Laici Missionari Comboniani

Due vite ricuperate

Commentario a Mc 5, 21-43 (XIII Domenica TO: 28 Giugno 2015)

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Marco continua a presentare Gesù che agisce sulle due rive del lago di Galilea, con un messaggio chiaro di vicinanza divina ai poveri ai cuori “rotti”; un messaggio che si esprime, non soltanto in parole ispiratrici, ma anche in gesti concreti che confermano le parole e li danno una consistenza quasi “fisica”. Gesù mette in atto quello che possiamo chiamare “segni messianici”, cioè, azioni concrete che diventano manifestazioni della presenza di Dio in mezzo al suo popolo, siano loro gli abitanti di Gerassa (“nell’altra riva”), siano quelli di Cafàrnao.

Da “impure” a figlie
Nella lettura d’oggi si racconta la storia di due donne (una bambina di dodici anni e un’adulta malata anche da dodici anni); donne che, essendo “impure” (una perché cadavere e l’altra perché perde sangue-vita), sono “toccate” da Gesù e ricuperano, non soltanto la vita, ma anche la loro dignità di “figlie”, capaci di alzarsi, di credere (“la tua fede to ha salvato”) e di condividere il banchetto della vita (“fatela mangiare”).
Alcuni sembrano leggere questi gesti di Gesù, come se Lui fosse un mago che con poteri speciali produce effetti appunto magici… Certamente, non c’è da dubitare dal grande potere di guarigione di Gesù, Ma mi sembra che questa non è la prospettiva adeguata per capire quello che è successo sulla riva del lago di Galilea neanche quello che continua a succedere oggi tra tanti veri credenti. La prospettiva adeguata è quella del “segno messianico”, cioè, un’azione, un gesto che nasce dalla confluenza di due elementi fondamentali:
L’estraordinaria capacità di Gesù di amare e di entrare in comunione con le persone nella loro concreta situazione di vita, anche se erano condannate dalla tradizione; la sua profonda sintonia affettiva che, prendendo molto sul serio la realtà delle persone, riesce a trasmettere la sua esperienza della radicale vicinanza dell’amore del Padre. Come dice Benedetto XVI, soltanto l’amore salva. Quando qualcuno si sa amato, ricupera la sua dignità, diventa capace di alzarsi e di vivere una vita piena.
La fede di persone umili, che, minacciate dalla malattia e dalla morte, aprono i loro cuori e la loro speranza a Dio come unica roccia di rifugio. Nella mia vita missionaria in Africa, Europa e America ho trovato parecchie persone che sono come il papà della bambina moribonda o la donna disperata da una malattia che la umilia e la distrugge come donna e persona.
Davanti a una simile situazione, queste persone cercano una via d’uscita: nella medicina, nella preghiera, nel buon consiglio…, ovunque ci sia un’opportunità di ricuperare la vita minacciata o perduta. Molti li dicono che non c’è niente da fare, che accettino la realtà; si beffano di loro e della loro fede… Ma questa sua ricerca va rispettata e pressa sul serio. Ed è questo che fa Gesù: a partire dalla sua estraordinaria esperienza della comunione con il Padre della Vita è capace d’entrare anche in comunione con i suoi figli e figlie che passano per momenti di speciale difficoltà, fino a rischiare di dubitare della propria dignità e di essere amati.

