Laici Missionari Comboniani

Il “serpente” che ci salva

Un commento a Giovanni 3, 14-21: Quarta domenica di Quaresima, 15 Marzo 2015

In questa quarta domenica di Quaresima, leggiamo una parte del capitolo terzo del vangelo di Giovanni. Per capirlo, come sempre, bisogna fare riferimento alle Scritture e tradizioni ebraiche, poiché Gesù e i suoi discepoli erano ebrei e vivevano da tali la loro relazione con il Padre. Anche noi, in quanto discepoli di Gesù, siamo in qualche modo “ebrei” e dobbiamo partire dalle tradizioni ebraiche per capire meglio Gesù, allo stesso tempo che preghiamo lo Spirito Santo perché ci faccia sperimentare questa meravigliosa verità: che guardando Gesù sulla croce possiamo contemplare la misericordia del Padre che ci salva dalle nostre ferite e peccati.

Per la nostra riflessione ci soffermiamo su tre punti:

serpiente

1.- Il serpente nel deserto

Giovanni dice che Gesù (alzato sulla croce) assomiglia quel serpente che Mosè alzò, per commando di Dio, nel deserto per guarire i membri del popolo d’Israele, morsicati precisamente dai serpenti. La storia a cui si riferisce Giovanni ci viene raccontata nel capitolo 21 del libro dei Numeri. Dopo una lunga camminata nel deserto, arrivando a un certo luogo (dove recentemente hanno trovato delle figure di serpenti), gli ebrei se sentivano stanchi, scoraggiati, delusi… e cominciarono a criticare amaramente Dio e il suo profeta Mosè. In questa situazione, qualcosa di peggio successe ancora: apparirono dei serpenti velenosi e molti morivano a causa della loro morsicatura. Fu una esperienza tremenda di rabbia, dolore e sgomento. Ma allora gli ebrei pensarono che quella “tragedia” era frutto della sua arroganza e ribellione,  si pentirono e chiesero Mosè di intercedere per loro davanti a Dio. In risposta a le sue preghiere, Dio comanda  a Mosè di fare un serpente e di metterlo sopra un asta: “Chiunque sarà stato morso e lo guarderà, resterà in vita”, promise il Signore.

Questa storia un po’ strana per la nostra mentalità ha, comunque, un significato molto interessante. Da una parte, aiuta a ricordare le molte ribellioni e peccati del popolo, che dimentica facilmente i benefici della Alleanza con Dio. E dall’altra, ci insegna come Dio sia capace di trasformare anche i nostri peccati in occasione di grazia.

Per me, personalmente, questa storia mi ricorda anche i miei costanti fallimenti, peccati e inconsistenze, ma senza portarmi a un senso di disperazione, perché la misericordia di Dio può far nascere acqua nel deserto e trasformare un tradimento in una occasione di amicizia.

Barrancabermeja-colombia

2.- Gesù Cristo è il “serpente” alzato sopra il asta della croce

Giovanni fa riferimento a questa storia dell’AT, ma non vuole rimanere essa, vuole portarci oltre, a un suo significato più profondo. Giovanni ci dice che Dio, come ha utilizzato lo strumento del castigo, l’immagine di quei serpenti assassini, per salvare il popolo nel deserto, così usa la morte di Gesù sulla croce (un castigo orribile e odioso) come “l’antidoto” contro il veleno della nostra ribellione e peccato. Dalla stessa materia del male, della bugia, l’arroganza e la morte, Dio nella sua misericordia infinita costruisce il bene, la verità e la vita.

Per questo noi, discepoli di Gesù, guardiamo costantemente la sua croce, non perché ci piaccia la croce (strumento di tortura e di morte) , ma perché in essa vediamo l’incarnazione dell’infinita misericordia di Dio, capace di superare la radice del male con un Amore senza limiti, con una donazione di se stesso fino alla fine. Colui che è la vita non ha paura di morire, Colui che è l’amore non ha paura di soffrire le conseguenze dell’odio.

Per noi cattolici la croce è qualcosa di molto naturale, forse anche troppo. Alcuni ci criticano questo eccesso di famigliarità con la croce, che ci può far dimenticare che la croce è un strumento di morte, come una pistola o un  fucile. Veramente, i nostri critici hanno ragione se prendiamo la croce troppo alla leggera: Si tratta di una cosa orribile e mostruosa… Ma non  più orribile a mostruosa degli assassini e violenze di ogni genere che usiamo noi umani contro altri umani. Basta guardare la TV o leggere i giornali per rendersi conto di quanto male esista nel nostro mondo. Non possiamo chiudere gli occhi.

