci occuperemo di quest’ultimo aspetto, cioè dell’urgenza di unire l’impegno di tutti i “cattolici” a favore di un’unica missione. Il termine “ministerialità” (ministerium = diakonía = servizio) ci aiuta a tradurre meglio il pensiero e la prassi di Daniele Comboni, anche se siamo consapevoli del fatto che nel Piano egli non utilizza mai questa parola e che si tratta di un concetto che non corrisponde né al linguaggio barocco né alla teologia tridentina del suo tempo. Per “ministerialità” intendiamo la responsabilità missionaria di tutti i battezzati, senza eccezioni, di far emergere il Regno di amore e di giustizia (fraternità universale) instaurato dalla persona e dall’avvenimento di Gesù Cristo in mezzo a noi. Daniele Comboni non proponeva semplicemente una strategia organizzativa ma un modo di essere Chiesa matura.

Andiamo direttamente al testo del Piano, per renderci conto dell’ampiezza del suo orizzonte (cfr. l’ultima edizione datata Verona 1871, S E2741-2791):

  1. Qual è il fondamento teologico che Daniele Comboni pone alla base del suo Piano?

Si tratta di un fondamento cristologico e di una risposta martiriale:

  • Il cattolico guarda all’Africa “non attraverso il miserabile prisma degli umani interessi, ma al puro raggio della sua Fede” e lì scopre “una miriade infinita di fratelli appartenenti alla sua stessa famiglia, aventi un comun Padre su in cielo…”. Allora “trasportato egli dall’impeto di quella carità accesa con divina vampa sulla pendice del Golgota, ed uscita dal costato del Crocifisso per abbracciare tutta l’umana famiglia…” sente che si fanno più frequenti i palpiti del suo cuore e “una virtù divina [sembra spingerlo] a quelle barbare terre, per stringere tra le braccia e dare il bacio di pace e di amore a quegl’infelici suoi fratelli…” (S 2742).
  • E proprio per la forza di questa carità che sgorga dal costato di Cristo, Daniele Comboni è disposto a “versare il nostro sangue fino all’ultima stilla” (S 2753) per i suoi fratelli più poveri e abbandonati. Possiamo quindi dire che la motivazione che muove tutta la vita di Comboni è il riflesso di una fede solida nella redenzione che il mistero pasquale di Cristo ci ha meritato e che costituisce il principio di ogni azione missionaria. In altre parole, la “ministerialità” (servizio missionario) che Daniele Comboni chiede nel suo Piano è legata a Gesù Cristo, servo per eccellenza del Padre, per realizzare il suo Piano di salvezza, e alla Chiesa, che è inviata a servire l’umanità per continuare la missione misericordiosa del suo Signore.
  1. Quale visione ha, della Chiesa, Daniele Comboni nel chiedere un impegno di tale portata ai cattolici, senza distinzioni?

È una sfida che anche quell’epoca, come oggi, si presenta quasi impossibile, soprattutto se si pensa allo scoraggiamento e alla frustrazione che si annidano in molti responsabili ecclesiastici.

L’amore che Comboni nutre per la Nigrizia lo porta a chiedere concretamente:

  • l’aiuto e la cooperazione di Vicariati, Prefetture e Diocesi già stabilite attorno all’Africa (S 2763);
  • la creazione di istituti per bambini e bambine di razza nera, in luoghi strategici attorno a tutta l’Africa (S 2764-65);
  • che gli Ordini religiosi e le istituzioni cattoliche maschili e femminili approvate dalla S. Congregazione di Propaganda Fide dirigano questi Istituti (S 2767);
  • la fondazione in Europa di piccoli collegi per le missioni africane per aprire la via dell’apostolato dell’Africa a tutti gli ecclesiastici secolari (diocesani) delle nazioni cattoliche che dovessero essere chiamati da Dio a una tanto sublime e importante missione (S 2769);
  • la possibilità di stabilire Istituti religiosi femminili dell’Europa nei paesi dell’interno dell’Africa meno pericolosi, visto che la donna europea ha dimostrato una maggiore resistenza rispetto ai missionari, dovuta alla sua capacità di adattamento fisico, al suo temperamento e alle sue abitudini di vita familiare e sociale (S 2780);
  • che si costruisca, per coordinare tutto questo progetto, una società composta di persone intelligenti, generose e molto attive, capaci di trattare con tutte le Associazioni che possano assicurare i mezzi economici e materiali (S 2785) e convochino tutte le forze del cattolicesimo a favore dell’Africa (S 2784-88).

