Laici Missionari Comboniani

XVIII Capitolo Generale dei Missionari Comboniani

Capitulo MCCJ

E’ iniziato ufficialmente, con la messa di inaugurazione, il XVIII Capitolo Generale dei Missionari Comboniani.

I membri del Capitolo hanno avuto tempo una settimana per prepararsi al capitolo.

Il Capito terminerà il prossimo 4 ottobre. Durante questo periodo, restiamo in preghiera per il buon progresso dell’incontro, il bene della Famiglia comboniana e della missione alla quale siamo chiamati.

Per avere informazioni sul Capitolo, Vi invitiamo a visitare il sito ufficiale dell’istituto maschile dei religiosi “www.comboni.org“, dove oltre alle notizie di tutti i giorni, troverete una serie di video denominati “Voci del Capitolo” dove i partecipanti al capitolo illustrano alcuni fra gli argomenti importanti trattati e lo svolgimento delle sessioni e degli incontri.

Restiamo uniti nella preghiera.

Capitulo MCCJ

Libero per ascoltare e per parlare

Commentario a Mc 7, 31-37 (Domenica XXIII T.O., 6 settembre 2015)

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Nella lettura di oggi, Marco presenta a Gesù in territorio “pagano”, in una regione dove abitavano persone che non praticavano la religione ebrea, quella di Gesù stesso. Ma, aldilà delle differenze religiose o culturali tra gli abitanti della Decapoli e quelli di Nazareth o Gerusalemme, davanti a Gesù c’è un uomo concreto, con un problema “umano”, che lo è tanto per credenti come per i non credenti, ricchi e poveri, colti e analfabeta: quell’uomo è sordomuto, una condizione fondamentale della sua umanità.

Sembra evidente che, in questo brano,  Marco vuole mostrarci, davanti a questo caso concreto di umanità bisognosa, qual è la missione di Gesù.

Lui usa il potere-amore di Dio (simbolizzato nel’imposizione delle mani) per liberare al’essere umano, non solo dalla sua sordità fisica, ma, soprattutto, da quella più profonda, quella sua incapacità di ascoltare Dio e gli altri, perché racchiuso in se stesso, nella sua auto-referenzialità. Da quella sordità procede la sua incapacità di comunicarsi autenticamente, veritieramente con gli altri.

Quando io ero un giovane prete, ho conosciuto un ragazzo di dieci anni a chi tutti consideravano sordomuto, finché una giovane religiosa cominciò a prestarli molta attenzione, a seguirlo da vicino, a mostrarli un amore concreto, sincero, gratuito e costante. Dopo un po’ di tempo, capì che aveva un problema fisico all’udito e lo portò dai dottori. Risolto quel problema (che prima tutti avevano trascurato), il bambino cominciò a sentire le parole e a ripeterle, imparando ad ascoltare e a parlare. Io sono rimasto colpito di vedere il grande potere dell’amore, capace di scattare impensati processi di liberazione.

Certo, non sempre succede così, anzi nella maggior parte dei casi, la persona deve tenersi quel suo problema e imparare a superarlo in altre maniere. Ma, come nel Vangelo, il tema qui non è tanto la sordità fisica quanto un tipo più profondo d’incomunicazione: quella che ci porta a chiudere i canali di comunicazione  e di amore con i membri della nostra famiglia, con i fratelli della mia comunità, con le persone di un’altra cultura, d’idee politiche differenti, di altre religioni….

Sovente noi diventiamo “sordi” e “muti” nel cuore della nostra personalità: Ci rifiutiamo di ascoltare quello che gli altro hanno da dirci… e per la stessa ragione noi rimaniamo senza una parola “rilevante” da dire: una parola sincera, autentica, rilevante, liberatrice. Tutti ricordiamo il passaggio di Emmaus, dove Gesù si avvicina ai discepoli, cammina con loro e li ascolta; solo dopo dice parole illuminanti.

A volte sembra che le stesse comunità ecclesiali sono diventate sorde a mute: non ascoltano i gridi dell’umanità (migranti, rifugiati, giovani, coppie rotte, donne…), né ai profeti del nostro tempo che ci aprono cammini di libertà e solidarietà. Questa “sordità”  ci fa diventare “muti”, incapaci di dire parole rilevanti, che costruiscano una nuova umanità.

Una Chiesa missionaria è una Chiesa che ascolta, libera dalla sordità dell’orgoglio e dall’arroganza. Soltanto così può diventare veramente liberatrice, annunziatrice di buone nuove.

Nell’Eucaristia Gesù “tocca” il nostro corpo. Chiediamoli di guarire la nostra sordità e liberi la nostra lingua perché possiamo essere suoi missionari, guariti a guaritori, in cammino verso la comunione con il Padre.