Gesù non ha voluto fuggire da questa dura realtà umana. Al contrario, la assume, si fa solidale e ne porta le conseguenze. Come diceva Comboni, lui “fa causa comune” con ognuno di noi anche nei momenti più bui della nostra vita, anche nei momenti di peccato. E facendo “causa comune” Lui si fa incarnazione dell’amore misericordioso del Padre, un amore che fa possibile la vita dove regna la morte, la verità dove abbonda la bugia, l’amore dove cresce l’odio.

Sulla Croce Gesù ci dice che non esiste peccato che non possa essere perdonato, non esiste ferita che non possa essere guarita, non esiste situazione tragica che  non possa diventare mediazione di salvezza, poiché  l’amore di Dio non ha limiti.

3.- Credere è vivere nella luce

Giovanni conclude dicendo che chi crede sarà salvo. Chi non crede assomiglia colui che, quando si accende la luce, chiude gli occhi e si rifiuta di vedere, perché preferisce il suo proprio orgoglio e cecità. La tragedia umana consiste precisamente in questo: che molte volte preferiamo vivere nel buio del nostro peccato, dei nostri vizi, delle nostre bugie, e non aprirci sinceramente al potere misericordioso di Dio, che può trasformare il nostro peccato in “concime”  per una vita nuova.

La Quaresima è l’occasione di entrare in questa dinamica di salvezza: riconoscere in nostri peccati, alzare gli occhi alla croce di Gesù Cristo e lasciarci illuminare dalla luce di verità ed amore che viene dal costato aperto di Colui che è sulla croce. Quaresima è il tempo di lasciare che Dio penda la nostra realtà, nella sua verità, e trasformi il nostro peccato in grazia per noi stessi e per il mondo.

  1. Antonio Villarino

Roma

Il “corpo” di Dio

Commento a Gv 2, 13-25: Domenica, 8 Marzo 2015
In questa terza domenica di Quaresima, e nelle due seguenti, lasciamo Marco e prendiamo il vangelo di Giovanni, che, a differenza dei sinottici (Matteo, Marco e Luca), ci presenta Gesù a Gerusalemme dal capitolo secondo, di cui leggiamo la seconda parte sulla “purificazione” del Tempio. Partendo da questa lettura vi condivido queste riflessioni:

1) Purificare la religione
Il Tempio di Gerusalemme –e la Città stessa– era la cosa più sacra per Gesù, buon figlio del suo popolo, e per i suoi discepoli. Tempio e Città erano come un “sacramento” della meravigliosa presenza di Dio nella vita d’Israele e di tutti i suoi abitanti. Gesù, con Maria e Giuseppe, li ha visitati fin da bambino e li amava di tutto il suo cuore, perché in loro trovava l’impronta del passo del Padre nella storia del suo popolo. Nel Tempio si univano i suoi due grandi amori: il Padre e il Popolo. Come il salmista, egli dice: “lo zelo per la tua casa mi divora”. Ed è precisamente questo zelo che produce in lui una rivolta radicale quando vede il degrado che soffre il Tempio a causa della corruzione e il mercantilismo. Gesù si propone purificare il Tempio, sapendo che Dio non si fa “intrappolare” da nessuna istituzione, fosse essa ance molto “sacra”. Infatti, più avanti nel vangelo di Giovanni, dirà alla samaritana: “è giunto il momento in cui né su questo monte, ne in Gerusalemme adorerete il Padre…I veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità”.
Una tentazione delle persone religiose è la manipolazione e l’abuso dei riti e dei luoghi sacri. Certo, abbiamo bisogno di riti e di luoghi sacri per pregare e celebrare, ma, attenzione con metterli al servizio de nostri interessi personali o di gruppo. I discepoli di Gesù dobbiamo essere sempre attenti a non cadere negli possibili abusi e a purificare costantemente le nostre pratiche religiose.

