Laici Missionari Comboniani

Messaggio del Santo Padre Francesco per la Giornata Missionaria Mondiale 2017

PapaFrancisco

La missione al cuore della fede cristiana

 

Cari fratelli e sorelle,

anche quest’anno la Giornata Missionaria Mondiale ci convoca attorno alla persona di Gesù, «il primo e il più grande evangelizzatore» (Paolo VI, Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 7), che continuamente ci invia ad annunciare il Vangelo dell’amore di Dio Padre nella forza dello Spirito Santo. Questa Giornata ci invita a riflettere nuovamente sulla missione al cuore della fede cristiana. Infatti, la Chiesa è missionaria per natura; se non lo fosse, non sarebbe più la Chiesa di Cristo, ma un’associazione tra molte altre, che ben presto finirebbe con l’esaurire il proprio scopo e scomparire. Perciò, siamo invitati a porci alcune domande che toccano la nostra stessa identità cristiana e le nostre responsabilità di credenti, in un mondo confuso da tante illusioni, ferito da grandi frustrazioni e lacerato da numerose guerre fratricide che ingiustamente colpiscono specialmente gli innocenti. Qual è il fondamento della missione? Qual è il cuore della missione? Quali sono gli atteggiamenti vitali della missione?

La missione e il potere trasformante del Vangelo di Cristo, Via, Verità e Vita

1. La missione della Chiesa, destinata a tutti gli uomini di buona volontà, è fondata sul potere trasformante del Vangelo. Il Vangelo è una Buona Notizia che porta in sé una gioia contagiosa perché contiene e offre una vita nuova: quella di Cristo risorto, il quale, comunicando il suo Spirito vivificante, diventa Via, Verità e Vita per noi (cfr Gv 14,6). È Via che ci invita a seguirlo con fiducia e coraggio. Nel seguire Gesù come nostra Via, ne sperimentiamo la Verità e riceviamo la sua Vita, che è piena comunione con Dio Padre nella forza dello Spirito Santo, ci rende liberi da ogni forma di egoismo ed è fonte di creatività nell’amore.

2. Dio Padre vuole tale trasformazione esistenziale dei suoi figli e figlie; trasformazione che si esprime come culto in spirito e verità (cfr Gv 4,23-24), in una vita animata dallo Spirito Santo nell’imitazione del Figlio Gesù a gloria di Dio Padre. «La gloria di Dio è l’uomo vivente» (Ireneo, Adversus haereses IV, 20, 7). In questo modo, l’annuncio del Vangelo diventa parola viva ed efficace che attua ciò che proclama (cfr Is 55,10-11), cioè Gesù Cristo, il quale continuamente si fa carne in ogni situazione umana (cfr Gv 1,14).

La missione e il kairos di Cristo

3. La missione della Chiesa non è, quindi, la diffusione di una ideologia religiosa e nemmeno la proposta di un’etica sublime. Molti movimenti nel mondo sanno produrre ideali elevati o espressioni etiche notevoli. Mediante la missione della Chiesa, è Gesù Cristo che continua ad evangelizzare e agire, e perciò essa rappresenta il kairos, il tempo propizio della salvezza nella storia. Mediante la proclamazione del Vangelo, Gesù diventa  sempre nuovamente nostro contemporaneo, affinché chi lo accoglie con fede e amore sperimenti la forza trasformatrice del suo Spirito di Risorto che feconda l’umano e il creato come fa la pioggia con la terra. «La sua risurrezione non è una cosa del passato; contiene una forza di vita che ha penetrato il mondo. Dove sembra che tutto sia morto, da ogni parte tornano ad apparire i germogli della risurrezione. È una forza senza uguali» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 276).

4. Ricordiamo sempre che «all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (Benedetto XVI, Lett. enc. Deus caritas est, 1). Il Vangelo è una Persona, la quale continuamente si offre e continuamente invita chi la accoglie con fede umile e operosa a condividere la sua vita attraverso una partecipazione effettiva al suo mistero pasquale di morte e risurrezione. Il Vangelo diventa così, mediante il Battesimo, fonte di vita nuova, libera dal dominio del peccato, illuminata e trasformata dallo Spirito Santo; mediante la Cresima, diventa unzione fortificante che, grazie allo stesso Spirito, indica cammini e strategie nuove di testimonianza e prossimità; e mediante l’Eucaristia diventa cibo dell’uomo nuovo, «medicina di immortalità» (Ignazio di Antiochia, Epistula ad Ephesios, 20, 2).

5. Il mondo ha essenzialmente bisogno del Vangelo di Gesù Cristo. Egli, attraverso la Chiesa, continua la sua missione di Buon Samaritano, curando le ferite sanguinanti dell’umanità, e di Buon Pastore, cercando senza sosta chi si è smarrito per sentieri contorti e senza meta. E grazie a Dio non mancano esperienze significative che testimoniano la forza trasformatrice del Vangelo. Penso al gesto di quello studente Dinka che, a costo della propria vita, protegge uno studente della tribù Nuer destinato ad essere ucciso. Penso a quella celebrazione eucaristica a Kitgum, nel Nord Uganda, allora insanguinato dalla ferocia di un gruppo di ribelli, quando un missionario fece ripetere alla gente le parole di Gesù sulla croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», come espressione del grido disperato dei fratelli e delle sorelle del Signore crocifisso. Quella celebrazione fu per la gente fonte di grande consolazione e tanto coraggio. E possiamo pensare a tante, innumerevoli testimonianze di come il Vangelo aiuta a superare le chiusure, i conflitti, il razzismo, il tribalismo, promuovendo dovunque e tra tutti la riconciliazione, la fraternità e la condivisione.

La missione ispira una spiritualità di continuo esodo, pellegrinaggio ed esilio

6. La missione della Chiesa è animata da una spiritualità di continuo esodo. Si tratta di «uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 20). La missione della Chiesa stimola un atteggiamento di continuo pellegrinaggio attraverso i vari deserti della vita, attraverso le varie esperienze di fame e sete di verità e di giustizia. La missione della Chiesa ispira una esperienza di continuo esilio, per fare sentire all’uomo assetato di infinito la sua condizione di esule in cammino verso la patria finale, proteso tra il “già” e il “non ancora” del Regno dei Cieli.

7. La missione dice alla Chiesa che essa non è fine a sé stessa, ma è umile strumento e mediazione del Regno. Una Chiesa autoreferenziale, che si compiace di successi terreni, non è la Chiesa di Cristo, suo corpo crocifisso e glorioso. Ecco allora perché dobbiamo preferire «una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze» (ibid., 49).

