Laici Missionari Comboniani

Jesús Ruiz Molina, vescovo ausiliare di Bangassou

Jesus Ruiz Il missionario comboniano spagnolo Jesús Ruiz Molina è stato ordinato vescovo ausiliare di Bangassou lo scorso 12 novembre nella Repubblica Centroafricana. La celebrazione ha avuto luogo a Bangui, perché la sua nuova città è raggiungibile solo in elicottero. In realtà, le autorità politiche e altri invitati non volevano andare a Bangassou a causa dell’insicurezza della zona. Dopo il Ciad e la città centroafricana di Mongoumba, Jesús Molina ha accettato di essere destinato in una località gravemente colpita dalla violenza di una guerriglia senza fine, per collaborare con il vescovo titolare Juan José Aguirre Muñoz, altro comboniano spagnolo, trovare strade per la pace e la riconciliazione e per servire i più poveri.

Dopo 25 anni in Africa, lei è stato nominato vescovo…

Jesus Ruiz

È stata una doccia fredda, anzi gelata, perché non mi sento degno né umanamente attratto. Alla fine di quest’anno avevo previsto il mio rientro in Spagna per lavorare nella pastorale vocazionale e con Giustizia e Pace; allo stesso tempo avrei potuto occuparmi dei miei anziani genitori e rimettermi un po’ in forma in tutti i sensi. Affidandomi a Dio ho detto sì e questo ha cambiato completamente la mia vita, che è già unita a questo popolo in forma sacramentale fino alla fine.

Bangassou è la zona dell’Africa più complessa nella quale è stato?

Ho vissuto 15 anni nella savana del Ciad in un contesto difficile, con carestie e guerre. Ho passato questi ultimi nove anni nella selva con i pigmei e con una popolazione poverissima. Bangassou in questo momento è una delle zone più in guerra dell’Africa. Vi si può arrivare solo in elicottero; le dodici parrocchie che abbiamo sono state saccheggiate dai 14 gruppi armati che si contendono il paese. La violenza e i massacri sono all’ordine del giorno. La maggior parte della popolazione è sfollata e la maggior parte dei sacerdoti e delle suore sono fuggiti. Nella cattedrale abbiamo passato quattro mesi senza celebrare la Messa perché abbiamo accolto 2100 rifugiati musulmani che gli antibalaka vogliono uccidere. Nessun funzionario dello stato accetta di venire qui. Per questo abbiamo deciso di celebrare la mia consacrazione episcopale a Bangui. La mia gente di Bangassou non potrà essere presente ma l’8 dicembre celebreremo una Messa di rendimento di grazie, per ringraziare Dio che non ci abbandona nel nostro dolore.

¿Quale deve essere, secondo lei, la missione di un vescovo in un luogo come Bangassou e, in concreto, la sua?

Non ho nessun piano prestabilito. Vado per stare con questa gente che soffre. Per me, essere vescovo non è una promozione, è la fiducia in Colui che amo e che mi invita a seguirlo sul cammino che sale a Gerusalemme: “Vieni e seguimi”. Non ho mai studiato per essere vescovo, la gente mi insegnerà. Il vescovo è colui che non abbandona il gregge quando arriva il lupo, che veglia su tutti, quelli di dentro e quelli di fuori, che denuncia la morte dell’ingiustizia e annuncia la salvezza che è vita in Gesù Cristo. Oggi a Bangassou abbiamo bisogno di pace, di molta pace per curare le tante ferite del corpo e, soprattutto, dello spirito; abbiamo bisogno di riconciliarci e di perdonarci; abbiamo bisogno di costruire assieme un futuro per questa popolazione che è traumatizzata, per questo continueremo a sforzarci per mettere in piedi le scuole, curare gli ammalati, occuparci degli ultimi e degli abbandonati; staremo dalla parte dei più deboli, lavoreremo per la giustizia, unica garanzia di una pace autentica, e in tutto ciò continueremo ad annunciare la buona notizia di Gesù, che è venuto perché abbiamo la vita e vita in abbondanza. Al mio popolo oggi hanno strappato questa vita.

Lei ha Mons. Aguirre e il card. Nzapalainga come referenti…

Indubbiamente avere dei referenti come Aguirre o il card. Nzapalainga, che quotidianamente incarnano il Vangelo, mi incoraggia e mi stimola nella mia condizione di novizio. Ma sono tanti i maestri che mi incoraggiano, dalle suore che lavorano dalla mattina alla sera in mezzo ad una violenza enorme ai preti locali che rischiano la loro vita pur di salvare qualcuno; quei cristiani che vivono la misericordia nel quotidiano… il popolo di Dio è un grande stimolo per un pastore, il popolo ci insegna ad essere pastori.

Lei è sempre stato accanto ai poveri, è questa la sua opzione preferenziale?