jerusalen (jerez)2) Il segno del “corpo”
Quando i giudei gli domandarono ché segni faceva per giustificare il suo atteggiamento purificatore, Gesù rispose che il segno era il suo corpo, diventato vero “tempio”, luogo d’incontro tra Dio e l’umanità. La fede dei discepoli non ha il suo centro in nessun luogo geografico o rito speciale, ma nel corpo di Gesù, un corpo che “incarna” l’obbedienza al Padre, sottomesso alla sofferenza estrema, mal nel quale alla fine si mostrò il trionfo di Dio.
Unito a quello di Cristo, anche il nostro corpo (espressione tangibile del nostro spirito) diventa luogo dell’incontro con Dio: un corpo capace di soffrire e di amare in modo molto concreto e tangibile, un corpo che s’inginocchia e si prostra per adorare, un corpo che si fa strumento di servizio ai poveri e abbandonati, un corpo che vede, ascolta, accoglie, abbraccia i corpi martirizzati dei figli di Dio. Come dice papa Francesco, i malati e i poveri sono il corpo di Cristo e della sua Chiesa. Servirli è adorare Dio. Abusare di loro o del proprio corpo è una profanazione.
3) La precarietà della fede
L’evangelista ci racconta che, vedendo Gesù fare dei “segni”, molti credettero, ma Lui non si fidava. I vangeli parlano molto della opposizione e dei tradimenti che ha dovuto soffrire Gesù, fino a rimanere praticamente solo e abbandonato da tutti. Nella vita di Gesù ci sono stati di momenti esaltanti, di entusiasmo, in cui le moltitudini lo seguivano pensando di aver trovato un re di cui potevano profittare o un capo utile ai loro programmi politico o religiosi. Ma Gesù non si fa “intrappolare” nella trappola di quel entusiasmo facile, che voleva separarlo dalla sua vera missione in obbedienza al Padre. Gesù rimane sempre fiducioso, libero, realista, aperto e fedele fino alla morte, senza badare troppo all’incostanza di quelli che lo circondavano…
La tentazione dell’entusiasmo facile e della superficialità ci si presenta anche a noi come singoli o come gruppi nella Chiesa. Ognuno di noi –le nostre comunità, la Chiesa nel suo insieme– può avere la tentazione di accontentarsi con una religiosità superficiale, organizzare qualche tipo di “trappola” metodologica per attirare seguitori, fosse anche solo in apparenza… Questa non è la strada di Gesù. Lui non si scandalizza per quelli suoi “amici” che l’abbandonano, né confonde la fede con l’applauso facile; sa invece riconoscere la fede autentica, sincera, “incarnata” in un corpo e in una vita generosamente consegnata in adorazione e servizio al “copro di Cristo” nel’Eucarestia e nei Poveri.
Preghiamo perché lo Spirito di Gesù ci apra il cuore a questa fede ferma, concreta e costante, nonostante i dubbi e le molte debolezze.
P. Antonio Villarino
Roma

Non c’è gloria senza croce

Commento a Mc 9, 2-8: Domenica, 1 de marzo 2015

In questa seconda domenica di Quaresima, leggiamo ancora Marco, ma dando un salto dal capito uno al capitolo nove, nel quale Gesù appare già con l’intenzione di andare a Gerusalemme, dove entrerà in conflitto mortale con le autorità. Come sempre, questo testo offre molti spunti di meditazione. Io mi soffermo solo in tre:

1) QuanCinncinnati (St Charles)to è difficile accettare la croce!
Alcuni versetti prima di questo nostro testo, Gesù, riconosciuto da Pietro come “il Cristo”, comincia a dire che deve “soffrire molto”, un discorso che i discepoli non accettano: non può darsi che il Messia deva morire e, comunque, loro non sono disposti a seguirlo su quella strada folle; piuttosto, loro pensano già a chi sarà il più importate nel nuovo regno che Gesù proclama. La reazione di Gesù è immediata e diretta, chiamando a Pietro “Satana”, perché rappresenta la tentazione di disobbedienza al Padre, la stessa tentazione di Adamo e del popolo nel deserto. E’ su questo trasfondo che Marco ci presenta la scena di oggi: Gesù prende per mano i discepoli più intimi e li porta a fare una esperienza speciale.
Penso che anche noi abbiamo la stessa difficoltà per accettare la croce, la sofferenza, il fallimento: quello di Gesù, ma ance il nostro. Nessuno di noi vuole soffrire neanche per una buona causa. Lo consideriamo un “castigo di Dio” e ci ribelliamo. Ma è precisamente in quelli momenti, quando non cappiamo quello che ci passa e non abbiamo nessuna voglia di andare in chiesa, che dobbiamo lasciarci prendere per mano e pregare il Signore di mostraci il cammino e rivelarci il senso di quello che stiamo vivendo.