I giovani, speranza della missione

8. I giovani sono la speranza della missione. La persona di Gesù e la Buona Notizia da Lui proclamata continuano ad affascinare molti giovani. Essi cercano percorsi in cui realizzare il coraggio e gli slanci del cuore a servizio dell’umanità. «Sono molti i giovani che offrono il loro aiuto solidale di fronte ai mali del mondo e intraprendono varie forme di militanza e di volontariato […]. Che bello che i giovani siano “viandanti della fede”, felici di portare Gesù in ogni strada, in ogni piazza, in ogni angolo della terra!» (ibid., 106). La prossima Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, che si celebrerà nel 2018 sul tema “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”, si presenta come occasione provvidenziale per coinvolgere i giovani nella comune responsabilità missionaria che ha bisogno della loro ricca immaginazione e creatività.

Il servizio delle Pontificie Opere Missionarie

9. Le Pontificie Opere Missionarie sono strumento prezioso per suscitare in ogni comunità cristiana il desiderio di uscire dai propri confini e dalle proprie sicurezze e prendere il largo per annunciare il Vangelo a tutti. Attraverso una profonda spiritualità missionaria da vivere quotidianamente, un impegno costante di formazione ed animazione missionaria, ragazzi, giovani, adulti, famiglie, sacerdoti, religiosi e religiose, Vescovi sono coinvolti perché cresca in ciascuno un cuore missionario. La Giornata Missionaria Mondiale, promossa dall’Opera della Propagazione della Fede, è l’occasione propizia perché il cuore missionario delle comunità cristiane partecipi con la preghiera, con la testimonianza della vita e con la comunione dei beni per rispondere alle gravi e vaste necessità dell’evangelizzazione.

Fare missione con Maria, Madre dell’evangelizzazione

10. Cari fratelli e sorelle, facciamo missione ispirandoci a Maria, Madre dell’evangelizzazione. Ella, mossa dallo Spirito, accolse il Verbo della vita nella profondità della sua umile fede. Ci aiuti la Vergine a dire il nostro “sì” nell’urgenza di far risuonare la Buona Notizia di Gesù nel nostro tempo; ci ottenga un nuovo ardore di risorti per portare a tutti il Vangelo della vita che vince la morte; interceda per noi affinché possiamo acquistare la santa audacia di cercare nuove strade perché giunga a tutti il dono della salvezza.

Dal Vaticano, 4 giugno 2017
Solennità di Pentecoste

FRANCESCO

 

 

 

L’accoglienza dei nuovi paradigmi e sfide della missione

Paradigma-missione

Riprendendo la visione del Concilio Vaticano II, papa Francesco ha eletto il paradigma della “Chiesa in uscita” a programma missionario del nostro tempo. Questa ripresa è significativa in quanto contestualizzata in un mondo, quello odierno, che è in forte discontinuità con il passato. “Non viviamo in un’epoca di cambiamenti, ma in un cambiamento d’epoca”: con queste parole papa Francesco ci ha ricordato che i vecchi schemi con i quali interpretavamo il mondo e la missione non sono più efficaci per rispondere alle sfide di oggi. La nuova realtà globale richiede una “missione globale”, considerata in tutta la sua complessità e con presupposti, stile e strumenti rinnovati rispetto alla tradizione del passato (EG 33).

Lo schema classico che vedeva le Chiese del nord mandare missionari nel sud del mondo è superato dalle trasformazioni degli ultimi decenni, con la globalizzazione e una mobilità umana che hanno raggiunto livelli mai visti prima. Anche le circoscrizioni comboniane riflettono questo cambiamento: nella composizione del personale, nell’inviare missionari ad altre province, nel fatto che l’animazione missionaria è un impegno presente ovunque e non più un campo di servizio esclusivo delle province del nord del mondo.

Il criterio geografico della missione non costituisce più il punto di riferimento principale. Rimane l’idea di frontiera ma questa, ora, si qualifica nelle periferie umane ed esistenziali. È una grande sfida per gli Istituti missionari, la cui maggioranza dei membri di oggi ha probabilmente aderito al proprio istituto identificando la missione con una particolare area geografica. C’è un legame affettivo con la geografia e la storia; la nozione di “missione globale” desta un certo disagio, il timore di vedersi “bloccati” nel nord del mondo o nella propria provincia d’origine per l’idea che “la missione è ovunque”, o “anche in Europa”. In realtà, questa preoccupazione – comprensibile e giustificata – riflette ancora lo schema geografico, che è quello che dicevamo superato. Come pensare, allora, in modo alternativo, più rispondente alla realtà di oggi?

Papa Francesco ci invita a partire dalle frontiere, le “periferie che hanno bisogno della luce del vangelo” (EG 20). Queste non sono semplicemente un dato geografico, ma il risultato di un sistema economico-finanziario che genera esclusione, della cultura dello scarto che produce impoverimento e violenza. Portare la luce del vangelo in queste periferie richiede anzitutto inserzione, cioè:

  • una presenza radicata sul territorio;
  • un coinvolgimento nella vita quotidiana della gente;
  • una solidarietà nella loro sofferenza e istanze;
  • un accompagnare questa umanità lungo tutti i suoi processi, per quanto duri e prolungati possano essere.

Qui sta la chiave dell’approccio ministeriale: questo accompagnamento non è generico, non è una pastorale ordinaria portata nelle periferie. Al Capitolo Generale del 2015 è emerso che siamo presenti, inseriti in alcune periferie molto significative per il nostro carisma, come ad esempio tra gli afro-discendenti e i popoli indigeni in America Latina, o tra i popoli pastoralisti e i residenti delle baraccopoli in Africa. Però spesso non c’è una pastorale specifica che tenga conto della particolarità del contesto, delle situazioni, della cultura locale, dell’unicità di quel popolo. Una pastorale che, nella complessità del mondo d’oggi, richiede l’articolazione di diversi ministeri e un evangelizzare come comunità. Comunità apostoliche che non solo collaborano identificando e condividendo i propri doni, ma anche che testimoniano il Regno vivendo la fraternità e la comunione nella diversità.

Tutti questi elementi non sono “nuovi”; presi in se stessi possono essere già presenti in varie esperienze dell’Istituto e se ne è già parlato in diversi Capitoli. Ma siamo chiamati ad assumerli in una nuova prospettiva, o paradigma, cioè un punto di vista sulla missione che ne riorganizzi tutti gli aspetti fondamentali. L’immagine della “Chiesa in uscita” è un’icona che suggerisce un’idea di missione e una metodologia pastorale (prendere l’iniziativa, coinvolgersi, accompagnare, fruttificare, festeggiare, EG 24). È paradigmatica, perché richiede anche che altre dimensioni fondamentali, come la formazione e l’organizzazione dell’Istituto a vari livelli, divengano coerenti e finalizzate a questa missione.