Jesus Ruiz

Questa opzione preferenziale per gli ultimi, quelli che non contano, gli scartati, come dice il Papa, viene da Gesù di Nazareth. Gesù ci ha mostrato un Dio imparziale che si china gratuitamente e amorevolmente verso quelli che il mondo disprezza. E io, che sono uno che ricerca sempre e non è mai soddisfatto, ho scoperto che proprio in ciò che questo mondo disprezza si trova il vero volto di Dio. I poveri, gli umili, gli affamati, quelli che piangono, i perseguitati, quelli che invocano giustizia… sono loro la Bibbia fatta carne. Ho ricevuto questo grande tesoro di poterli servire un po’ e sono contento di essere il grande beneficiario, poiché sono i poveri che mi danno Dio.

Come missionario comboniano il suo legame con l’Africa è molto forte. È ancora il continente dimenticato del nostro tempo?

L’Africa non conta nell’organigramma economico mondiale; il terribile attentato di Barcellona è stata una notizia internazionale, eppure, lo stesso giorno, centinaia di persone assassinate nella mia diocesi non hanno avuto neanche una riga dalla stampa. Un sottile neocolonialismo si impone oggi in Africa; le potenze mondiali si contendono senza scrupolo le sue ricchezze, provocando guerre, distruggendo culture, sterminando intere popolazioni… Ma l’Africa è vita con la maiuscola. L’origine dell’umanità è in Africa e, ripeto, il futuro di questa umanità passa per l’Africa.

Jesus Ruiz Vescovi della Repubblica Centroafricana.

Oltre la Collaborazione: sotto lo sguardo di Comboni

Familia Comboniana

“Il tutto è più della parte,

ed è anche più della loro semplice somma”

(EG 235).

Carissimi/e fratelli e sorelle e laici missionari comboniani

La bellezza e la gioia dell’incontro ci spinge ad aprire cammini nuovi nella collaborazione tra gli Istituti fondati da Comboni o che a lui si ispirano.

In un mondo dove si costruiscono muri che separano e dividono, un mondo carico di preconcetti a causa delle differenze di razze, lingue e nazioni, e che fa fatica ad aprire la porta a chi è differente, sentiamo urgente l’invito di Gesù all’unità e alla comunione: “che siano uno perché il mondo creda” (Gv 17,21). Questa unità non è solo un invito a lavorare con gli altri (collaborare), ma anche ad andare in profondità nelle relazioni e a cercare cammini nuovi d’incontro non basati sulle affinità di carattere o di interessi, ma sul vangelo che ci chiama ad aprirci all’accettazione dell’altro con i suoi limiti, le sue debolezze, ma anche la sua ricchezza e bellezza, in vista di una missione più feconda e generativa.

Gli ultimi decenni hanno portato profondi cambiamenti sociopolitici che ci sfidano e ci chiamano a cercare nuove strutture per rendere la nostra missione più attuale e significativa. I movimenti popolari chiedono partecipazione attiva nei processi di decisione. Questo è vero non solo nella società civile: quest’ondata di valori democratici è entrata anche nella Chiesa. La realtà laicale è sempre più presente in diversi ambiti ministeriali che tempo fa erano di dominio esclusivo dei preti o dei religiosi e delle religiose e contribuisce alla missione offrendo un angolo di visuale proprio, che aiuta a dare una lettura più profonda della realtà. Insieme ai laici possiamo raggiungere ambiti nei quali la presenza comboniana è desiderata.

Riuniti come famiglia comboniana il 2 giugno 2017, in occasione dell’incontro annuale dei Consigli generali, per una giornata di riflessione, preghiera e condivisione, ci sentiamo interpellati a confermare e rinnovare il nostro desiderio di imboccare un cammino di collaborazione più profonda tra noi. Un cammino già iniziato da molto tempo come famiglia comboniana, ma che è sempre necessario rinnovare e approfondire.

Abbiamo fatto memoria del documento sulla “Collaborazione per la missione”, del 17 marzo 2002, in occasione dell’anniversario della beatificazione di Daniele Comboni. In questa lettera sono sviluppati in profondità non solo il cammino fatto e le “indicazioni operative”, ma soprattutto i fondamenti evangelici e comboniani della collaborazione. Infatti lo Spirito di Gesù è lo Spirito di unità che Comboni ha desiderato fin dall’inizio per la sua famiglia, “piccolo cenacolo di apostoli… che splendono insieme e riscaldano” rivelando la natura del Centro da cui emanano, ossia il Cuore del Buon Pastore (S 2648).

Familia CombonianaDurante la nostra riflessione, ci siamo resi conto che un lungo cammino di collaborazione è stato fatto e si fa ancora in molti modi e situazioni diverse della vita dei nostri Istituti: basti pensare alla condivisione a livello di segretariati e uffici generali, ma anche a livello di province attraverso la partecipazione alle assemblee provinciali, ritiri comuni, celebrazioni comboniane, corsi di formazione permanente. Ci sono anche dei begli esempi di riflessione e azione pastorale congiunta nei luoghi dove vivono insieme membri dei nostri Istituti e dei LMC.