2) Il monte: prospettiva divina
Gesù prese i discepoli e li portò sul monte, loro da soli. Lì Gesù li fa fare una esperienza molto speciale, le cui caratteristiche, tra altre, sono le seguenti:
– Il monte: Luogo di teofania in quasi tutte le religioni. Andare sul monte implica abbandonare la routine quotidiana, uscire da quello considerato “conveniente”; andare nella natura non ancora manipolata dall’uomo, un spazio che l’uomo non controlla, un luogo che offre la possibilità di uscire da se stessi e dalla società con le sue convenzioni; un luogo dove è possibile percepire cose nuove, il senso più profondo della realtà, il Mistero divino…
-Intimità: Gesù vuole condividere con i suoi discepoli il segreto più profondo della sua personalità, la sua vita e la sua missione. Vuole andare oltre i topici e le superficialità (come ti vesti, quale musica ti piace, cose ne pensi del Papa…), per condividere quello che c’è di più profondo in Lui: “Non vi chiamo servi, vi chiamo amici… Tutto quello che ho ascoltato dal Padre vi l’ho trasmesso”.
-In solitudine: Gesù non cerca pubblicità, ne apparire nei mezzi di comunicazione. Più tardi dirà: non raccontante a nessuno quello che avete vissuto. Alcune esperienze della vita sono molto intime e riservate, non sono da raccontare sui giornali e neanche sul pulpito della chiesa. “Entra nella tua stanza, chiude la porta e prega al tuo Padre che vede nel segreto del tuo cuore”. Certo, ci sono i momenti per dare testimonianza, per apparire nei giornali, per predicare, ma ci sono altri momenti per viverli da soli nella preghiera più intima e gratuita.

3) “Questi è il mio Figlio prediletto, ascoltatelo”
L’evangelista ci descrive una scena meravigliosa, che può risultare difficile di capire nei dettagli per noi, ma il suo significato globale è molto chiaro:
-I discepoli fanno un’esperienza di Gesù, che va molto oltre la sua realtà immediata di uomo di Nazareth e predicatore ambulante. E’ un’esperienza che hanno fatto dopo molti santi e credenti, cominciando da S. Paolo. E’ l’esperienza pasquale che aiuta ai discepoli a mettere a posto la croce nel piano di salvezza e di riconoscere in Gesù il messaggero di Dio, il suo Figlio amato. E’ l’esperienza di tutti quelli che sanno che Gesù è vivo e presente.
-Mosè ed Elia parlano con Gesù. Nuovo e vecchio Testamento si danno la mano, dentro dello stesso piano di rivelazione e salvezza. Per capire Gesù è molto importante studiare e capire l’Antico Testamento e per capire l’Antico Testamento è importante guardare Gesù.
-“E’ bello per noi stare qui”. I discepoli d’allora e di adesso hanno capito che avere Gesù vicino riscalda il cuore, li fa sentire pieni. Così ha capitato ai due di Emmaus, così ha capitato a Paolo e a tanti altri, noi inclusi. L’incontro con il Signore, sempre, produce una esperienza di pienezza, di aver trovato quello che più uno cerca nella vita.
“Questi è il mio figlio amato”. I discepoli capirono che in quel suo amico e maestro, Gesù, Dio si manifestava in maniera chiara e definitiva. Tutti noi cerchiamo a tastoni il volto di Dio, il senso profondo della nostra vita, un Amore definitivo. Alcuni lo cercano, per esempio, nei insegnamenti di Buda, nella New Age, nel proprio orgoglio…I Discepoli lo hanno trovato nel suo Maestro. In Lui hanno visto la faccia del Padre e nelle sue parole hanno trovato la guida sicura per la propria vita. Noi siamo eredi di questa esperienza e preghiamo perché lo Spirito rinnovi in noi costantemente questa esperienza, specialmente in questo tempo di Quaresima. Solo così potremmo trovare quella gioia che ci fa missionari e testimoni dell’amore fontale del Padre, rivelato in Gesù.