DSC00226Parole e azioni
Tutti gli esseri umani, inclusi quelli più sicuri e prepotenti siamo delle creature deboli, esposte a malattie, sofferenze, disprezzi, pericolo e, per ultimo, la morte, anche se a volte qualche miracolo allontana per un po’ questo finale previsto, com’è successo alla figlia di Gairo, l’emorroissa o Lazaro. Ma io no credo che l’obiettivo dei miracoli di Gesù fosse di prolungare una vita che comunque deve finire, ma quello di dare una vita differente, una vita vissuta nell’amore e nella dignità, come figli e figlie di un Padre amoroso, che prende sul serio ognuno di noi. Le due donne, dopo quel “segno messianico” di Gesù, possono dichiarare con verità: “Io sono importante per Dio, sono importante per Gesù, sono importante per la comunità degli amici di Gesù. Non sono una malata o una moribonda. Sono FIGLIA”.
Questo è il messaggio centrale di Gesù. Per farlo capire usa parole, ma anche “segni” che nei vangeli hanno una doppia condizione:
-Sono concreti a pratici, legati alla vita della gente; aiutano le persone in un modo “fisico”, risolvono un problema reale della vita reale.
-trascendono la materialità, per trasmettere qualcosa che va aldilà del gesto concreto nella sua stretta materialità. Non si riducono a un “aiuto materiale”, senza anima, senza amore; comunicano una fiducia nella persona e la spingono a superare se stessa, alzarsi e mettersi al servizio di altri.
Così, anche la missione cristiana, sull’esempio di Gesù, cammina sempre su questo binario di parola e azione, di fede e di carità, di materia e di spirito. Le due dimensioni sono essenziali e si esigono a vicenda: la parola senza azione diventa bugiarda; l’azione senza parola perde il suo senso.
P. Antonio Villarino
Roma

Ritiro dei laici missionari comboniani di Bologna e Firenze

LMC Italia

La gioia e la bellezza di essere cristiani e missionari, è la frase che può sintetizzare quanto abbiamo vissuto nel ritiro dei giorni 13 e 14 di giugno. Ci siamo trovati una ventina di laici Comboniani dei gruppi di Bologna e Firenze presso la casa per la pace di Pax Christi a Firenze. Il tema dei due giorni era: ” Discepoli, missionari, Comboniani in cammino”.

E l’ immagine del cammino ci ha accompagnati nelle riflessioni, condivisioni, preghiere. Un cammino, non facile, spesso in salita e faticoso, ma che dona senso e sapore alla nostra vita e vocazione.

Ci ha accompagnato in questo cammino P. Giorgio Padovan, ritornato da pochi mesi dalla missione in Brasile. Ci ha aiutati, in modo semplice, profondo e missionario, sul nostro cammino di uomini e donne, sulla vocazione battesimale, sulla scelta e amore per la missione è il carisma comboniano. Questo sempre a partire dalla nostra vita e realtà , dalla Parola di Dio, dalla vita missionaria e alla luce di S. Daniele Comboni.

LMC Italia

Le riflessioni e condivisioni hanno animato diversi di noi a ripartire, a continuare il cammino missionario con più entusiasmo e gioia, a rinnovare il nostro cuore a volte stanco e ferito.

Sono stati seminati dei semi e ramoscelli, perché ogni gruppo di LMC possa programmare il cammino del prossimo anno con nuova vitalità.

Come essere LMC dove viviamo e lavoriamo?

Come essere cristiani e missionari nel mondo della migrazione, tra gli esclusi, con l’impegno per la giustizia e pace, nelle parrocchie e chiese poco missionarie, chiuse e con paura di uscire?

Ci siamo impegnati a lavorare facendo piccoli segni e gesti su queste realtà, nella certezza che Dio e Comboni faranno il resto.

Un grazie grande a tutti. Un arrivederci e buon cammino missionario.

LMC ItaliaLMC di Bologna e Firenze

“Passiamo all’altra riva”

Commentario a Mc 4, 35-41 (XII Domenica del T.O., 21 di giugno 2015)