P. Antonio Villarino

Roma

Il vero Pane della Vita: oltre le apparenze

Un commentario a Gv 6, 24-35 (XVIII Domenica T.O., 2 agosto 2015)

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Continuiamo a leggere il capitolo sesto di Giovanni, che abbiamo cominciato a leggere domenica scorsa con il segno dei pani abbondanti. In mezzo tra le due letture c’è un testo che non abbiamo letto e che parla di Gesù che sparisce della folla e della gente che lo cerca affannosamente. Quello che leggiamo oggi è precisamente la risposta di Gesù alle inquietudini della gente. Con questo Giovanni ci spiega chiaramente la fede dei primi discepoli che credevano in Gesù come nel vero Pane della Vita.

Per capire questa professione di fede, può essere utile ricordare il contesto ebraico, in cui queste parole sono pronunciate. Lo spiego a mio modo in quattro brevi  spunti:

1.- Il pane che permette sopravvivere

C’è stata una prima esperienza che ha lasciato un segno profondo nella storia d’Israele: l’alimento che miracolosamente li ha sfamati e li ha permessi di sopravvivere nei momenti più difficili della loro marchia verso la Terra promessa. Noi tutti conosciamo questa storia, anche se non sappiamo com’è successo esattamente nella sua realtà fisica (gli esegeti hanno alcune teorie plausibili). Ma l’importante è che, qualunque cosa sia successa, il fatto ha permesso al popolo di sopravvivere e che questo fatto fu interpretato come un segno della presenza provvidente di Dio, rimanendo per sempre nella memoria della liberazione.

Penso che qualcosa di simile passa anche con noi non poche volte: Quando, in momenti di disperazione, troviamo un lavoro che ci permette guadagnare da mangiare, il nostro negozio comincia a funzionare, superiamo una malattia, troviamo un aiuto inaspettato. In questi momenti possiamo pensare che fu un beneficio del caso, che noi abbiamo meritato tutto… o che Dio guida la nostra storia in favore nostro, anche per cammini storti. Quest’ultimo è quello che pensarono gli ebrei ed è quello che pensano oggi tante persone semplici che, con fede, vanno oltre le apparenze e sanno vedere la mano di Dio in quello che succede.

2.- Del Pane alla Parola-Legge

Quando Mosè offrì al popolo la Legge in nome di Dio, Israele fece l’esperienza che la Legge era un favore tanto grande quanto l’alimento nel deserto. Con la Legge il popolo cresceva, si proteggeva dai nemici, progrediva, sapeva come orientarsi nei momenti di dubbio, trovava armonia e felicità. Così il popolo applicò alla Legge il valore liberatore del pane mangiato nel deserto e affermò: “Non solo di pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce della bocca di Dio”.

Penso che anche noi abbiamo fatto questa esperienza, tanto a livello personale come comunitario. Qualche volta disprezzammo il valore della Legge, ma sappiamo che una buona Legge può aiutare a viver meglio. Senza la Legge cadiamo nell’anomia e l’anarchia, che normalmente favorisce i potenti e i violenti. Avere una buona Legge (o un buon progetto personale) può essere tanto importante quanto avere i bisogni naturali coperti.

3.- Dalla Legge alla Parola-Saggezza

Con il passo del tempo il popolo capì che la Legge non era l’unica manifestazione della sapienza divina, che lo guidava nella storia. C’erano anche i profeti, i salmisti, i poeti, i filosofi de altre culture, gli anziani saggi… Ogni manifestazione di saggezza fu considerata come Pane per lo spirito. Come il pane è imprescindibile per la vita del corpo, la saggezza è imprescindibile per la vita dello spirito.

Anche noi abbiamo bisogno di tutta la saggezza che l’umanità produce attraverso la scienza e la filosofia, le religioni e l’arte… Ogni pensiero positivo, ogni parola luminosa può aiutarci a vivere meglio.

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4.- Dalla Parola (Legge e Saggezza) a Gesù Cristo

Quello che i discepoli esperimentarono è quello che è spiegato nel vangelo di oggi: il pane del deserto non è più che un’immagine di Gesù Cristo come Vero Pane che nutre la nostra Vita spirituale. La Sua Parola –in parabole, sermoni, dialoghi, detti-, la sua vicinanza ai malati e peccatori, tutta la sua persona, erano come il Pane del Deserto, come la Legge di Mosè, come la più alta delle saggezze. In Lui si trova la pienezza della Vita che Dio vuole per i suoi figli e figlie.