P. Antonio Villarino
Roma

Deserto, opportunità di cambio

Commentario a Marco 1, 12-15, Prima Domenica di Quaresima, 22 Febbraio 2015

La lettura continua del primo capitolo del vangelo di Marco, che abbiamo fatto nelle ultime quattro domeniche, viene interrotta oggi, perché cominciamo il tempo di Quaresima che nella liturgia cattolica è un tempo speciale con la sua propria sequenza di letture. Comunque, anche oggi leggiamo, dal primo capitolo di Marco, quattro versetti, brevi ma molto carichi di significato. Da tutte le riflessioni possibili io scelgo queste tre:

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1) Deserto: Dalla la parola alla vita
Gesù, dopo il suo battesimo e la straordinaria dichiarazione del Padre – “Tu sei il Figlio mio predieletto” – va nel deserto, “spinto” dallo Spirito. Perché? Io penso che, tra altre possibili ragioni, Gesù, come tutti noi, deve fare la strada che va dalla parola ascoltata come vocazione (“Figlio”) alla realtà della vita concreta (missione); una strada che bisogna percorrere con fede e perseveranza, disciplina e lavoro, chiarezza di mente e fortezza di spirito; in una lotta “a morte” contro lo spirito del male, cercando di pacificare in noi e attorno a noi le “fiere selvagge” della violenza e della arroganza, superando prove, dubbi e tentazioni.
Il deserto, come sappiamo, nella storia d’Israele, è la grande scuola per imparare a lasciare in dietro la schiavitù e vivere come un popolo libero, in un processo di purificazione e di apertura ai piani di Dio. Il deserto diventa così la grande opportunità che Dio offre al suo popolo perché impari a diventare libero e fedele.
Anche noi, certamente, abbiamo il nostro deserto o i nostri deserti. Possiamo pensarci un po’:Quali sono le difficoltà e le prove che abbiamo davanti a noi in questo preciso momento della nostra vita? Quali le tentazioni che ci minacciano? Può darsi che anche noi, come Israele dopo aver attraversato il Mare Rosso, come Gesù dopo il Battesimo, superato l’entusiasmo iniziale, vediamo lontano il sogno di diventare veri figli di Dio, de condurre una vita piena di amore e di verità, di giustizia e di generosità, di pace e di servizio.
Anche noi facciamo l’esperienza che tra la parola (i buoni desideri) e la realtà (di una vita piena, conforme ai desideri e alla parola) c’è molta strada da fare, per cui abbiamo bisogno di tutta la nostra capacità di lotta e di perseveranza. La Quaresima è una buona occasione per re-affermarci in questa lotta, per rinnovare la nostra speranza e la nostra decisione di andare avanti sulla strada dei discepoli di Gesù.

2) Approfittare l’occasione
Del deserto Gesù ne esce vincitore, confermato nella sua vocazione e missione, fiducioso che questa è la grande occasione che Dio offre a Lui e al mondo. Gesù ha fatto esperienza della vicinanza del Padre, non solo nei momenti di felicità e di benedizione, ma anche nei momenti bui di difficoltà, di prova e di lotta. Gesù viene fuori dal deserto per entrare nel mondo, mischiarsi con la gente comune, a trasmettere un messaggio chiaro: “Il Regno di Dio è vicino”, approfittate l’opportunità, prendete l’occasione.
Ma, quando diciamo che il Regno di Dio è vicino cosa intendiamo? Dove si trova il Regno di Dio: nella chiesa, nella città, nella parrocchia, dove? Il Regno di Dio –la sua presenza vincente– è in noi e in mezzo a noi, nel tempio e nella famiglia, sulla strada e nel lavoro, nell’ospedale e nel campo da gioco… da per tutto. Ma allora, perché non lo vediamo? Se non lo vediamo, forse è che bisogna lavare gli occhi, pulire l’udito, aprire il cuore…
Anche in questo la quaresima ci può aiutare; infatti, questo è un tempo per leggere di più la Bibbia, per disciplinare di più la nostra vita, per crescere nella generosità verso gli latri, per purificare il cuore… Tutto questo ci può aiutare a aprire gli occhi dello spirito e vedere quello che forse non riusciamo a vedere a causa della polvere della strada: la stanchezza, la routine, il fallimenti ripetuti, l’orgoglio ferito…