A questo punto, come possiamo accogliere in pratica questo paradigma e quali sfide dobbiamo affrontare? Il Capitolo ci suggerisce di cominciare dalla missione, partendo dall’identificazione delle priorità continentali, condivise da più circoscrizioni e vissute in una più ampia collaborazione, a livello interprovinciale o continentale. Nel contesto di tali priorità, siamo chiamati a sviluppare delle pastorali specifiche come riqualificazione della nostra presenza e servizio missionario. Tenendo fermo questo punto centrale, avremo un punto di riferimento per ripensare anche la formazione e la riorganizzazione dell’Istituto.

  1. Sviluppare delle pastorali specifiche

Sviluppare una pastorale specifica è un compito ecclesiale, non si può fare da soli. Richiede dialogo, partecipazione, collaborazione, molteplicità di competenze ed esperienze. Soprattutto, ci vuole un metodo che permetta di valorizzare tutti i contributi, accogliere esperienze e prospettive diverse, e creare comunione nella diversità. Una pastorale specifica viene assunta quando, nonostante le varietà di vedute, prospettive teologiche, sensibilità e ministeri, tutti possono riconoscervisi senza dover annullare il proprio senso di identità. È un punto di fondamentale importanza, specialmente in un Istituto che sta crescendo in internazionalità e che comincia a vivere la sfida dell’interculturalità.

Tutto questo è possibile partendo dalla condivisione dalla base delle esperienze più trasformative in relazione alla pastorale specifica presa in considerazione, con un approccio di “indagine elogiativa” (Appreciative Inquiry). La riflessione comune su tali esperienze rigeneranti fa sorgere delle nuove intuizioni e comprensioni di ciò che rende un ministero fruttuoso in quel contesto.

Per meglio comprenderne il perché dell’efficacia e per approfondirne le dinamiche, queste esperienze vanno poi confrontate con un’analisi socio-culturale dei contesti della pastorale specifica, per coglierne il quadro d’insieme, le dinamiche e le tendenze.

Analogamente, una riflessione teologica e ministeriale specifica su quella realtà ci aiuta a mettere meglio a fuoco i nostri ministeri e ad identificare gli strumenti operativi più adatti.

Il passaggio successivo è quello del discernimento partecipato di alcuni principi che possano guidarci in quel contesto pastorale specifico. Proprio in quanto linee guida, questi non danno delle soluzioni prefabbricate, ma lasciano spazio per adattarsi alle situazioni particolari e per la creatività. Su questa base sarà possibile costruire un cammino di comunione in cui sperimentare, ricercare, imparare, condividere, scambiare esperienze e personale, documentare scoperte e risultati, e così via in cicli successivi di azione-riflessione (Action Learning).

  1. La riorganizzazione

Per riuscire sviluppare e sostenere delle pastorali specifiche è necessario arrivare gradualmente ad una riorganizzazione delle nostre presenze e modo di operare. Fino ad ora la nostra presenza missionaria è stata principalmente basata sul criterio geografico: i confratelli vengono destinati ad una provincia e poi, a seconda dei bisogni, vengono assegnati ad una comunità. Questa struttura riflette il presupposto che – al di là di alcuni servizi particolari – generalmente il lavoro missionario consista nel fondare o portare a maturazione delle comunità cristiane o parrocchie. Ma questo non è l’unico modo possibile di pensare l’organizzazione del lavoro missionario.

Per esempio, i gesuiti da alcuni decenni hanno cominciato a pensare il loro servizio missionario anche come risposta ai bisogni umani dei rifugiati (JRS), di persone colpite dall’AIDS (AJAN), e alle situazioni di ingiustizia (centri di fede-giustizia – faith-justice). Il personale viene adeguatamente preparato ed assegnato per questi servizi.

In anni recenti, anche l’Istituto comboniano ha intrapreso una riflessione sull’approccio ministeriale, guardando in particolare ad alcuni gruppi umani che subiscono esclusione e a ministeri in ambiti prioritari (AC ’03 n. 43 e 50; AC ’09 n. 62-63; AC ’15 n. 45). Ovviamente l’elemento geografico è ineludibile, in quanto anche questi gruppi umani sono spazialmente collocati, l’inserzione nella Chiesa locale esige anche una presenza parrocchiale, ma il criterio guida è il ministero specifico verso questi popoli che richiede:

  1. Equipe pastorali. Sono composte di diversi ministri, con specifiche competenze e una varietà di doni personali, che collaborano come squadra. Vista la complessità del mondo d’oggi, è opportuno mettere assieme competenze di vario genere, includendo per esempio quelle nelle scienze umane e sociali. La diversità di competenze è di aiuto nella collaborazione; la diversità di nazionalità e culture all’interno dell’equipe, vissute nella fraternità, sono un segno profetico in un mondo sempre più diviso ed in conflitto. Questa comunione/solidarietà è ciò che contraddistingue un’equipe pastorale, che non è solo una squadra di lavoro affiatata ed efficace, ma una fraternità di discepoli-missionari. Evidentemente, comunità di grandezza media avranno maggiori possibilità di essere significative, potendo mettere assieme competenze e ministeri complementari e trasversali (come ad esempio GPIC), assorbire meglio le assenze per vacanze o motivi di salute, sviluppare una riflessione più ricca e condividere competenze e risorse con altre comunità impegnate nella stessa pastorale specifica. Ciò richiede una riduzione del numero di comunità, ma facilita il lavoro in rete, dal livello locale a quello inter-provinciale.
  2. Lavoro in rete. L’equipe pastorale non lavora in isolamento, ma è anzitutto inserita e collabora con la Chiesa locale. Va anche oltre, cooperando con varie componenti della società civile per una trasformazione sociale ispirata ai valori del Regno. Ci sono anche altri livelli di collaborazione che l’esperienza ci segnala come critici: ad esempio il fare rete con altre comunità ed equipe ministeriali, sia a livello regionale che su scala internazionale. Senza questo supporto e continuo stimolo all’apertura e alla crescita, allo scambio e alla condivisione di risorse, un’equipe locale ben presto si troverà a corto di ossigeno. Soprattutto per quanto riguarda la ricerca, la sperimentazione, l’apprendimento continuo e la riflessione sulle buone pratiche e l’innovazione. Il mondo continua a spostarsi, mentre l’equipe rischia di fermarsi e fossilizzarsi, o di reagire alle situazioni anziché rispondervi creativamente.
  3. Strutture di sostegno. Le varie equipe impegnate in una stessa pastorale specifica a livello locale hanno bisogno di strutture di collegamento e di sostegno. Questo sarebbe anche il miglior contesto per proporre dei percorsi di formazione permanente, ricerca e sperimentazione per meglio accompagnare la gente nel suo cammino di inclusione e trasformazione. La collaborazione con istituzioni accademiche e di ricerca, per esempio, può essere una risorsa utile, come anche dei segretariati specifici e dei processi di ricerca e azione partecipata. Bisogna anche ripensare le strutture in cui viviamo o che amministriamo nel nostro ministero. Queste infatti possono porre una certa distanza tra la gente e i missionari, o anche semplicemente assorbirli così tanto nell’amministrazione da far perdere il contatto diretto con le persone o la disponibilità a camminare accanto ad esse. Va poi notato come anche il Fondo Comune Totale sia un’opportunità che può aiutarci a fare una programmazione partecipata e responsabilizzante nel contesto di una pastorale specifica a livello provinciale. La dimensione economica, infatti, attiene alle scelte di stile, mezzi, cooperazione e programmazione di un settore pastorale, con il quale interagiscono i progetti comunitari. Infine, la riduzione degli impegni e la riqualificazione delle presenze e servizi missionari richiesti dall’ultimo Capitolo Generale diventeranno una realtà se avremo gli strumenti e il metodo per realizzarli attraverso cammini di comunione, inclusivi e partecipati. È su questo versante che si gioca l’efficacia di una leadership che non sia soltanto amministrativa, ma che ci porti verso una nuova primavera.
  1. Una formazione mirata

Anche la formazione di base va rivista per sviluppare competenze ministeriali, soprattutto per quanto riguarda il curriculum degli scolastici. I programmi di teologia, che generalmente offrono una preparazione teologica accademica, non necessariamente formano agli atteggiamenti e alle competenze utili all’approccio ministeriale, né forniscono sostegno, metodologie e strumenti pratici che tanto gioverebbero ad una pastorale specifica. Va da sé che un curriculum di studi sarà tanto più utile quanto più verrà incontro alle scelte di ministeri specifici dell’Istituto. Si potrebbe pertanto pensare alla possibilità di caratterizzare la formazione negli scolasticati con degli orientamenti coerenti con le priorità ministeriali del continente in cui si trovano. Anche se poi un confratello si troverà a lavorare in altri contesti, le competenze ministeriali acquisite saranno in parte trasferibili e comunque una base migliore per impararne di nuove.

In conclusione, l’accoglienza del nuovo paradigma di missione non significa rottamare il passato per introdurre solo cose completamente nuove. Piuttosto, si tratta di riorientare e integrare i diversi aspetti della vita e del servizio missionario (pastorali specifiche, persone, riorganizzazione, economia) attorno alla visione di missione indicata dal Capitolo e ai processi partecipativi di riqualificazione delle nostre presenze e servizio missionario.
Fr. Alberto Parise mccj

Domande

  1. Per sviluppare pastorali specifiche è richiesta una lettura approfondita della realtà. È pratica comune (nelle comunità, zone, circoscrizioni e continenti) una lettura della realtà (attraverso l’adozione, ad esempio, del circolo ermeneutico) per identificare necessità pastorali e adottare modalità di presenza e di intervento che incontrino tali necessità?
  2. Quali passi sono stati fatti nella circoscrizione per ripensare gli obiettivi, la struttura, lo stile e i metodi di evangelizzazione secondo un’ottica ministeriale?
  3. Ministeri specifici (che riguardano, per esempio, gli afro-discendenti e i popoli indigeni in America Latina, i popoli pastoralisti in Africa e i residenti delle baraccopoli, i rifugiati ecc.) richiedono, oltre ad equipe pastorali, un lavoro in rete e strutture di sostegno che abbiano delle prospettive pastorali continentali. Quanto la nostra programmazione pastorale riesce a superare i limiti geografici della circoscrizione e adottare un approccio continentale? Quali strutture continentali dovrebbero essere rafforzate per favorire un criterio continentale alle necessità pastorali comuni?

 

Buona Festa del Sacro Cuore di Gesù

Sagrado Corazon

La solennità del Sacro Cuore di Gesù si celebra il prossimo venerdì 23 giugno. “Viviamo questa festa così cara a tutti noi con lo sguardo fisso nel Cuore di Gesù, lasciandoci arricchire con la testimonianza di coloro che ci hanno preceduto lungo la storia del nostro Istituto e impegnandoci sempre di più nella fedeltà quotidiana ai valori del Vangelo. Buona Festa del Sacro Cuore! Nell’anno del 150° della Fondazione del nostro Istituto” (Consiglio Generale).

“Dio infatti ha tanto amato”

“Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Gv 3,16)

Carissimi confratelli,
Saluti e Preghiere: Buona Festa del Sacro Cuore di Gesù.

Dio nostro Padre ha mandato il suo unico figlio, come segno del suo amore per l’umanità bisognosa e sofferente e ha consolato tutti noi attraverso lo Spirito Santo, dono del suo figlio Gesù Cristo, nostro Signore Crocifisso e Risorto. Noi crediamo che ogni discepolo e discepola, siano chiamati e mandati ad annunciare, testimoniare e servire questo amore di Dio. Noi tutti ringraziamo il Signore perché ha fatto di San Daniele Comboni e di noi, i suoi figli, Missionari Comboniani, dei messaggeri, testimoni e servi del suo amore.

Tutto ciò che il nostro Padre Fondatore, San Daniele Comboni, ha capito del grande amore di Dio, lo portava al Sacro Cuore di Gesù, simbolo dell’amore di Dio per l’umanità.

“Avendo un estremo bisogno dell’aiuto del Sacro Cuore di Gesù, Sovrano dell’Africa Centrale e che è egli stesso la gioia, la speranza, la fortuna e il tutto dei suoi poveri missionari; mi indirizzo a lei amico…, per raccomandare e confidare al Sacro Cuore gli interessi più preziosi della mia laboriosa e difficile Missione, alla quale ho votato tutta la mia anima, il mio corpo, il mio sangue e la mia vita! (Scritti, 5255-5256).