Sentiamo intensamente che il desiderio di rivitalizzare il nostro essere e fare missione insieme è radicato nella natura della persona umana – essere in relazione – nella Parola di Dio e nell’eredità lasciata dal nostro fondatore Daniele Comboni. Egli voleva che tutta la Chiesa si impegnasse come un corpo solo nell’evangelizzazione dell’Africa: “tutte le opere di Dio, che separate le une dalle altre producono scarsi ed incompleti frutti, ed invece unite insieme e dirette all’unico scopo di piantare stabilmente la fede nell’Africa interna, prenderebbero maggior vigore, si svilupperebbero più facilmente e diverrebbero efficacissime ad ottenere lo scopo bramato”(S 1100).Vari sono i suoi appelli a questa collaborazione e, guardando al suo esempio, sentiamo risorgere più vivamente in noi questo spirito di collaborazione.

Siamo consapevoli che in questo cammino ci sono anche degli scogli che possono portarci allo scoraggiamento, come un’insufficiente maturità umana e affettiva, l’autoreferenzialità, il protagonismo, l’individualismo, la mancanza d’identità, la condivisione dei soldi. Tuttavia, queste situazioni sono allo stesso tempo una sfida a cercare insieme e con creatività nuove forme di collaborazione. Ci piace menzionare alcuni vantaggi di un lavoro d’insieme come Istituti comboniani: la bellezza insita nella collaborazione, la complementarietà, l’arricchimento reciproco, la ministerialità, la testimonianza del vivere e del lavorare in comunità – uomini e donne – con nazionalità e culture diverse… In questo modo non solo diventiamo testimoni di unità nella diversità, ma siamo seme di nuove comunità cristiane di fratelli e sorelle testimoni della Parola che annunciamo.

Abbiamo un bel carisma comune che è cresciuto e si è sviluppato in diverse espressioni. Così, l’ispirazione di Comboni cammina nella storia per diventare annuncio del Vangelo a ogni generazione laddove i popoli sono emarginati. Il carisma cresce e si rinnova quando è condiviso con altri che lo ricreano nella particolarità di ogni stile di vita cristiano. La diversità non è una minaccia alla forma propria dell’essere Comboniani, ma rafforza il senso di appartenenza quando è vissuto con semplicità e dando spazio all’altro.

Ci permettiamo con umiltà di sottolineare alcuni aspetti nei quali sentiamo necessario uno sforzo creativo e audace per migliorare la collaborazione a livello di persone, comunità, province e Direzione Generale: “bisogna sempre allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi” (EG 235).

Ci impegniamo:

  • a conoscere di più la storia dei nostri Istituti, facendo memoria con gratitudine delle meraviglie di Dio;
  • a conoscere le persone e la vita attuale dei nostri Istituti, comunicando quello che siamo e quello che facciamo, attraverso i mezzi che abbiamo per una maggiore condivisione delle nostre attività e progetti pastorali e missionari, apprezzando gli sforzi che già si fanno;
  • a riflettere insieme sulla missione comboniana oggi nel mondo: nuovi paradigmi di missione, ministerialità (attraverso pastorali specifiche) e interculturalità. Più che dare delle risposte ai problemi, bisogna fermarsi a riflettere per offrire delle visioni ai nostri Istituti;
  • a iniziare delle comunità ministeriali, intercongregazionali (o della famiglia comboniana), dove si viva nel segno della fiducia reciproca. Guardando al futuro, pensare a come si possono riconfigurare la Famiglia Comboniana per testimoniare meglio un lavoro di insieme;
  • a lavorare insieme a livello di formazione nell’iniziazione dei nostri candidati/e al carisma e spiritualità comboniana, e condividendo corsi e incontri di formazione permanente quando sia possibile (è già stata scritta e distribuita una lettera sul tema a tutti i formatori dei mccj durante l’Assemblea della Formazione di Maia, Portogallo in luglio 2017);
  • ad approfondire la nostra spiritualità comboniana e a favorire momenti di discernimento e preghiera, nell’ascolto della Parola e dei segni dei tempi, in occasioni speciali della vita dei nostri Istituti, promovendo incontri sulla spiritualità comboniana;
  • a rispondere insieme a situazioni di emergenza o ad altre che implichino uno sforzo comune.

In occasione del 150º della nascita dell’Istituto dei Missionari Comboniani e del 25º dell’inizio della configurazione dei Laici Missionari Comboniani, ci sentiamo spinti dallo Spirito a ribadire lo sforzo di collaborazione.

Nella certezza che quanto detto sopra rappresenti alcuni dei possibili cammini sulla strada della collaborazione, vi invitiamo ad essere creativi e generosi, aprendoci al soffio dello Spirito Santo che fa nuove tutte le cose e ci spinge ad andare avanti con fiducia: “Lo Spirito è il vento che ci spinge in avanti, che ci mantiene in cammino, ci fa sentire pellegrini e forestieri, e non ci permette di adagiarci e di diventare un popolo ‘sedentario’” (Papa Francesco, udienza 31 maggio 2017).