L’obiettivo che Daniele Comboni vuole raggiungere è di dare dignità all’intero popolo africano:

  • non solo ai neri dell’Africa interiore, ma anche a quelli delle coste e di tutte le altre parti del grande Continente… a tutta la stirpe dei neri (S 2755-56);
  • i giovani neri saranno formati come Catechisti, Maestri e Artigiani – virtuosi e abili agricoltori, medici, flebotomi, infermieri, farmacisti, falegnami, sarti, muratori, calzolai, ecc. (S 2773);
  • le giovani nere, da parte loro, riceveranno formazione come Istitutrici, Maestre e donne di famiglia che devono promuovere l’istruzione femminile… (S 2774);
  • nel gruppo dei catechisti si creerà una sezione con gli individui che si distinguono per pietà e sapere, nei quali si scopra una predisposizione allo stato ecclesiastico (clero indigeno), e questa sarà destinata all’esercizio del ministero divino (S 2776);
  • nel gruppo delle giovani nere, tra quelle che non sentono inclinazione allo stato coniugale si creerà la sezione delle Vergini della Carità, formata da quante si distinguono per pietà e conoscenza pratica del catechismo, delle lingue e dei lavori femminili (S 2777);
  • allo scopo di coltivare quelle menti che si dovessero distinguere, per formarle a diventare abili e illuminati responsabili delle Missioni e delle Cristianità dell’interno della Nigrizia, si potranno fondare piccole Università teologiche e scientifiche nei punti più importanti della periferia del grande Continente africano (Algeri, il Gran Cairo, St. Denis nell’isola della Riunione, e davanti all’Oceano Atlantico). In altri punti si potrebbero fondare, col passare del tempo, piccoli laboratori di perfezionamento per gli Artigiani considerati più abili (S 2782-83).

Riassumendo, in questa proposta di Daniele Comboni troviamo una visione ecclesiologica estremamente aperta e integrale, che tiene conto di tutti i ministeri (da quello del Papa fino a quello del più umile catechista o artigiano) quando si tratta di portare avanti la missione a favore dei più bisognosi. E non per semplice filantropia né per un senso romantico di ingenuo eroismo ma per la solida motivazione che scaturisce dall’evento battesimale, che ci rivela esistenzialmente l’amore di Dio e ci rende fratelli nella stessa vocazione di santità e capacità. Questo modo pratico di creare ministerialità troverà eco solo un secolo più tardi nella teologia postconciliare con il Vaticano II.

Anche se gli aspetti che abbiamo indicato meriterebbero uno studio più completo, per motivi di spazio presentiamo, sotto forma di decalogo, una serie di insegnamenti che possiamo trarre dal Piano di Comboni:

1) Daniele Comboni riconosce l’importanza del ministero del Papa (con il quale dialoga personalmente in diverse occasioni) e di Propaganda Fide. Ad essi indirizza il suo Piano dando prova di comunione ecclesiale.

2) L’audacia dei suoi “sogni” nasce dal suo confrontarsi con la realtà della sofferenza e dell’oppressione in cui vivono i suoi fratelli e sorelle. Il suo Piano è frutto della solidarietà all’interno di un metodo missionario di incarnazione.

3) Dietro il suo atteggiamento vi è la capacità di interagire con qualsiasi genere di persone con maturità umana e spirituale. La ministerialità del Piano presuppone persone integrate e capaci di rapporti autentici.

4) È presente un’antropologia che va oltre la sua epoca e guarda alle persone riconoscendone la piena dignità.