Carissimi confratelli, in questo anno in cui celebriamo i 150 anni del nostro Istituto Missionario, vogliamo continuare a contemplare e ringraziare Dio, per l’amore vissuto nella sua vita da San Daniele Comboni e da tanti nostri confratelli e per la grande generosità verso il popolo di Dio nonostante le nostre fragilità, i nostri limiti e i nostri peccati.

Io prendo a far causa comune con ognuno di voi, e il più felice de’ miei giorni sarà quello, in cui potrò dare la vita per voi” (Scritti, 3159).

Sì, Comboni e i nostri confratelli si sono lasciati allargare il proprio cuore affinché assomigliasse un po’ di più a quello di Gesù, così da poter fare causa comune e partecipare con generosità alla missione di Dio, fra i popoli, dove siamo, e soprattutto fra quanti soffrono, sono marginalizzati e impoveriti.

“Mi trovo sempre con i miei cari lebbrosi, parlo loro della bontà del Signore, e insegno la parola di Dio. Ho la chiesa attigua alla mia casetta, Gesù vicino a Giosuè: chi più beato di me? Non è questo un piccolo paradiso? Quanto al male che mi ha visitato, oh, io bacio la mano del Signore che mi ha regalato la lebbra; poter soffrire così; per queste anime, non è una grazia? Io non ho che un desiderio: morire lebbroso tra i miei lebbrosi!” (Fr. Giosuè Dei Cas, 1880-1932).

Sì, continuiamo a ringraziare il Signore per ognuno dei nostri confratelli che fanno causa comune e annunciano Gesù Cristo e il suo Vangelo per costruire il Regno di Dio, ricordandoci che alcuni hanno pagato la loro testimonianza con la propria vita.

“La Croce è la solidarietà di Dio, che assume il cammino e il dolore umano, non per renderlo eterno ma per sopprimerlo. La maniera con cui vuole sopprimerlo non è attraverso la forza né col dominio, ma per la via dell’amore. Cristo predicò e visse questa nuova dimensione. La paura della morte non lo fece desistere dal suo progetto di amore. L’amore è più forte della morte” (P. Ezechiele Ramin, Omelia ai Fedeli, Venerdì Santo, Cacoal, 05-04-1985).

Dunque, viviamo questa festa così cara a tutti noi con lo sguardo fisso nel Cuore di Gesù, lasciandoci arricchire con la testimonianza di coloro che ci hanno preceduto lungo la storia del nostro Istituto e impegnandoci sempre di più nella fedeltà quotidiana ai valori del Vangelo.

Buona Festa del Sacro Cuore!
Nell’anno del 150° della Fondazione del nostro Istituto
Il Consiglio Generale MCCJ

Ricordare e raccontare la missione

P.-Mariano-TibaldoMolte volte mi sono domandato – scrive P. Mariano Tibaldo (nella foto) – come la mia esperienza missionaria abbia influito sul mio modo di percepire gli altri, sul mio rapporto con il mondo delle cose, sulla mia relazione con Dio e con il mio essere missionario. In altre parole, quali percorsi mi abbiano condotto a essere quello che sono, in quale modo i contatti con gente di diversa cultura e sensibilità mi abbiano cambiato, come la vita in comune con confratelli segnati da esperienze positive ma anche tragiche mi abbiano trasformato, e come situazioni dense di significati e, a volte, drammatiche, abbiano affinato la mia sensibilità missionaria.

‘Raccontare’ la missione, allora, non è semplicemente riportare fatti e problematiche missionarie (tanto meno esporre ‘paradigmi missionari’ che titillano la mente, forse, ma non il cuore). Raccontare la missione è ‘ricordare’ gli eventi fondanti che hanno segnato la vita (nel senso più ampio del termine, come eventi-segni di realtà-altre, dove si è accarezzati dalla mano invisibile di Dio), e fanno parte della propria storia e identità; il racconto, allora, assume una dimensione performativa perché, testimoniando un cambiamento che interessa la mente, il cuore, la volontà, coinvolge altri nel proprio percorso missionario. Raccontare la missione è, in sintesi, testimoniare un incontro che misteriosamente affiora nella storia e che dà la direzione di marcia. La missione nasce dall’incontro con l’amore di Dio. Lo dice Papa Francesco nell’enciclica Evangelii Gaudium (EG): “Solo grazie a quest’incontro – o re-incontro – con l’amore di Dio, che si tramuta in felice amicizia, siamo riscattati dalla nostra coscienza isolata e dall’autoreferenzialità. Giungiamo ad essere pienamente umani quando siamo più che umani, quando permettiamo a Dio di condurci al di là di noi stessi perché raggiungiamo il nostro essere più vero. Lì sta la sorgente dell’azione evangelizzatrice. Perché, se qualcuno ha accolto questo amore che gli ridona il senso della vita, come può contenere il desiderio di comunicarlo agli altri?” (n. 8).

Ricordare i 150 anni dell’Istituto è, pertanto, celebrare eventi costitutivi e fondanti, quella “roccia da cui siamo stati scavati”, che ci hanno resi ciò che siamo e in cui discerniamo l’amorevole mano di Dio, ma anche fare memoria delle persone che ne hanno incarnato i valori con passione e nell’estrema donazione di sé. Di questi eventi ne scelgo tre che, mi sembra, abbiano un significato particolare nella nostra vita e, in particolare, nel nostro modo di vivere la missione perché ne esprimono le costanti, gli atteggiamenti e le dimensioni fondamentali.

  1. La morte di Comboni quale evento paradigmatico della sua vita

Confesso di essere sempre stato affascinato dalla passione viscerale di Comboni per l’Africa, da quel suo consumarsi per l’Africa, come la fiamma che lentamente consuma la cera: come non ricordare una delle ultime foto di Comboni, ormai alla fine della sua vita, con la barba striata di bianco e il volto segnato dai patimenti? Ma sono sempre stato affascinato anche dalla morte e dal dopo-morte di Comboni, quali eventi emblematici della sua vita. Comboni moriva quando all’orizzonte si stavano addensando le nuvole minacciose della rivoluzione del Mahdi che avrebbe spazzato via le missioni del Sudan. Qualche giorno prima della sua morte, aveva scritto a p. Sembianti una lettera che terminava con queste parole: “Io sono felice della croce, che portata volentieri per amore di Dio genera il trionfo e la vita eterna”. Parole che, dal punto di vista puramente umano, sembravano contraddire l’evidenza, almeno per quanto riguardava il ‘trionfo’ della sua missione. Chi, come lui, poteva capire l’enormità della missione ma anche l’esiguità delle forze? Un’eredità raccolta da Johan Dichtl, che assistette Comboni nelle ultime ore della sua vita, ma che era ancora troppo giovane, così pareva, per proseguire quella missione sovrumana. Un’eredità che sembrava chiudersi tragicamente poco tempo dopo con l’avvento della Mahdia.