Familia Comboniana

Roma, 10 ottobre 2017

 

 

Madre Luigia Coccia (Sup. Gen.)

Sr. Rosa Matilde Tellez Soto

Sr. Kudusan Debesai Tesfamicael

Sr. Eulalia Capdevila Enriquez

Sr. Ida Colombo

 

Dalessandro Isabella (Resp. Gen.)

Dal Zovo Maria Pia

Galli Mariella

Rodrigues Pascoal Adilia Maria

Ziliotto Lucia

 

Sig. Alberto de la Portilla (Coordinatore Comitato Centrale del LMC)

 

Tesfaye Tadesse Gebresilasie (Sup. Gen.)

Jeremias dos Santos Martins

Ciuciulla Pietro

Bustos Juárez Rogelio

Fr. Lamana Cónsola Alberto

Edizione tedesca degli Scritti (Schriften) di San Daniele Comboni

Escritos Comboni en AlemánE’ stato “un parto piuttosto faticoso” ma ne valeva la pena. L’ultimo dei figli di una famiglia diventa spesso il bambino prediletto di tutti. Ora, in occasione della festa di San Daniele Comboni, il 10 ottobre 2017, i suoi scritti e le lettere sono stati pubblicati anche in tedesco. Sono stati presentati ai confratelli e agli amici durante il Simposio Missionario il 7 e 8 ottobre 2017 a Ellwangen. I Superiori provinciali o singoli confratelli che desiderano avere un esemplare, possono rivolgersi a P. Anton Schneider, vice-provinciale.

Ringraziamo tutti quelli che hanno contribuito e lavorato senza sosta perché si realizzasse questa edizione: in particolare P. Georg Klose e P. Alois Eder per la traduzione e i responsabili della redazione finale, la signora Andrea Fuchs e P. Anton Schneider.

Speriamo che questo sforzo della DSP porti frutti abbondanti, cioè, che leggendo e meditando le lettere di Comboni diventi più viva e presente la sua figura in ciascuno di noi e in mezzo a noi e si rafforzi così la nostra identità comboniana.

Escritos Comboni en Alemán

 

comboni.org

Grazie, san Daniele Comboni, per aver fondato l’Istituto

Comboni

Carissimi confratelli, BUONA FESTA di san Daniele Comboni!
In quest’anno in cui celebriamo i 150 anni di fondazione del nostro Istituto, una delle belle cose che contempliamo è la celebrazione della santità di Comboni nelle comunità cristiane delle Chiese locali in cui viviamo e alle quali partecipiamo.

Comboni, bendito é Deus em teu nome”, “Comboni, Dio è benedetto nel tuo nome”: così cantavano, carissimi confratelli, i nostri parrocchiani di Curitiba che ho incontrato durante la mia visita alla provincia e ai confratelli del Brasile. Sì, una Chiesa locale del Brasile, molto lontana dall’Africa, benediceva Dio e lodava san Daniele Comboni. Che bello che san Daniele Comboni, nostro Padre e Fondatore, sia diventato una figura così attraente, grazie alla condivisione che ne è stata fatta da parte dei Comboniani, delle Comboniane, delle Secolari Missionarie Comboniane e dei Laici Missionari Comboniani. Sì, i santi e le sante parlano a tutti, ovunque. In Mozambico, dove si celebravano, assieme ai 150 anni di vita dell’Istituto, i 70 anni di presenza e di generoso servizio dei Comboniani, nella parrocchia di Benfica-Maputo, i bravi giovani del coro cantavano “Continente Africano alegremo-nos e cantemos, o mundo inteiro alegre-se e cante dando graças ao Senhor. Foi um profeta no seu tempo. Denunciou a escravidão. Ouviu o grito dos Africanos”, “Continente Africano, rallegriamoci e cantiamo, il mondo intero gioisca e canti, rendendo grazie al Signore, perché Comboni è stato profeta nel suo tempo. Ha denunciato la schiavitù e ha ascoltato il grido degli Africani”.

Grazie Comboni! Grazie Africa, perché hai modellato Comboni e ne hai fatto un santo e generoso Uomo di Dio.

Carissimi confratelli, in quest’anno in cui celebriamo i 150 anni della fondazione del nostro Istituto missionario, vogliamo ringraziare Dio per il dono di san Daniele Comboni e per il dono dei confratelli che si sono consumati e donati totalmente per il popolo di Dio nella missione. Ringraziamo i nostri confratelli uccisi mentre erano impegnati al servizio del Vangelo e della missione. Vogliamo dire loro GRAZIE: essi sono diventati ‘santi e capaci’ “Santi e capaci. L’uno senza dell’altro val poco per chi batte la carriera apostolica. Il missionario e la missionaria non possono andar soli in paradiso. Soli andranno all’inferno. Il missionario e la missionaria devono andare in paradiso accompagnati dalle anime salvate. Dunque primo santi, cioè, alieni affatto dal peccato ed offesa di Dio e umili: ma non basta: ci vuole carità che fa capaci i soggetti” (Scritti 6655).