DSC00962Andare oltre le frontiere
Domenica scorsa abbiamo visto Gesù “lungo il mare” di Galilea conversando con una moltitudine di persone sul Regno di Dio con un linguaggio vicino a contadini e pescatori. Oggi vediamo come Gesù, finita quella sua conversazione, alla sera di quello stesso giorno, invita i discepoli a salire sulla barca e traversare il lago verso “l’altra riva”. Questa espressione –“l’altra riva”- sembra aver un significato molto più profondo di una semplice referenza geografica. Sappiamo che, nell’altra riva abitavano persone di cultura e religione differente, alle quali Gesù vuole incontrare e condividere con loro la stessa vicinanza di Dio. Infatti, nei vangeli ripetutamente Gesù spinge i discepoli a non rimanere nello stesso luogo, ma camminare verso altri villaggi e città e andare all’incontro di samaritani, peccatori, pagani e altri tipi di persone “differenti”.
Quest’atteggiamento missionario di Gesù fu assunto dalla Chiesa già dai primi tempi fino ad oggi. Paolo, per esempio, fu “forzato” dallo Spirito ad andare oltre la frontiera asiatica verso l’Europa (Macedonia); Francesco Xavier fecce un viaggio di mesi per portare il vangelo al Lontano Oriente; Daniel Comboni traversò il deserto africano per aprire alla Chiesa un nuovo continente; e così molti altri.
Anche oggi, la Chiesa non può rimanere attaccata alla sua posizione “di sempre”. Anche oggi lo Spirito spinge la Chiesa a cercare altre rive, superare frontiere geografiche, culturali e religiose, per andare all’incontro dell’umanità del secolo XXI nei cinque continenti: un’umanità di rifugiati a migranti, di giovani che cercano un futuro e di anziani abbandonati, di milioni di persone che sono come “pecore senza pastore” e senza un senso per la vita…. Tutti noi dobbiamo chiederci: Qual è la riva verso la quale Gesù ci invita a remare? Quali frontiere dobbiamo superare come persone, come famiglie, come comunità, come parrocchie?

Entrare nel mare e confrontare le tempeste
Sappiamo che il mare nella Bibbia rappresenta molte volte un’immagine del male che c’è nel mondo, con i suoi pericoli e tempeste, che possono distruggere e affondare la nostra piccola nave personale e anche la stessa fragile Chiesa.
Di fatto, quando uno decide di uscire del suo piccolo “mondo protetto” da tradizioni e costumi, rischia di trovarsi davanti a nuovi ostacoli e problemi, che uno non è sicuro di sapere come superare. Quando si esce dai muri della parrocchia o della comunità (dove ormai ci conosciamo e ci sentiamo abbastanza sicuri), si può trovare un mondo ostile che respinge e si oppone al nostro stile di vita e al nostro messaggio. Qualche volta, il mondo esteriore può scatenare venti fortissimi che minacciano con affondare la nostra debole fede e la fragile comunità.
Un momento come questo è quello che ci descrive Marco oggi. E Marco cci racconta che i discepoli non si comportarono da falsi super-eroi: loro avevano paura e dubitarono. Fu il momento di guardare al Signore a gridare: “Maestro, non t’importa che siamo perduti?”.

galileaAnche se non lo pare, il Signore è con noi
Marco ci racconta quel’esperienza dei primi discepoli, che, sottomessi a persecuzioni a difficoltà insormontabili, dubitarono e avevano paura, ma, alla fine esperimentarono che il Signore non era morto o addormentato, ma vivo e presente con loro nella comunità che viaggiava in mezzo alle tempeste, non ostante la loro poca fede.
Per noi, come per i primi discepoli, è importante che se vogliamo intraprendere nuove iniziative missionarie, non ci dimentichiamo di portare il Signore con noi nella barca. Non dobbiamo andare in missione soltanto con il nostro entusiasmo e la nostra creatività. Se la missione è soltanto iniziativa nostra, quando venga la tempesta, affonderemo. Ma, se portiamo il Signore con noi (nella sua Parola, nei sacramenti, nella comunità, nel suo Spirito), quando arrivi il momento della difficoltà, grideremo in preghiera sincera, il Signore risponderà e con il suo potere arriveremo alla nuova riva per condividere la buona notizia della sua presenza.
P. Antonio Villarino
Roma

Il seme germoglia e cresce da solo

CommenImagen 027tario a Mc 4, 26-34; XI Domenica del Tempo Ordinario, 14 giugno

Finito il tempo di Pasqua (Quaresima, Pasqua, Pentecoste) e le grandi solennità della Santissima Trinità e del Corpus Domini, ritorniamo adesso al tempo ordinario, in cui seguiamo la lettura continuata di uno dei vangeli, in questo anno, quello di Marco. Siamo ormai alla undicesima domenica di questo tempo ordinario e, anche se nella liturgia si legge appena un piccolo brando del capitolo quarto,  io v’invito a leggere tutto il capitolo, per cos’ cogliere l’dea di quello che l’evangelista ci vuole trasmettere.  Da mia parte, dopo aver fatto questa lettura, condivido con voi due riflessioni:

lago de galilea (jerez)