Certo, noi tutti vogliamo avere sodisfatti i bisogni basici della vita (pane, vestito, tetto) e Gesù –come la Chiesa oggi- viene all’incontro anche di questi bisogni basici, ma va molto oltre: Lui ci invita a cercare il Pane vero, che è la Parola-Saggezza-Amore di Dio fatta carne in Gesù di Nazareth.

Acetare questo, “mangiarlo” e fare che diventi parte della nostra vita è uguale ad aprirsi una vita piena, capace di superare qualunque deserto che dobbiamo attraversare.

P. Antonio Villarino

Roma

Pane nel deserto: l’impossibile si fa possibile

Un commentario a Gv 6, 1-15 (XVII Domenica del T.O. 26 Luglio 2015
Ricordiamoci che nelle domeniche di quest’ anno liturgico leggiamo il vangelo di Marco e che fin’ora siamo arrivati al capitolo sesto. La domenica scorsa abbiamo visto Gesù commosso davanti alla folla che lo seguiva “come pecore senza pastore”. Oggi, nella lettura continuata di Marco, saremmo arrivati a quel racconto che conosciamo come la “moltiplicazione dei pani”.
Ma, per meditare su questo episodio molto importante nella vita di Gesù, la liturgia ha preferito lasciare Marco da parte per cinque domeniche e prendere al suo posto il capitolo sesto di Giovanni, che tratta il tema più ampiamente e con molti e interessanti riferimenti teologici. Questa domenica leggiamo i primi quindici versetti del capitolo, che ognuno di noi è invitato a leggere e capire a partire dalla propria vita. Da parte mia, mi fermo a due riflessioni:

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1.- Gesù, il nuovo Mosè
Giovanni comincia il suo racconto con una certa solennità. Evidentemente vuole fare capire che succede qualcosa di molto grande. Tre elementi parlano di questa “solennità”:
-Gesù, partendo dal Lago di Galilea, sale sulla montagna. A questo punto noi sappiamo già DSC00979che, nel linguaggio biblico, la

montagna è molto di più che un incidente geografico. Questo salire sulla montagna ci fa ricordare, tra altre, la storia di Mosè che salì sul Sinai e lì ha fato la trascendente esperienza della rivelazione del Dio liberatore e “capo” del suo popolo.
-Arrivato sulla montagna, Gesù “si siede” con i discepoli. Il gesto ci parla di Gesù Maestro che insegna con un’autorità che non avevano i maestri del suo tempo. Come Mosè, che nel Sinai ricevette la Legge di Dio per il suo popolo in processo di liberazione, Gesù passa ai discepoli la nuova Legge, la Parola consegnata dal Padre per che tutti “abbiano vita”.
-Era vicina la Pasqua, la gesta degli ebrei. Sappiamo che la Pasqua era la festa per fare memoria della liberazione sperimentata, consolidare l’identità del popolo e rinnovare la speranza in una nuova e definitiva liberazione.
Quello che Giovanni ci racconta in questo capitolo sesto del suo vangelo si capisce meglio se si tiene presente questa cornice di riferimenti teologici.
Per i discepoli, e per noi oggi, Gesù non è un maestro qualunque, non è un profeta più o meno inspirato, non è un rinnovatore dell’etica…Lui è la Parola di Dio che ci illumina come una luce nell’oscurità, è il Pane di Dio che ci nutre nel deserto, è il nuovo Mosè che, scendendo dalla montagna di Dio, guida il popolo e lo fa camminare verso una terra di libertà e pienezza di vita. In Lui s’stabilisce la Nuova Pasqua, la Alleanza tra Dio e il suo popolo.
2.- L’impossibile diventa possibile
Giovanni ci racconta che Gesù chiese a Filippo come fare per dare da mangiare a tanta gente fuori dei luoghi abitati. E Filippo li diede l’unica risposa sensata e realista: Non è possibile. Tutti noi avremmo dato la stessa risposta, come di fatto facciamo quando ci troviamo davanti a problemi o situazioni di difficile o impossibile soluzione.
Filippo aveva ragione, ma sembra che aveva dimenticato la storia del suo popolo: Dare di mangiare a una folla nel deserto è impossibile come lo era che un piccolo popolo potesse liberarsi dal potere dei faraoni; come era impossibile che quello stesso popolo potessi traversare il deserto senza morire per strada… Ma dio fecce che quello che sembrava impossibile diventassi possibile: il popolo fu liberato, camminò nel deserto, grazie a un nutrimento divino, e arrivò alla terra promessa, anche se c’erano molti nemici che volevano impedirlo.
Ma non bisogna capire questa storia immaginando Dio come un potente mago. Si tratta, a mio parere, di qualcosa di più semplice e allo stesso tempo più profondo: Quando diamo spazio a Dio per accompagnarci con la sua benedizione, al tempo che noi stessi “ce la mettiamo tutta” (cinque pani e due pesci), succede che i potenti s’arrendono, le acque si dividono, il pane risulta abbondante, la fame e l’ingiustizia sono superate, i conflitti danno passo alla riconciliazione e la comunità umana vien rigenerata, avanzando verso nuove quote di giustizia, fraternità e comunione, facendo che si compia la volontà di Dio, “così in terra come in cielo”.
Quando affrontiamo i problemi con fede, speranza e carità (generosità), l’impossibile si fa possibile, come è successo tante volte nella storia del umanità e anche nelle nostre storie individuali. Ogni volta che partecipiamo nell’Eucaristia facciamo memoria di questa storia di salvezza e rinnoviamo la nostra fede che anche oggi Dio sarà con noi: come Parola, come Legge, come Pane per la vita.
P. Antonio Villarino
Roma