3) Fidarsi e cambiare rota
Gesù invita i suoi connazionali a credere in questa presenza del Regno di Dio, a fidarsi di Lui e, conseguentemente, cambiare di vita; ii invita a superare la condizione di schiavi e avere il coraggio di vivere da figli, con fiducia e coraggio, superando ogni tentazione di sfiducia e scetticismo.
Infatti, quello che ci impedisci vedere-udire-toccare il Regno di Dio in noi è l’atteggiamento di Adamo ed Eva, che nel paradiso si hanno fatto ingannare del maligno, sono caduti nella trappola di considerarsi falsamente uguali a Dio, arroganti e pieni di se stessi, nascondendo dietro a una foglia di fico la sua nudità, in vece di riconoscere il suo errore e la sua limitatezza, chiedere perdono e rinnovare la sua amicizia con il Creatore. Credere è uscire da noi stessi, lasciare di guardarci come si fossimo il centro del mondo, e riconoscere il nostro posto nella vicinanza di Dio, fidandosi di Lui, non come schiavi, non come falsi dei, ma come figli e fratelli.
La quaresima è un tempo opportuno, una grande occasione che ci viene offerta per cambiare rota, per tralasciare lo stupido orgoglio che ci imprigiona e ci separa del prossimo, da Dio e dalla miglior parte di noi stessi; una occasione per re-affermare la nostra fede che l’Amore del Padre è più grande del nostro peccato e dei nostri errori; e che in questo Amore possiamo rinascere e, attraverso il deserto delle prove e delle difficoltà, riprendere la nostra strada verso la meta, che non è altra che la vita piena in Dio; una vita piena di verità e di amore, di giustizia e di generosità… una vita, in definitiva, da Figli che camminano verso la Terra promessa che ci aspetta aldilà del deserto.
Ed è precisamente questo che celebriamo nella Eucarestia, memoriale di Colui che è uscito dal deserto vincitore a annunziatore della vittoria di Dio sul male di questo mondo. Con Lui, con Gesù, anche noi saremo vincitori e annunziatori-missionari della sua e dalla nostra vittoria.
P. Antonio Villarino
Roma

Rinfrancate i vostri cuori

Papa Francesco

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE
FRANCESCO
PER LA QUARESIMA 2015

Rinfrancate i vostri cuori (Gc 5,8)

Papa FrancescoCari fratelli e sorelle,

la Quaresima è un tempo di rinnovamento per la Chiesa, le comunità e i singoli fedeli. Soprattutto però è un “tempo di grazia” (2 Cor 6,2). Dio non ci chiede nulla che prima non ci abbia donato: “Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo” (1 Gv 4,19). Lui non è indifferente a noi. Ognuno di noi gli sta a cuore, ci conosce per nome, ci cura e ci cerca quando lo lasciamo. Ciascuno di noi gli interessa; il suo amore gli impedisce di essere indifferente a quello che ci accade. Però succede che quando noi stiamo bene e ci sentiamo comodi, certamente ci dimentichiamo degli altri (cosa che Dio Padre non fa mai), non ci interessano i loro problemi, le loro sofferenze e le ingiustizie che subiscono… allora il nostro cuore cade nell’indifferenza: mentre io sto relativamente bene e comodo, mi dimentico di quelli che non stanno bene. Questa attitudine egoistica, di indifferenza, ha preso oggi una dimensione mondiale, a tal punto che possiamo parlare di una globalizzazione dell’indifferenza. Si tratta di un disagio che, come cristiani, dobbiamo affrontare.

Quando il popolo di Dio si converte al suo amore, trova le risposte a quelle domande che continuamente la storia gli pone. Una delle sfide più urgenti sulla quale voglio soffermarmi in questo Messaggio è quella della globalizzazione dell’indifferenza.

L’indifferenza verso il prossimo e verso Dio è una reale tentazione anche per noi cristiani. Abbiamo perciò bisogno di sentire in ogni Quaresima il grido dei profeti che alzano la voce e ci svegliano.

Dio non è indifferente al mondo, ma lo ama fino a dare il suo Figlio per la salvezza di ogni uomo. Nell’incarnazione, nella vita terrena, nella morte e risurrezione del Figlio di Dio, si apre definitivamente la porta tra Dio e uomo, tra cielo e terra. E la Chiesa è come la mano che tiene aperta questa porta mediante la proclamazione della Parola, la celebrazione dei Sacramenti, la testimonianza della fede che si rende efficace nella carità (cfr Gal 5,6). Tuttavia, il mondo tende a chiudersi in se stesso e a chiudere quella porta attraverso la quale Dio entra nel mondo e il mondo in Lui. Così la mano, che è la Chiesa, non deve mai sorprendersi se viene respinta, schiacciata e ferita.