5) Nel Piano emerge un modello di essere Chiesa in comunione e partecipazione, nata dalla consacrazione battesimale e dalla comune vocazione alla vita piena in Dio.

6) Il laicato trova la sua totale espressione ministeriale. Non in senso piramidale ma come popolo di Dio in corresponsabilità.

7) La donna, in particolare, trova il dovuto spazio per la sua valorizzazione in quanto tale e nella sua consacrazione. In questo, Comboni è veramente un pioniere.

8) Il lavoro di evangelizzazione che il Piano lascia intravedere è integrale, nessuna dimensione umana viene esclusa. Tutte le dimensioni umane rientrano nel progetto di Dio.

9) L’inserzione strategica che viene proposta perché il lavoro sia possibile senza ulteriori tragedie, presuppone una preoccupazione di pianificazione e valutazione encomiabili.

10) Tutto questo viene circoscritto nel mistero della Croce, sapendo che si tratta di una consegna consapevole della propria vita ma soprattutto confidando nel fatto che le opere di Dio nascono e crescono ai piedi del calvario. E che è lo Spirito Santo che guida – ieri e oggi – la missione.

P. Rafael González Ponce mccj

Cerimonia di apertura a Carapira in occasione del 150° anniversario del Piano del Comboni

Cruz 150 anosQui nella parrocchia di Carapira ogni mercoledì si celebra la Messa con gli studenti cattolici della  Industrial School (Istituto Industriale) di Carapira e con le ragazze dell’istituto femminile delle suore Comboniane, che sono studentesse della vicina scuola elementare.

Il 19 febbraio di questa settimana, la celebrazione ha assunto speciale connotazione per l’apertura dell’anno di riflessione in occasione del 150° anniversario del Piano di Comboni. Anticipando la cerimonia ufficiale prevista per domani, come suggerito dall’Istituto dei Missionari Comboniani, durante la celebrazione è stata presentata la croce a memoria di questo importante anniversario, che è stata donata alle comunità della provincia MCCJ presenti in Mozambico;  ai presenti si è spiegato il significato e le motivazioni di tale dono. Padre Gino Pastore, che ha presieduto alla Messa, ha rilevato la forza e il coraggio di Comboni e l’ispirazione ricevuta nel realizzare il Piano con il motto “Salvare l’Africa con l’Africa” e ha incoraggiato e motivato gli studenti presenti a essere protagonisti della propria storia, per la costruzione di una società migliore. P. Gino ha inoltre lanciato una sfida  agli studenti della Industrial School che ha compiuto 50 anni dalla sua fondazione, secondo l’ispirazione di San Daniele Comboni che è quella che anche loro scrivano il Piano per la Industrial School di Carapira e, ciò, nell’osservanza di tale motto.

Mercoledì 20, durante la celebrazione della Messa con il gruppo missionario, p. Paulo Emanuel ha richiamato l’attenzione su quella data leggendo alcuni punti della lettera del Padre Generale MCCJ e, riflettendo su un passo del Vangelo, ha invitato a non avere, anche solo inconsciamente, la medesima tentazione di Pietro nell’essere di impedimento alla realizzazione del piano di Dio nelle nostre vite e nella vita della gente.

Dopo cena, il gruppo si incontrato in casa degli LMC per celebrare la giornata, condividendo cibo e conversando. Come simbolo di questo incontro per incoraggiare la riflessione personale e comunitaria, ciascun missionario ha ricevuto un messaggio contenente una domanda presente nella lettera del Padre Generale MCCJ inviata in occasione del 150° anniversario del Piano, nella parte dove egli invita a scrivere il nostro Piano.

Possa l’esempio di San Daniele Comboni ispirare nuove vocazioni missionarie e lo Spirito di Dio, il medesimo che guidò San Daniele Comboni nella preparazione del Piano, illuminarci e guidarci nel cammino per la costruzione del regno di Dio.

Restiamo uniti!

Laici Missionari Comboniani del Mozambico