Comboni veniva sepolto nel giardino della missione, accanto alla tomba del primo provicario apostolico, il gesuita Massimiliano Ryllo. Dopo la rivoluzione, nel 1901, l’allora vicario apostolico, Mons. Roveggio, torna nel cimitero della missione di Khartoum per riesumare le salme. “[…] si è tornati nel giardino della missione di Khartum, – scrive Domenico Agasso nella biografia sul Comboni – presso le tombe di padre Ryllo e monsignor Comboni. La prima è stata trovata intatta. […]. Di Daniele Comboni, invece, in quella distruzione, solo poche ossa mescolate alla terra. […]. Pochi resti […]: il corpo del vicario apostolico è rimasto in gran parte là, mescolato a quella terra. La donazione totale […] Comboni e l’Africa, una cosa sola[1]. Una scena commovente, parole che ancor di più esprimono la passione viscerale di Comboni, di cui non solo la vita ma anche la morte sembra appartenere all’Africa. Un evento, mi pare, altamente simbolico: il corpo di Comboni, “mescolato a quella terra” sembra quasi fecondarla. Un’appartenenza, la sua, oltre la morte. Ma, al di là del turbamento emotivo, il punto di vista umano ci indurrebbe a pensare che il grande sogno di Comboni si fosse risolto in un insuccesso – come altre esperienze prima di lui.

Mi sembrano, allora, illuminanti le parole di Papa Francesco che, nell’Evangelii Gaudium, formula un principio fondamentale nella costruzione di una nuova società: il tempo è superiore allo spazio. “Dare priorità al tempo, afferma il Papa, significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci”. E ancora: Questo criterio è molto appropriato anche per l’evangelizzazione, che richiede di tener presente l’orizzonte, di adottare i processi possibili e la strada lunga” (n. 223 e n. 225).

La vita e la morte di Comboni come un’azione generativa di un processo di cambiamento attraverso persone che, per quanto numericamente poche, ne continuino il sogno. Pertanto, un criterio di metodo missionario e di animazione missionaria è quello di mettere in atto azioni generative che, per quanto apparentemente insignificanti, innescano un movimento di trasformazione, associandovi persone che diventino, esse stesse, strumenti di cambiamento. Gli esempi, nella nostra storia, non mancano. Accenno brevemente a Fr. Michele Sergi e al suo ‘club’ a Khartoum, un punto d’incontro e di formazione per i giovani, una realizzazione senza grandi pretese, ma molti di coloro che vi furono formati diventarono pionieri dell’evangelizzazione nelle zone del Sudan del Sud dove i missionari non erano ancora arrivati.

  1. Dopo la rivoluzione del MahdiP.-Mariano-Tibaldo

L’uragano della rivoluzione del Mahdi, subito dopo la morte prematura di Comboni, si abbatte sulle nostre missioni. La missione dell’Africa Centrale viene spazzata via, i missionari e le missionarie fuggono in Egitto o vengono fatti prigionieri. Per questi ultimi inizierà il calvario della prigionia e delle umiliazioni.

Dopo vent’anni circa, i missionari ritornano a Khartoum e iniziano la marcia verso sud per fondare nuove missioni; senza punti di riferimento, senza esperienza, senza, addirittura, un manuale missionario. P. Antonio Vignato, ripensando alle sue prime esperienze in Sudan, inquadra la situazione: “Un terribile ritardo della nostra organizzazione catechistica si deve attribuire anche all’inesperienza di come organizzare la missione; nessuno di noi aveva osservato sul posto il lavoro degli altri missionari e pochissimo si aveva letto dell’esperienza altrui. L’unica nostra esperienza ci era data dalla colonia antischiavista di Gesirah […] e dalle scuole di Helouan, Suakim e simili[2]. Bisogna ricominciare da capo e rifondare il sogno di Comboni, nonostante le difficoltà immani e gli impedimenti posti sul cammino.

Perdere tutto e ricominciare da capo, rifondare il sogno di Comboni – o tenerlo vivo nelle tragedie in cui molti di noi si sono trovati – è una costante che ci ha accompagnati dall’inizio. È come se il Signore ci avesse condotto, attraverso queste e altre esperienze dolorose, all’essenzialità della missione. Ricordo le distruzioni della guerra in Uganda, quando ancora ero scolastico; delle missioni distrutte: Maracha, Koboko e altre; ricordo la missione di Otumbari, lasciata dai missionari su ordine del vescovo perché in zona di guerriglia, il dolore di p. Bernardo Sartori all’ordine di evacuare la missione, nonostante non ne fosse convinto, e il suo piegare il capo in obbedienza. Ho presente anche quei tanti confratelli che rimangono con la gente nonostante le guerre e le violenze, a volte seguendola come rifugiati. Ricominciare da capo, caparbiamente, tenere vivo il sogno di Comboni, che è poi quello di Gesù, o rifondarlo quando tutto sembra perduto, passando attraverso un doloroso processo di kenosi, che è partecipazione alla kenosi di Gesù, dove tutto un lavoro di anni è distrutto e annullato; è però un’esperienza che può diventare, attraverso un processo di discernimento guidato dallo Spirito, kairòs, momento opportuno di crescita e di cambiamento.

Ecco allora un richiamo a ritornare all’essenziale attraverso l’annullamento di certezze effimere e di piani e metodi ben congegnati, se frutto solo di “vanagloria”. “Quante volte sogniamo piani apostolici espansionisti, meticolosi e ben disegnati, tipici dei generali sconfitti! – ci ricorda il Papa – Così neghiamo la nostra storia di Chiesa, che è gloriosa in quanto storia di sacrifici, di speranza, di lotta quotidiana, di vita consumata nel servizio, di costanza nel lavoro faticoso, perché ogni lavoro è ‘sudore della nostra fronte’”, (EG n. 96). Allora anche la tragedia, le sconfitte, la perdita, l’annullamento delle nostre certezze mondane diventano appello alla conversione, si trasformano in eventi fondanti per ritornare alle radici della nostra identità e della missione.