Il popolo di Dio ha perciò bisogno di rinnovamento, per non diventare indifferente e per non chiudersi in se stesso. Vorrei proporvi tre passi da meditare per questo rinnovamento.

1. “Se un membro soffre, tutte le membra soffrono” (1 Cor 12,26) – La Chiesa

La carità di Dio che rompe quella mortale chiusura in se stessi che è l’indifferenza, ci viene offerta dalla Chiesa con il suo insegnamento e, soprattutto, con la sua testimonianza. Si può però testimoniare solo qualcosa che prima abbiamo sperimentato. Il cristiano è colui che permette a Dio di rivestirlo della sua bontà e misericordia, di rivestirlo di Cristo, per diventare come Lui, servo di Dio e degli uomini. Ce lo ricorda bene la liturgia del Giovedì Santo con il rito della lavanda dei piedi. Pietro non voleva che Gesù gli lavasse i piedi, ma poi ha capito che Gesù non vuole essere solo un esempio per come dobbiamo lavarci i piedi gli uni gli altri. Questo servizio può farlo solo chi prima si è lasciato lavare i piedi da Cristo. Solo questi ha “parte” con lui (Gv 13,8) e così può servire l’uomo.

La Quaresima è un tempo propizio per lasciarci servire da Cristo e così diventare come Lui. Ciò avviene quando ascoltiamo la Parola di Dio e quando riceviamo i sacramenti, in particolare l’Eucaristia. In essa diventiamo ciò che riceviamo: il corpo di Cristo. In questo corpo quell’indifferenza che sembra prendere così spesso il potere sui nostri cuori, non trova posto. Poiché chi è di Cristo appartiene ad un solo corpo e in Lui non si è indifferenti l’uno all’altro. “Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui” (1 Cor 12,26).

La Chiesa è communio sanctorum perché vi partecipano i santi, ma anche perché è comunione di cose sante: l’amore di Dio rivelatoci in Cristo e tutti i suoi doni. Tra essi c’è anche la risposta di quanti si lasciano raggiungere da tale amore. In questa comunione dei santi e in questa partecipazione alle cose sante nessuno possiede solo per sé, ma quanto ha è per tutti. E poiché siamo legati in Dio, possiamo fare qualcosa anche per i lontani, per coloro che con le nostre sole forze non potremmo mai raggiungere, perché con loro e per loro preghiamo Dio affinché ci apriamo tutti alla sua opera di salvezza.

2. “Dov’è tuo fratello?” (Gen 4,9) – Le parrocchie e le comunità

Quanto detto per la Chiesa universale è necessario tradurlo nella vita delle parrocchie e comunità. Si riesce in tali realtà ecclesiali a sperimentare di far parte di un solo corpo? Un corpo che insieme riceve e condivide quanto Dio vuole donare? Un corpo, che conosce e si prende cura dei suoi membri più deboli, poveri e piccoli? O ci rifugiamo in un amore universale che si impegna lontano nel mondo, ma dimentica il Lazzaro seduto davanti alla propria porta chiusa ? (cfr Lc 16,19-31).

Per ricevere e far fruttificare pienamente quanto Dio ci dà vanno superati i confini della Chiesa visibile in due direzioni.

In primo luogo, unendoci alla Chiesa del cielo nella preghiera. Quando la Chiesa terrena prega, si instaura una comunione di reciproco servizio e di bene che giunge fino al cospetto di Dio. Con i santi che hanno trovato la loro pienezza in Dio, formiamo parte di quella comunione nella quale l’indifferenza è vinta dall’amore. La Chiesa del cielo non è trionfante perché ha voltato le spalle alle sofferenze del mondo e gode da sola. Piuttosto, i santi possono già contemplare e gioire del fatto che, con la morte e la resurrezione di Gesù, hanno vinto definitivamente l’indifferenza, la durezza di cuore e l’odio. Finché questa vittoria dell’amore non compenetra tutto il mondo, i santi camminano con noi ancora pellegrini. Santa Teresa di Lisieux, dottore della Chiesa, scriveva convinta che la gioia nel cielo per la vittoria dell’amore crocifisso non è piena finché anche un solo uomo sulla terra soffre e geme: “Conto molto di non restare inattiva in cielo, il mio desiderio è di lavorare ancora per la Chiesa e per le anime” (Lettera 254 del 14 luglio 1897).