Nel contesto dei 150 anni del nostro Istituto, sarebbe molto bello dedicare un momento di preghiera di ringraziamento per questi nostri confratelli “santi e capaci”, che si sono consumati per il Regno di Dio in mezzo ai popoli a cui erano stati mandati. Contemplare questi nostri confratelli santi e capaci, ci provoca a chiederci: e io, ho la stessa disponibilità a fare un cammino di vita in continua conversione? Aspiro alla santità missionaria e alla capacità evangelica che contribuisce alla vita dei miei fratelli e delle mie sorelle con cui costruiamo il Regno di Dio, al nostro mondo così bisognoso e ferito?

Pensando ai nostri confratelli “santi e capaci” ci accorgiamo di avere un profondo e ricco pozzo di spiritualità missionaria e comboniana al quale attingere. Abbiamo moltissimi confratelli di tutte le età, di tutte le culture e di tutte le razze che ieri e oggi hanno vissuto e vivono imbevuti di questa grande spiritualità e sono diventati esemplari. “I missionari comboniani identificati, generosi e disposti a dare la vita per Cristo e per la missione sono tanti; senza rumore si spendono ogni giorno nei vari servizi che sono loro affidati” (AC 2015, n. 14).

In quest’anno in cui celebriamo i 150 anni del nostro Istituto, vorrei menzionare quattro confratelli e una consorella il cui processo di beatificazione e canonizzazione, all’interno delle comunità cristiane e della Chiesa, è già cominciato.

“Santi e capaci” nell’evangelizzazione: “Dalla mia vita dipende la salute di tante anime; tanto più io sarò santo, tante più ne salverò… Molto fa chi molto ama e molto ottiene chi molto soffre. Davanti alla Madonna di Lourdes ho chiesto la grazia del martirio”, “O Cuore Sacratissimo di Gesù, io mi chiudo nella piaga del vostro dolcissimo costato e ne do le chiavi alla mia cara madre Maria e la prego di non aprirmi se non per venire a godervi per tutta l’eternità(Mons. Antonio Maria Roveggio, dal diario personale).

“Santi e capaci” nella vita di comunità: “Tra me e i confratelli due volte mi ricordo di aver insistito, e anche con un po’ di calore, nel mio modo di vedere, così per due minuti può darsi che l’armonia non sia stata delle più dilettevoli, ma Deo gratias; tutte e due le volte, seduta stante, li ho pregati di perdonarmi la mia furia, e così loro hanno detto: sì, sì, va bene. Se qualche rara volta succede di metter acqua sul fuoco degli altri lo si fa volentieri, tanto più che costa meno” (Fr. Giosuè dei Cas, 13.1.1927, lettera al Sup. Gen., lettera d’ufficio).

“Santi e capaci” nella carità: “La santità è l’albero e l’amore il suo frutto. Più ci sforziamo di amare, conoscere, servire Dio e più ci sentiamo attratti, come da calamita, a servire Lui nella persona di tutti i bisognosi, massimamente i più lontani e i più sofferenti” (P. Bernardo Sartori, lettera da Otumbari, 19.1.1979).

“Santi e capaci” nel desiderio di vivere il Vangelo: “Resta che devo continuare nello sforzo di vivere la presenza di Gesù nel mio cuore e chiedermi frequentemente cosa farebbe Lui al mio posto. Mi ha colpito il pensiero di ascoltare la parola di Dio senza difese, ed il colloquio con Gesù nel tabernacolo senza difese. Quindi non difendermi con tante scuse se la mia vita è diversa dalla parola di Dio, e non parlare di Gesù imponendo il mio punto di vista umano, meschino. Purtroppo devo fare ancora più o meno gli stessi propositi del passato” (P. Giuseppe Ambrosoli, Estratto degli Esercizi Spirituali, 9-15.1.1981).

“Santi e capaci” nella profezia: “Amo molto tutti voi e amo la giustizia, e per la giustizia basta la volontà di ogni persona, basta la volontà come Chiesa, come comunità, prima che la rivolta possa far sorgere imprevedibili brutalità nel nostro ambiente sociale. Non approviamo la violenza, benché riceviamo violenza. Il prete che vi sta parlando ha ricevuto minacce di morte. Caro fratello, se la mia vita ti appartiene, ti apparterrà pure la mia morte” (P. Ezechiele Ramin, Omelia a Cacoal, 17.2.1985).

“Santi e capaci” nella collaborazione: Suor Maria Giuseppa Scandola, ammalata, manda il messaggio al giovane missionario ammalato, P. Giuseppe Beduschi, dicendo “Gli Scilluk hanno bisogno di lei…, lei non morrà, in sua vece morirò io…” e per lui offre la vita e muore dopo qualche giorno (1.9.1903) mentre P. Giuseppe vivrà ancora per molti anni (morirà il 10.11.1924).