In pochi tratti l’Evangelii Gaudium prospetta le dimensioni di una comunità ‘in uscita’ e in che cosa consista l’essenzialità della missione. Papa Francesco parla di prendere l’iniziativa, cercare i lontani, andare nei crocicchi delle strade e invitare gli esclusi: è andare verso i ‘più poveri e abbandonati’ della nostra tradizione; la formula ad gentes, in questa prospettiva, conserva ancora la sua validità. Ma Francesco parla anche di una comunità che si coinvolge e sa “assumere la vita umana toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo”, eco di quel ‘fare causa comune con la gente’ che è parte della metodologia comboniana di evangelizzazione; missione è toccare la carne sofferente del fratello – ‘carne’ intesa nelle sue varie dimensioni: umane, sociali e culturali – e invito a non “rimanere nella pura idea e degenerare in intimismi e gnosticismi che non danno frutto”, bensì a porre in essere “il criterio di realtà di una Parola già incarnata e che sempre cerca di incarnarsi” secondo il criterio per cui “la realtà è più importante dell’idea” (EG n. 233). Francesco aggiunge altre dimensioni missionarie: quella di accompagnarel’umanità in tutti i suoi processi, per quanto duri e prolungati possano essere”; accompagnare è un percorso che “conosce le lunghe attese e la sopportazione apostolica. L’evangelizzazione usa molta pazienza, ed evita di non tenere conto dei limiti”. Salvare l’Africa con l’Africa’ non sottolinea forse il processo di farsi compagni discreti perché la gente sia protagonista del proprio destino? E, infine, i criteri di fruttificare e festeggiare per “far sì che la Parola s’incarni in una situazione concreta e dia frutti di vita nuova” e “possa celebrare e festeggiare ogni piccola vittoria, ogni passo avanti nell’evangelizzazione” (EG n. 24).

Ritornare all’essenzialità della missione è riscoprire la comunità come soggetto che evangelizza, che prende l’iniziativa, si coinvolge, accompagna, fruttifica e festeggia perché, nelle parole dell’Enciclica, la comunità “è un’intimità itinerante, e la comunione «si configura essenzialmente come comunione missionaria»” animata dallo Spirito di Gesù (EG n. 23). La comunità, aggiungo, è quell’intimità itinerante che, mentre evangelizza, viene evangelizzata, mentre insegna, impara, mentre è soggetto di missione ne diviene l’oggetto, in un mutuo arricchimento di dare e ricevere (AC ’15 n. 3, 26).

  1. Divisione e riconciliazione

Ricordarci, anche per sommi capi, gli eventi che portarono alla divisione e, poi, alla riunione dell’Istituto mi sembra abbia una conseguenza non solo su come vediamo la nostra comune appartenenza ma anche sul modo in cui viviamo la missione.

La divisione dell’Istituto, sancita nel 1923, fu una “profonda ferita”, scrive p. Romeo Ballan sull’inserto di Familia Comboniana, aprile 2017, riportando i commenti dei pp. F. Pierli e T. Agostoni. Una divisione le cui ragioni sembravano avere più peso delle motivazioni per rimanere uniti: diversa formazione, diverso metodo missionario, accesi nazionalismi, il tutto condito da un’assoluta mancanza di dialogo al vertice cui si imputava, così si scriveva nel Bollettino del 1972, la separazione in due dell’unico corpo fondato dal Comboni[3]. Una divisione vissuta con sofferenza da molti comboniani, aperti di cuore e di mente: “La separazione non è mai stata senza rimpianti – insisteva lo stesso articolo – anzi, in taluni è stata un caso di coscienza [4].

Però, l’anelito verso la riunione non fu mai sopito perché “il corpo comboniano rimase fedele alla propria vocazione: per ciò l’inquietudine feconda seminatavi da Comboni[5]. Inquietudine che fa superare le reciproche cautele e i preconcetti quando la coscienza della comune appartenenza a Comboni come figura di fondazione e la consapevolezza della missione come ragione di essere dell’“unico Istituto Comboniano «nato in missione»[6] si rafforzano e diventano le ragioni generative di un nuovo movimento: allora le inquietudini diventano prassi, storia concreta fatta di dialoghi informali, ricerche di studio, collaborazione nelle missioni, concrete realizzazioni per una formazione comune in Spagna, lavoro di persone che hanno creduto nella riunione come i pp. Riedl e Farè, storia di deliberazioni dei Capitoli Generali dei due Istituti, di attività della Reunion Study Commission, fino al Capitolo del 1979 che ha formalmente sancito la riunione. Ma la riunione, che è semplicemente un fatto formale e giuridico, è stata preceduta da dialogo sincero, accettazione reciproca e, direi, onesto riconoscimento dei propri pregiudizi nella consapevolezza di radici identitarie comuni come punto fermo per ricostituire l’unità. Ritengo quest’anelito verso la riunione e il processo che lo ha messo in moto eventi fondanti della nostra identità, soprattutto oggi in cui l’Istituto sta assumendo una marcata dimensione multiculturale: siamo un Istituto fondato sulla riconciliazione e sull’accoglienza reciproche e la cui missione è creare comunità riconciliate: il perdono, il dialogo, la riconciliazione, l’accoglienza dell’altro fanno parte della nostra identità missionaria.

Trovo perciò pertinenti le parole dell’Evangelii Gaudium sulle modalità di porsi di fronte agli inevitabili conflitti che possono sorgere nella comunità. Il conflitto, afferma il Papa, non si dissimula, tanto meno vi si rimane prigionieri gettando sugli altri le proprie “confusioni e insoddisfazioni”, ma lo si accetta, lo si risolve, lo si trasformacome anello di collegamento di un nuovo processo” (EG n. 227). “In questo modo, prosegue il Papa, si rende possibile sviluppare una comunione nelle differenze, che può essere favorita solo da quelle nobili persone che hanno il coraggio di andare oltre la superficie conflittuale e considerano gli altri nella loro dignità più profonda. Per questo è necessario postulare un principio che è indispensabile per costruire l’amicizia sociale: l’unità è superiore al conflitto” (EG n. 228). In sintesi, il conflitto va affrontato nell’accettazione incondizionata dell’altro e nell’orizzonte della propria identità carismatica e missionaria; in questo modo le differenze, occasioni di conflitto, sono invece trasformate in potenzialità a vantaggio della missione. È da questi conflitti accettati, risolti, trasformati che si procede sulla via della costruzione di comunità interculturali e la comunità stessa diventa segno e strumento di riconciliazione e di dialogo.

P.-Mariano-Tibaldo

  1. Per concludere: alcuni nodi problematici

Vorrei accennare ad alcune questioni che mi sembrano importanti in questo primo quarto del XXI secolo e lo faccio senza avere la pretesa di soluzioni ma come proposte per una riflessione ulteriore.