Anche noi partecipiamo dei meriti e della gioia dei santi ed essi partecipano alla nostra lotta e al nostro desiderio di pace e di riconciliazione. La loro gioia per la vittoria di Cristo risorto è per noi motivo di forza per superare tante forme d’indifferenza e di durezza di cuore.

D’altra parte, ogni comunità cristiana è chiamata a varcare la soglia che la pone in relazione con la società che la circonda, con i poveri e i lontani. La Chiesa per sua natura è missionaria, non ripiegata su se stessa, ma mandata a tutti gli uomini.

Questa missione è la paziente testimonianza di Colui che vuole portare al Padre tutta la realtà ed ogni uomo. La missione è ciò che l’amore non può tacere. La Chiesa segue Gesù Cristo sulla strada che la conduce ad ogni uomo, fino ai confini della terra (cfr At 1,8). Così possiamo vedere nel nostro prossimo il fratello e la sorella per i quali Cristo è morto ed è risorto. Quanto abbiamo ricevuto, lo abbiamo ricevuto anche per loro. E parimenti, quanto questi fratelli possiedono è un dono per la Chiesa e per l’umanità intera.

Cari fratelli e sorelle, quanto desidero che i luoghi in cui si manifesta la Chiesa, le nostre parrocchie e le nostre comunità in particolare, diventino delle isole di misericordia in mezzo al mare dell’indifferenza!

3. “Rinfrancate i vostri cuori !” (Gc 5,8) – Il singolo fedele

Anche come singoli abbiamo la tentazione dell’indifferenza. Siamo saturi di notizie e immagini sconvolgenti che ci narrano la sofferenza umana e sentiamo nel medesimo tempo tutta la nostra incapacità ad intervenire. Che cosa fare per non lasciarci assorbire da questa spirale di spavento e di impotenza?

In primo luogo, possiamo pregare nella comunione della Chiesa terrena e celeste. Non trascuriamo la forza della preghiera di tanti! L’iniziativa 24 ore per il Signore, che auspico si celebri in tutta la Chiesa, anche a livello diocesano, nei giorni 13 e 14 marzo, vuole dare espressione a questa necessità della preghiera.

In secondo luogo, possiamo aiutare con gesti di carità, raggiungendo sia i vicini che i lontani, grazie ai tanti organismi di carità della Chiesa. La Quaresima è un tempo propizio per mostrare questo interesse all’altro con un segno, anche piccolo, ma concreto, della nostra partecipazione alla comune umanità.

E in terzo luogo, la sofferenza dell’altro costituisce un richiamo alla conversione, perché il bisogno del fratello mi ricorda la fragilità della mia vita, la mia dipendenza da Dio e dai fratelli. Se umilmente chiediamo la grazia di Dio e accettiamo i limiti delle nostre possibilità, allora confideremo nelle infinite possibilità che ha in serbo l’amore di Dio. E potremo resistere alla tentazione diabolica che ci fa credere di poter salvarci e salvare il mondo da soli.

Per superare l’indifferenza e le nostre pretese di onnipotenza, vorrei chiedere a tutti di vivere questo tempo di Quaresima come un percorso di formazione del cuore, come ebbe a dire Benedetto XVI (Lett. enc. Deus caritas est, 31). Avere un cuore misericordioso non significa avere un cuore debole. Chi vuole essere misericordioso ha bisogno di un cuore forte, saldo, chiuso al tentatore, ma aperto a Dio. Un cuore che si lasci compenetrare dallo Spirito e portare sulle strade dell’amore che conducono ai fratelli e alle sorelle. In fondo, un cuore povero, che conosce cioè le proprie povertà e si spende per l’altro.

Per questo, cari fratelli e sorelle, desidero pregare con voi Cristo in questa Quaresima: “Fac cor nostrum secundum cor tuum”: “Rendi il nostro cuore simile al tuo” (Supplica dalle Litanie al Sacro Cuore di Gesù). Allora avremo un cuore forte e misericordioso, vigile e generoso, che non si lascia chiudere in se stesso e non cade nella vertigine della globalizzazione dell’indifferenza.

Con questo auspicio, assicuro la mia preghiera affinché ogni credente e ogni comunità ecclesiale percorra con frutto l’itinerario quaresimale, e vi chiedo di pregare per me. Che il Signore vi benedica e la Madonna vi custodisca.

Dal Vaticano, 4 ottobre 2014

Festa di San Francesco d’Assisi

Francesco