  • Una folla “lungo la riva” del lago Galilea

Come sappiamo, Gesù stabilì il suo centro d’azione per un po’ di tempo a Cafàrnao, una piccola città costiera del lago di Galilea. Lì la sua presenza causò molto entusiasmo e la gente si stringeva per avvicinarsi a lui e ascoltarlo, poiché la sua parola era di una chiarezza, semplicità a rilevanza tali che “riscaldava il cuore”. Gesù, contadino tra contadini, pescatore tra pescatori, operaio tra operai, si sentiva al suo agio con quella gente umile, sottomessa a grandi sofferenze e difficoltà, affamate di verità e di senso, che non trovavano risposte in tradizioni religiose rutinarie, sclerotizzate, che dicevano niente alla loro vita concreta. Gesù, a partire da una vicinanza affettiva alle loro preoccupazioni e lotte e dalla esperienza contemplativa del deserto, entrava in comunione con loro e si “spandeva” in narrazioni paraboliche, che spiegavano i misteri del Regno di Dio in un linguaggio legato al lavoro de campo, del mare e della vita quotidiana.

Se me permettete un’esperienza personale,  ricordo quando ho cominciato a predicare nel mio paese natale nella lingua locale. A quel tempo in chiesa si parlava la lingua ufficiale, la lingua delle autorità e della burocrazia statale. Alcune persone, con le lacrime agli occhi, mi dicevano: “Mi sembrava di ascoltare il mio nonno conversare nella cucina”. Parlare la lingua del popolo in chiesa sembrava una rivoluzione teologica, perché a quel tempo succedeva una cosa strana: la gente s’avvicinava alla chiesa parlando nella sua lingua delle cose della vita, ma appena passavano la porta della chiesa, si cambiava dizionario e struttura mentale: il prete parlava in una lingua formalizzata e rigida, lontana dalla vita, che era rimasta fuori della porta… Invece, la verità del Vangelo ha da fare più con la vita che con i libri. Penso che tutti noi che abbiamo qualche responsabilità nella trasmissione del Vangelo (genitori, professori, suore, catechisti, preti…) dobbiamo contemplare bene questo modello del Maestro che parla in parabole, che esprime la grande Parola di Dio nelle parole e categorie della vita ordinaria della gente. E bisogna ricordare che la vita spirituale non consiste in usare parole raffinate e molto precise, ma in una vira di fede nelle faccenda ordinarie della vita.

afiche en colombia

  • Il seme cresce “spontaneamente”

Scusatemi quest’obvietà, ma mi sembra che qui risiede la chiave per capire il messaggio di Gesù oggi: “Il seme germoglia e cresce…il terreno produce spontaneamente prima lo stello, poi la spiga. Poi il chicco”.

Gesù ci dice che il Regno di Dio è come un seme che Dio semina nel nostro cuore, nella nostra comunità, nella nostra famiglia… a cresce da solo, nella misura in cui viene accolto dalla terra. Per il seme dare germogliare, crescere e dare frutto, no serve spingere lo stelo in alto, come se si volesse farlo crescere dal di fuori. Il seme ha la sua energia interiore e deve crescere  per la fecondità che Dio a seminato nel suo interiore.

Non vi sembra che alcuni genitori sembrano a volte far crescere i suoi figli forzatamente, come chi vuole spingere la spiga a dare il grano o dare un frutto che non si corrisponde con la sua vocazione personale? Non vi pare che qualche volta, nella vita di famiglia o di comunità, vogliamo forzare le persone a diventare quello che non sono, secondo i doni che Dio ha dato loro? Non ci succede a noi stessi che vogliamo apparire come infallibili o perfetti in un sforzo contro natura che ci fa diventare amareggiati, ipercritici e negativi?

Mi sembra che, con la parabola del seme che cresce da solo, Gesù ci invita, non certo a essere indifferenti, passivi o pigri, ma serene e fiduciosi; fiduciosi nel seme di Verità e di Amore che Dio ha seminato in noi e attorno a noi. Questa verità e Amore crescono e danno frutti di buone opere, anche se noi non sempre sappiamo come. Il nostro lavoro consiste in coltivare la terra e liberarla da spine e sporchizie che possano impedire il seme germogliare e crescere.