Comboni

Ecco i figli e le figlie di san Daniele Comboni. Buona Festa di san Daniele Comboni!
P. Tesfaye Tadesse Gebresilasie MCCJ
a nome del Consiglio Generale

 

L’accoglienza dei nuovi paradigmi e sfide della missione

Paradigma-missione

Riprendendo la visione del Concilio Vaticano II, papa Francesco ha eletto il paradigma della “Chiesa in uscita” a programma missionario del nostro tempo. Questa ripresa è significativa in quanto contestualizzata in un mondo, quello odierno, che è in forte discontinuità con il passato. “Non viviamo in un’epoca di cambiamenti, ma in un cambiamento d’epoca”: con queste parole papa Francesco ci ha ricordato che i vecchi schemi con i quali interpretavamo il mondo e la missione non sono più efficaci per rispondere alle sfide di oggi. La nuova realtà globale richiede una “missione globale”, considerata in tutta la sua complessità e con presupposti, stile e strumenti rinnovati rispetto alla tradizione del passato (EG 33).

Lo schema classico che vedeva le Chiese del nord mandare missionari nel sud del mondo è superato dalle trasformazioni degli ultimi decenni, con la globalizzazione e una mobilità umana che hanno raggiunto livelli mai visti prima. Anche le circoscrizioni comboniane riflettono questo cambiamento: nella composizione del personale, nell’inviare missionari ad altre province, nel fatto che l’animazione missionaria è un impegno presente ovunque e non più un campo di servizio esclusivo delle province del nord del mondo.

Il criterio geografico della missione non costituisce più il punto di riferimento principale. Rimane l’idea di frontiera ma questa, ora, si qualifica nelle periferie umane ed esistenziali. È una grande sfida per gli Istituti missionari, la cui maggioranza dei membri di oggi ha probabilmente aderito al proprio istituto identificando la missione con una particolare area geografica. C’è un legame affettivo con la geografia e la storia; la nozione di “missione globale” desta un certo disagio, il timore di vedersi “bloccati” nel nord del mondo o nella propria provincia d’origine per l’idea che “la missione è ovunque”, o “anche in Europa”. In realtà, questa preoccupazione – comprensibile e giustificata – riflette ancora lo schema geografico, che è quello che dicevamo superato. Come pensare, allora, in modo alternativo, più rispondente alla realtà di oggi?

Papa Francesco ci invita a partire dalle frontiere, le “periferie che hanno bisogno della luce del vangelo” (EG 20). Queste non sono semplicemente un dato geografico, ma il risultato di un sistema economico-finanziario che genera esclusione, della cultura dello scarto che produce impoverimento e violenza. Portare la luce del vangelo in queste periferie richiede anzitutto inserzione, cioè:

  • una presenza radicata sul territorio;
  • un coinvolgimento nella vita quotidiana della gente;
  • una solidarietà nella loro sofferenza e istanze;
  • un accompagnare questa umanità lungo tutti i suoi processi, per quanto duri e prolungati possano essere.

Qui sta la chiave dell’approccio ministeriale: questo accompagnamento non è generico, non è una pastorale ordinaria portata nelle periferie. Al Capitolo Generale del 2015 è emerso che siamo presenti, inseriti in alcune periferie molto significative per il nostro carisma, come ad esempio tra gli afro-discendenti e i popoli indigeni in America Latina, o tra i popoli pastoralisti e i residenti delle baraccopoli in Africa. Però spesso non c’è una pastorale specifica che tenga conto della particolarità del contesto, delle situazioni, della cultura locale, dell’unicità di quel popolo. Una pastorale che, nella complessità del mondo d’oggi, richiede l’articolazione di diversi ministeri e un evangelizzare come comunità. Comunità apostoliche che non solo collaborano identificando e condividendo i propri doni, ma anche che testimoniano il Regno vivendo la fraternità e la comunione nella diversità.

Tutti questi elementi non sono “nuovi”; presi in se stessi possono essere già presenti in varie esperienze dell’Istituto e se ne è già parlato in diversi Capitoli. Ma siamo chiamati ad assumerli in una nuova prospettiva, o paradigma, cioè un punto di vista sulla missione che ne riorganizzi tutti gli aspetti fondamentali. L’immagine della “Chiesa in uscita” è un’icona che suggerisce un’idea di missione e una metodologia pastorale (prendere l’iniziativa, coinvolgersi, accompagnare, fruttificare, festeggiare, EG 24). È paradigmatica, perché richiede anche che altre dimensioni fondamentali, come la formazione e l’organizzazione dell’Istituto a vari livelli, divengano coerenti e finalizzate a questa missione.

A questo punto, come possiamo accogliere in pratica questo paradigma e quali sfide dobbiamo affrontare? Il Capitolo ci suggerisce di cominciare dalla missione, partendo dall’identificazione delle priorità continentali, condivise da più circoscrizioni e vissute in una più ampia collaborazione, a livello interprovinciale o continentale. Nel contesto di tali priorità, siamo chiamati a sviluppare delle pastorali specifiche come riqualificazione della nostra presenza e servizio missionario. Tenendo fermo questo punto centrale, avremo un punto di riferimento per ripensare anche la formazione e la riorganizzazione dell’Istituto.