Fare causa comune

Un commentario a Mc 6, 30-34  (Domenica XVI del T.O.:  19 luglio del 2015)

Leggiamo oggi cinque versetti del capitolo sesto di Marco, una specie di transizione letteraria tra due grandi relati: il martirio di Giovanni Battista (sicuramente un’esperienza molto dolorosa per i discepoli e per Gesù stesso) e la moltiplicazione dei pani (un chiaro segno di un Dio che sostiene il popolo degli umili nel deserto).

Il testo che leggiamo oggi è, dunque, di transizione ma non per questo meno importante. Infatti, è pieno di profondi e limpidi sentimenti in due direzioni principali: la comunità dei discepoli e la moltitudine di persone in cerca di una maggiore qualità di vita. Nel cuore di Gesù si produce un doppio movimento di sistole e diastole, andata e ritorno, tra la comunità e la folla, che, come succede nel cuore umano, non può stare l’uno senza l’altro. Fermiamoci un po’ in questo doppio movimento di amore concreto:

combonianos en Asia- Gerardo (Peruano),Mario (mexicano), Miguel Angel (español), Moises (filipino), Parunñgao (Filipino)

1.- Tenerezza nella comunità degli amici

Marco ci racconta come Gesù accoglie i discepoli che rientrano dalla missione, li ascolta e li invita a riposare, come lui stesso faceva a Betania.

Non so si ricordate il film di Pier Paolo Pasolini sul vangelo di Matteo, che abbiamo visto nei cinema di tutto il mondo anni fa. Era un film meraviglioso, ma – se la mia memoria non mi tradisce- presentava Gesù come una specie di profeta serio, con il volto chiuso e la condanna sempre pronta nelle labbia… Certo, Gesù era chiaro nella sua denuncia di una religiosità ipocrita, ma era molto di più che un profeta arrabbiato. Nel vangelo di oggi Marco ci presenta un Gesù tenero, accogliente, preoccupato per il benessere degli amici. Con quest’atteggiamento ci da la misura della sua umanità, così necessaria negli ambiti della famiglia, la comunità o il gruppo apostolico. Qualche volta noi vogliamo tanto il bene, siamo così perfezionisti o abbiano tanta ambizione per i nostri cari che finiamo per diventare intransigenti, ipercritici, adirati, negativi. Preghiamo perché Gesù ci insegni ad avere quella tenerezza che ci fa accoglienti e capaci prenderci in carico a vicenda.

Cincinnati. St Charles)

2.- Commozione davanti alla folla bisognosa

La attenta vita comunitaria di Gesù non lo fa diventare indifferente davanti alle necessità degli altri, ma tutto il contrario: lo fa diventare più sensibile e impegnato in favore di un’umanità che, come pecore senza pastore,  cerca con affanno salute, pane, comprensione, un senso di vita. L’atteggiamento di Gesù è stato imitato da tanti suoi discepoli, tra cui Daniele Comboni, chi, arrivando a Khartum (Africa) disse: “Voglio fare causa comune con ognuno di voi”.

Davanti alla folla di persone che oggi come ieri cercano più salute, più pane, più dignità, più amore…, la risposta del discepolo missionario non è  l’indifferenza, il togliere lo sguardo, ma il “fare causa comune”, condividere i sogni, i problemi, le possibili soluzioni. Questo “fare causa comune” troverà a suo tempo le iniziative necessarie di solidarietà. Ma la prima cosa è proprio non essere indifferenti, commuoversi, condividere, prendere come propri i bisogni degli atri; a partire di quest’ atteggiamento fraterno, dare una mano, secondo le proprie possibilità, nella fiducia che se ognuno condivide qualcosa, si farà il miracolo della vita condivisa.

P. Antonio Villarino

Roma