P. Antonio Villarino

Roma

 

Messaggio di P. Enrique per la festa del Sacro Cuore

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“Chiediamo la grazia di diventare dei consacrati gioiosi e felici perché portatori nel cuore del tesoro di quell’amore che sgorga dal Cuore trafitto del Signore che san Daniele Comboni scoprì come fondamento su cui costruire la sua missione e al quale si affidò senza mettere limiti. La fiducia nel Cuore di Gesù diventi anche per noi sorgente perenne di un amore che ci aiuti a vivere la nostra consacrazione come il dono più bello che ci sia stato concesso. Buona festa del Sacro Cuore”. P. Enrique Sánchez G. mccj, Superiore Generale.

 

Consacrati nel Cuore di Gesù

Le parole consacrazione e consacrati, con tutti i loro sinonimi, hanno la possibilità di essere approfondite e integrate nella nostra vita, in modo particolare durante quest’anno destinato alla vita religiosa o consacrata, nella misura in cui ci concediamo un momento per la riflessione e, forse, ancora di più, per il ringraziamento per questo dono.

Allo stesso tempo, queste parole rischiano di svuotarsi del loro significato e della ricchezza di cui sono portatrici, se non le confrontiamo con l’esperienza della nostra vita; se non diamo, con la nostra vita, un senso autentico a quello che affermiamo con le parole.

Siamo consacrati. Basta poco per fare quest’affermazione che, però, non appare così evidente quando chiediamo alla nostra testimonianza di vita di esprimere il contenuto di quella che è stata la scelta della nostra vita.

Anche se va detto subito che ci sono esempi estraordinari, molto vicini a noi, di persone che della consacrazione hanno fatto un tesoro e la cui vita si è trasformata in una luce capace di penetrare le tenebre più oscure, oggi abbiamo bisogno di fermarci e chiederci quanto la nostra consacrazione a Dio definisce e caratterizza la nostra identità e il nostro agire.

Riflettere sulla nostra consacrazione può diventare un’occasione straordinaria per appropriarci meglio di ciò che vogliamo dire quando ci riconosciamo persone consacrate a Dio per la missione.

 

La nostra consacrazione missionaria

Come aiuto per la nostra riflessione, in particolare in occasione della festa del Sacro Cuore, mi piacerebbe condividere con voi alcuni brevi pensieri che possano essere delle provocazioni a chiederci quanto e come stiamo vivendo la nostra consacrazione religiosa e missionaria.

Papa Francesco ci ha invitato a fare un esercizio di memoria, per riconoscere nel passato il dono della nostra chiamata, del nostro carisma, lasciando scaturire dal profondo del nostro cuore la gratitudine, la riconoscenza per questo dono. Ci ha raccomandato di contemplare il presente della nostra consacrazione per viverla con passione, senza fare calcoli, con la generosità e l’entusiasmo del primo momento, quando nel silenzio complice di Dio abbiamo sentito pronunciare il nostro nome e sognato una missione senza frontiere.

Il Papa ci ha chiesto di guardare al futuro con speranza, che vuol dire fiducia in Dio, nella sua vicinanza, nella certezza che Lui continua a custodire nel suo cuore un progetto per l’umanità che nessuno potrà impedire, perché sarà sempre un progetto d’amore e l’amore non si ferma di fronte agli ostacoli.

Vivere la nostra consacrazione missionaria in questo modo ci porta a riscoprire, a fare di nuovo l’esperienza della gioia del primo momento della nostra chiamata, e a dire con semplicità, Signore, quanto sei stato grande fissando il tuo sguardo su di me! Non potevi farmi un dono più straordinario.

Essere missionario è stata la scelta migliore che hai fatto per me; grazie, perché sei rimasto fedele e perché quello che mi è accaduto tanti anni fa continua a mantenere la sua freschezza.

Grazie per un presente missionario che ci sfida. La tua chiamata a volte rischia di essere oscurata da tanti ostacoli che troviamo sul nostro cammino. Ci manca la tua passione, il tuo ardore, il tuo coraggio per non lasciarci vincere dall’indifferenza del nostro tempo, dal consumismo che ci circonda, dall’edonismo superficiale che ci assale con le sue trappole, che fanno crescere l’egoismo e la superficialità.