Scrivevo più sopra di un Istituto, dove confratelli portatori di nuove culture provenienti dal Sud Globale (una qualifica che prendo a prestito da alcuni sociologi) stanno entrando nell’Istituto occupandone anche spazi di gestione. L’Istituto sta cambiando non solo numericamente, con l’avvento di questi confratelli, ma anche perché essi portano nuovi modi di pensare la vita religiosa, la comunità e la missione, retaggio di un diverso ambiente culturale. Il dialogo, che si alimenta dell’ascolto profondo delle ragioni dell’altro, è tanto più necessario ora, nel momento in cui si stanno palesando queste differenze culturali e alcune soluzioni a questioni che sembravano comunemente accettate sono rimesse in questione.

Mi riferisco in modo particolare alla problematica delle comunità d’inserzione radicale che, secondo un intendimento e una prassi comune, sottintendono il vivere poveramente, a livello dei poveri e in strutture povere. Mi chiedo se confratelli di altre culture, che non siano quelle del mondo occidentale, abbiano un altro modo di intendere la povertà, di vivere da poveri con i poveri e, in generale, una sensibilità diversa verso la povertà ‘radicale’. Non ho soluzioni a questo quesito, mi limito a porre la questione ritenendo, però, che il compito di ascoltarci, soprattutto di ascoltare tanto i messaggi verbali quanto quelli non verbali, ci aiuti nella costruzione di una comunione delle differenze, primo passo verso la realizzazione di comunità interculturali.

Un secondo problema riguarda la provvisorietà degli impegni e, in particolare, ciò che è legato alla responsabilità di lasciare un impegno (mi riferisco soprattutto alle parrocchie) una volta che questo abbia raggiunto un certo grado di autosufficienza economica, ministeriale e missionaria (RV n.70). Aggiungo, come digressione ma senza vena polemica, che anche impegni non autosufficienti e che ancora necessitavano della nostra presenza sono stati consegnati al Vescovo in ragione dell’impossibilità di portarli avanti, data la scarsità di personale. Gli ideali della Regola di Vita si scontrano molte volte con i limiti della storia. Il problema di consegnare parrocchie autosufficienti, soprattutto fiorenti dal punto di vista economico, si pone ora che confratelli di appartenenza radicale di una Circoscrizione ritenuta ‘di missione’ stanno aumentando e, giustamente, ne stanno occupando la gestione. L’autonomia delle Circoscrizioni, quanto il sostentamento economico dei confratelli di appartenenza radicale, è un problema serio cui molte Circoscrizioni stanno cercando faticosamente di dare delle risposte. In questa prospettiva e alla luce delle nuove circostanze storiche, asserzioni e dottrine che ritenevamo ormai accettate dovrebbero essere rivisitate. Nella mia passata esperienza di provinciale, ricordo i dubbi e le perplessità dei confratelli di appartenenza radicale alla decisione di consegnare al Vescovo una parrocchia economicamente florida.

Un terzo nodo problematico: la missione che si contestualizza e l’impianto giuridico dell’Istituto diviso in Province e Delegazioni le quali, generalmente, seguono i confini nazionali. Molte ‘situazioni missionarie’ come i popoli pastori dell’Africa dell’Ovest, gli afro-discendenti, le popolazioni indigene dell’America Latina ma anche le problematiche associate alle periferie delle grandi città, travalicano i confini nazionali e circoscrizionali. Infatti, nell’Istituto si parla di ‘impegni continentali’ in riferimento a tali contesti. Mi domando se l’organizzazione giuridica dell’Istituto, in linea con il criterio dell’impegno missionario, non debba essere ripensata e adattata alla nuova realtà. Cioè se una divisione giuridica non debba seguire un’organizzazione basata sulle ‘situazioni missionarie’ più che sui confini amministrativi di una nazione. Questo non è un problema nuovo: infatti, fu una questione che emerse al Capitolo Generale del 2009, ma senza una vera soluzione di continuità. È anche vero che, per ciò che riguarda lo scambio di personale tra Circoscrizioni, la Regola di Vita prevede una certa flessibilità (116 e 125), ma è anche vero che rimodellare una Circoscrizione (o come la si voglia qualificare) secondo una ‘situazione missionaria’ aiuta a creare omogeneità e identità nella Circoscrizione stessa, a discernere le linee comuni di pastorale e a facilitare, da parte del superiore, il processo di approfondimento degli impegni presi.

A me sembra che questi tre nodi problematici (e altri ancora che potrebbero sorgere) necessitino di riflessione approfondita, dialogo costante e discernimento sincero. “Continuare nell’ascolto di Dio, di Comboni e dell’umanità, per cogliere e indicare nella missione di oggi i segni dei tempi e dei luoghi” (AC ’15 n. 22) è un compito al quale non possiamo sottrarci.
P. Mariano Tibaldo mccj

Domande per una riflessione

  1. Ricordando la mia storia personale e/o quella della Circoscrizione, quali sono le esperienze fondanti che ne hanno segnato la vita e in cui intravedo la presenza di Dio? In che modo questi eventi mi hanno cambiato e/o hanno cambiato la vita della Circoscrizione?
  2. Vi sono azioni generative che hanno messo in moto una trasformazione della Circoscrizione e/o di una situazione sociale? Quali cambiamenti hanno apportato? Quali sono le persone che le hanno iniziate? Quanto, della nostra azione missionaria, è dovuto alla ‘vanagloria’ di piani personali più che alla preoccupazione di iniziare processi di cambiamento?
  3. Quali situazioni difficili a livello personale e/o della Circoscrizione hanno purificato e reso più credibile il mio essere missionario e aiutato la Circoscrizione a ritrovare l’essenzialità della missione?
  4. Quali sono i conflitti e come li gestisco a livello comunitario e circoscrizionale?

[1] Domenico Agasso sr – Domenico Agasso jr, Un profeta per l’Africa. Daniele Comboni, Cinisello Balsamo (Milano), San Paolo, 2011, pp. 279-280.

[2] Antonio Vignato, Una pagina di storia catechetica africana, in «Combonianum», 8 (1944)2, p. 11-12. Roma, Archivio Centrale, l/A/l.

[3] Breve cronologia dei contatti tra Comboniani Italiani (FSCJ) e Tedeschi (MFSC), in «Bollettino» (1972)97, p. 58.

[4] Ibid. p. 58.

[5] Ibid. p. 58.

[6] Ibid. p. 59.