  1. Sviluppare delle pastorali specifiche

Sviluppare una pastorale specifica è un compito ecclesiale, non si può fare da soli. Richiede dialogo, partecipazione, collaborazione, molteplicità di competenze ed esperienze. Soprattutto, ci vuole un metodo che permetta di valorizzare tutti i contributi, accogliere esperienze e prospettive diverse, e creare comunione nella diversità. Una pastorale specifica viene assunta quando, nonostante le varietà di vedute, prospettive teologiche, sensibilità e ministeri, tutti possono riconoscervisi senza dover annullare il proprio senso di identità. È un punto di fondamentale importanza, specialmente in un Istituto che sta crescendo in internazionalità e che comincia a vivere la sfida dell’interculturalità.

Tutto questo è possibile partendo dalla condivisione dalla base delle esperienze più trasformative in relazione alla pastorale specifica presa in considerazione, con un approccio di “indagine elogiativa” (Appreciative Inquiry). La riflessione comune su tali esperienze rigeneranti fa sorgere delle nuove intuizioni e comprensioni di ciò che rende un ministero fruttuoso in quel contesto.

Per meglio comprenderne il perché dell’efficacia e per approfondirne le dinamiche, queste esperienze vanno poi confrontate con un’analisi socio-culturale dei contesti della pastorale specifica, per coglierne il quadro d’insieme, le dinamiche e le tendenze.

Analogamente, una riflessione teologica e ministeriale specifica su quella realtà ci aiuta a mettere meglio a fuoco i nostri ministeri e ad identificare gli strumenti operativi più adatti.

Il passaggio successivo è quello del discernimento partecipato di alcuni principi che possano guidarci in quel contesto pastorale specifico. Proprio in quanto linee guida, questi non danno delle soluzioni prefabbricate, ma lasciano spazio per adattarsi alle situazioni particolari e per la creatività. Su questa base sarà possibile costruire un cammino di comunione in cui sperimentare, ricercare, imparare, condividere, scambiare esperienze e personale, documentare scoperte e risultati, e così via in cicli successivi di azione-riflessione (Action Learning).

  1. La riorganizzazione

Per riuscire sviluppare e sostenere delle pastorali specifiche è necessario arrivare gradualmente ad una riorganizzazione delle nostre presenze e modo di operare. Fino ad ora la nostra presenza missionaria è stata principalmente basata sul criterio geografico: i confratelli vengono destinati ad una provincia e poi, a seconda dei bisogni, vengono assegnati ad una comunità. Questa struttura riflette il presupposto che – al di là di alcuni servizi particolari – generalmente il lavoro missionario consista nel fondare o portare a maturazione delle comunità cristiane o parrocchie. Ma questo non è l’unico modo possibile di pensare l’organizzazione del lavoro missionario.

Per esempio, i gesuiti da alcuni decenni hanno cominciato a pensare il loro servizio missionario anche come risposta ai bisogni umani dei rifugiati (JRS), di persone colpite dall’AIDS (AJAN), e alle situazioni di ingiustizia (centri di fede-giustizia – faith-justice). Il personale viene adeguatamente preparato ed assegnato per questi servizi.

In anni recenti, anche l’Istituto comboniano ha intrapreso una riflessione sull’approccio ministeriale, guardando in particolare ad alcuni gruppi umani che subiscono esclusione e a ministeri in ambiti prioritari (AC ’03 n. 43 e 50; AC ’09 n. 62-63; AC ’15 n. 45). Ovviamente l’elemento geografico è ineludibile, in quanto anche questi gruppi umani sono spazialmente collocati, l’inserzione nella Chiesa locale esige anche una presenza parrocchiale, ma il criterio guida è il ministero specifico verso questi popoli che richiede:

  1. Equipe pastorali. Sono composte di diversi ministri, con specifiche competenze e una varietà di doni personali, che collaborano come squadra. Vista la complessità del mondo d’oggi, è opportuno mettere assieme competenze di vario genere, includendo per esempio quelle nelle scienze umane e sociali. La diversità di competenze è di aiuto nella collaborazione; la diversità di nazionalità e culture all’interno dell’equipe, vissute nella fraternità, sono un segno profetico in un mondo sempre più diviso ed in conflitto. Questa comunione/solidarietà è ciò che contraddistingue un’equipe pastorale, che non è solo una squadra di lavoro affiatata ed efficace, ma una fraternità di discepoli-missionari. Evidentemente, comunità di grandezza media avranno maggiori possibilità di essere significative, potendo mettere assieme competenze e ministeri complementari e trasversali (come ad esempio GPIC), assorbire meglio le assenze per vacanze o motivi di salute, sviluppare una riflessione più ricca e condividere competenze e risorse con altre comunità impegnate nella stessa pastorale specifica. Ciò richiede una riduzione del numero di comunità, ma facilita il lavoro in rete, dal livello locale a quello inter-provinciale.
  2. Lavoro in rete. L’equipe pastorale non lavora in isolamento, ma è anzitutto inserita e collabora con la Chiesa locale. Va anche oltre, cooperando con varie componenti della società civile per una trasformazione sociale ispirata ai valori del Regno. Ci sono anche altri livelli di collaborazione che l’esperienza ci segnala come critici: ad esempio il fare rete con altre comunità ed equipe ministeriali, sia a livello regionale che su scala internazionale. Senza questo supporto e continuo stimolo all’apertura e alla crescita, allo scambio e alla condivisione di risorse, un’equipe locale ben presto si troverà a corto di ossigeno. Soprattutto per quanto riguarda la ricerca, la sperimentazione, l’apprendimento continuo e la riflessione sulle buone pratiche e l’innovazione. Il mondo continua a spostarsi, mentre l’equipe rischia di fermarsi e fossilizzarsi, o di reagire alle situazioni anziché rispondervi creativamente.
  3. Strutture di sostegno. Le varie equipe impegnate in una stessa pastorale specifica a livello locale hanno bisogno di strutture di collegamento e di sostegno. Questo sarebbe anche il miglior contesto per proporre dei percorsi di formazione permanente, ricerca e sperimentazione per meglio accompagnare la gente nel suo cammino di inclusione e trasformazione. La collaborazione con istituzioni accademiche e di ricerca, per esempio, può essere una risorsa utile, come anche dei segretariati specifici e dei processi di ricerca e azione partecipata. Bisogna anche ripensare le strutture in cui viviamo o che amministriamo nel nostro ministero. Queste infatti possono porre una certa distanza tra la gente e i missionari, o anche semplicemente assorbirli così tanto nell’amministrazione da far perdere il contatto diretto con le persone o la disponibilità a camminare accanto ad esse. Va poi notato come anche il Fondo Comune Totale sia un’opportunità che può aiutarci a fare una programmazione partecipata e responsabilizzante nel contesto di una pastorale specifica a livello provinciale. La dimensione economica, infatti, attiene alle scelte di stile, mezzi, cooperazione e programmazione di un settore pastorale, con il quale interagiscono i progetti comunitari. Infine, la riduzione degli impegni e la riqualificazione delle presenze e servizi missionari richiesti dall’ultimo Capitolo Generale diventeranno una realtà se avremo gli strumenti e il metodo per realizzarli attraverso cammini di comunione, inclusivi e partecipati. È su questo versante che si gioca l’efficacia di una leadership che non sia soltanto amministrativa, ma che ci porti verso una nuova primavera.
  1. Una formazione mirata

Anche la formazione di base va rivista per sviluppare competenze ministeriali, soprattutto per quanto riguarda il curriculum degli scolastici. I programmi di teologia, che generalmente offrono una preparazione teologica accademica, non necessariamente formano agli atteggiamenti e alle competenze utili all’approccio ministeriale, né forniscono sostegno, metodologie e strumenti pratici che tanto gioverebbero ad una pastorale specifica. Va da sé che un curriculum di studi sarà tanto più utile quanto più verrà incontro alle scelte di ministeri specifici dell’Istituto. Si potrebbe pertanto pensare alla possibilità di caratterizzare la formazione negli scolasticati con degli orientamenti coerenti con le priorità ministeriali del continente in cui si trovano. Anche se poi un confratello si troverà a lavorare in altri contesti, le competenze ministeriali acquisite saranno in parte trasferibili e comunque una base migliore per impararne di nuove.

In conclusione, l’accoglienza del nuovo paradigma di missione non significa rottamare il passato per introdurre solo cose completamente nuove. Piuttosto, si tratta di riorientare e integrare i diversi aspetti della vita e del servizio missionario (pastorali specifiche, persone, riorganizzazione, economia) attorno alla visione di missione indicata dal Capitolo e ai processi partecipativi di riqualificazione delle nostre presenze e servizio missionario.
Fr. Alberto Parise mccj

Domande

  1. Per sviluppare pastorali specifiche è richiesta una lettura approfondita della realtà. È pratica comune (nelle comunità, zone, circoscrizioni e continenti) una lettura della realtà (attraverso l’adozione, ad esempio, del circolo ermeneutico) per identificare necessità pastorali e adottare modalità di presenza e di intervento che incontrino tali necessità?
  2. Quali passi sono stati fatti nella circoscrizione per ripensare gli obiettivi, la struttura, lo stile e i metodi di evangelizzazione secondo un’ottica ministeriale?
  3. Ministeri specifici (che riguardano, per esempio, gli afro-discendenti e i popoli indigeni in America Latina, i popoli pastoralisti in Africa e i residenti delle baraccopoli, i rifugiati ecc.) richiedono, oltre ad equipe pastorali, un lavoro in rete e strutture di sostegno che abbiano delle prospettive pastorali continentali. Quanto la nostra programmazione pastorale riesce a superare i limiti geografici della circoscrizione e adottare un approccio continentale? Quali strutture continentali dovrebbero essere rafforzate per favorire un criterio continentale alle necessità pastorali comuni?