Abbiamo bisogno di passione missionaria, prima di tutto per credere in te con tutto il nostro cuore, per scoprirti presente nel fratello che soffre, nella sorella che è maltrattata, nel giovane condannato a vivere senza la possibilità di sognare un futuro degno, per uscire dalle nostre sicurezze e dalle nostre comodità.

Signore, ci fa bene riconoscere con umiltà e semplicità che ci manca la passione che non ha paura del sacrificio, della rinuncia, dell’abbandono, quella passione che permette di lasciare tutto per fare di te e della tua missione il tutto della nostra vita.

Ci hai dato una vocazione che fa di noi dei privilegiati, perché hai scelto per noi, come luogo per incontrarti, i più poveri, i lontani, quelli che non contano agli occhi dei nostri contemporanei.

“La speranza di cui parliamo – dice il Papa – non si fonda sui numeri o sulle opere, ma su Colui nel quale abbiamo posto la nostra fiducia” (2Tm 1,12).

E noi vogliamo vivere nella speranza, non possiamo non farlo, quando siamo stati testimoni della tua fedeltà, della tua fiducia, della tua premura verso di noi. Non ci spaventa il domani perché sappiamo che tu ci hai preceduto e hai preparato un domani che sarà completamente diverso da quello che avremmo potuto costruire con le nostre forze e con le nostre risorse.

Non abbiamo paura di diminuire, di morire, perché siamo convinti che dove sei presente la vita non può che vincere e che sarai sempre tu a scrivere la bella storia della missione che diventerà anche la nostra.

 

Una consacrazione nei piccoli e grandi dettagli

Quando si parla di consacrazione, mi piace dire che ci riferiamo ad un’esperienza, a una vita che portiamo avanti nei piccoli e grandi dettagli della nostra esistenza, nel quotidiano del nostro agire e nel realizzare il sogno che portiamo nel cuore come ideale che ci spinge ad andare sempre più lontano.

Mi piace dire che essere consacrati non è altro che accettare con gioia che la nostra vita è nelle mani di Colui che ci ha fatto vivere. È accettare che siamo proprietà del Signore, che siamo o stiamo diventando dono di Dio per l’umanità.

Quante volte abbiamo sentito dire che il consacrato o la consacrata sono persone che liberamente hanno accettato di rinunciare a tutto per permettere a Dio di realizzare il suo sogno di amore per l’umanità.

È bello pensare così, perché ci aiuta a capire che la consacrazione non è un’opera che nasce dalla nostra volontà o dalle nostre capacità, ma un’esperienza di grande libertà, di generosità e soprattutto di profonda docilità.

 

Che cosa vuol dire consacrarsi a Dio?

Consacrarsi a Dio vuol dire educare il nostro cuore a vivere sempre aperto e disponibile a quello che Lui vorrà fare di noi. In questo senso, consacrazione è sinonimo di abbandono, di obbedienza e di coraggio, perché con il Signore si sa dove comincia l’avventura, ma non si sa fino a dove ci condurrà.

Parlare di consacrazione significa entrare in un mondo in cui i nostri parametri non funzionano più, perché si entra nel mondo del mistero di Dio, che spezza tutte le nostre logiche e i nostri calcoli e capovolge tutto, diventando Lui il protagonista della nostra storia e il padrone della nostra esistenza.

E qui ci vengono in mente tante frasi del Vangelo: “Non siete voi che avete scelto me, sono io che vi ho chiamato”(Gv 15,16); “Questo è il mio figlio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto” (Mt 3,17).

Quanta forza risuona nel messaggio di Paolo, quando ricorda com’è stato scelto e come, nel suo ministero di apostolo, ha potuto constatare che “Tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno” (Rm 8,28).

Allora, la domanda che sorge spontanea è molto semplice: chi è, in fondo, colui che si consacra?

Quante volte, nella nostra vita, dovremo riconoscere che siamo andati avanti perché il Signore non si è tirato indietro? Quante volte ci accorgeremo che non sono le nostre qualità, i nostri meriti o le nostre virtù ad averci reso meritevoli del dono della scelta che il Signore ha fatto con noi?

Abbiamo una grande responsabilità di custodire e far crescere la grazia ricevuta dal giorno in cui abbiamo risposto di sì al Signore. Ci ricorderemo sempre che Dio chiama e non cambia parere col passare del tempo? A quale fedeltà ci sfida?

 

La testimonianza di san Daniele Comboni

“Avendo un estremo bisogno dell’aiuto del Sacro Cuore di Gesù, Sovrano dell’Africa Centrale e che è egli stesso la gioia, la speranza, la fortuna e il tutto dei suoi poveri Missionari, mi indirizzo a lei, amico, apostolo e fedele servitore di questo Cuore divino così pieno di carità per le anime, le più sfortunate e abbandonate della terra.

Oh, come sono felice di trascorrere una mezz’ora con lei, per raccomandare e confidare al Sacro Cuore gli interessi più preziosi della mia laboriosa e difficile missione, alla quale ho votato tutta la mia anima, il mio corpo, il mio sangue e la mia vita!” (Scritti 5255-56).

La consacrazione del comboniano, per essere vera e fonte di felicità, cercherà sempre di rispondere a questa chiara convinzione di Comboni, dovrà essere cioè consacrazione che nasce dall’esperienza dell’amore che sgorga dal Cuore di Gesù. Il Cuore di Dio che ha amato tanto l’umanità e che non ha avuto dubbi nel consegnarle suo figlio, l’unico, per amore.

È da questo amore che trae origine e si sostiene la nostra consacrazione. È e sarà sempre da questo Cuore aperto che potremo ricevere la luce e la forza per vivere soltanto per Dio e per la sua opera. È dal Cuore di Gesù che dovremo imparare come si diventa uomini di Dio, che trovano la loro gioia nel servire la missione con un cuore indiviso.

Sarà sempre il Cuore di Gesù che ci aiuterà a guardare al futuro senza cadere nello scoraggiamento, nella tristezza o nella delusione, perché dal Cuore di Dio nascono sempre cose nuove per il bene di tutti quelli che si aprono all’amore.

Come Comboni, dovremo imparare a non spaventarci di fronte alle difficoltà della missione che siamo chiamati a vivere. Sarà sempre un’opera laboriosa e difficile, ma non dobbiamo dimenticare che si tratta della missione di Dio e non della nostra. È la missione del Signore, nella quale noi siamo chiamati a diventare semplici collaboratori, mediazioni del suo amore.

Come il nostro santo fondatore, anche noi siamo invitati, chiamati a vivere fino in fondo il dono della vocazione missionaria accettando di consacrare tutta la nostra anima, diventando uomini di fede profonda, accettando con gioia di dare testimonianza attraverso la nostra povertà, la nostra castità e la nostra obbedienza, e cercando sempre di creare ambienti di profonda fraternità.

Anche per noi, la grande sfida della consacrazione sarà la disponibilità a vivere sacrificando tutto per gli altri, per quelli che incontreremo nella missione. Questo vuol dire anche accettazione del martirio, che ci chiederà di fecondare il cuore dei nostri fratelli con la nostra vita consegnata nel quotidiano dell’esistenza, nel servizio umile e nascosto, nell’accettazione gioiosa della rinuncia di noi stessi per permettere a Dio di manifestare il suo amore.

Solo educati a questa scuola di amore che è il Cuore di Gesù, saremo capaci di vivere in tutta libertà la scelta per i più poveri e di dare un volto all’amore di Dio, attraverso la costruzione di un mondo più giusto, più solidale, più rispettoso e capace di generare quella felicità che tutti portiamo nel cuore come l’unico vero anelito della nostra vita.

Chiediamo la grazia di diventare dei consacrati gioiosi e felici perché portatori nel cuore del tesoro di quell’amore che sgorga dal Cuore trafitto del Signore che san Daniele Comboni scoprì come fondamento su cui costruire la sua missione e al quale si affidò senza mettere limiti.

La fiducia nel Cuore di Gesù diventi anche per noi sorgente perenne di un amore che ci aiuti a vivere la nostra consacrazione come il dono più bello che ci sia stato concesso.

Buona festa del Sacro Cuore.
P. Enrique Sánchez G. mccj
Superiore Generale