Laici Missionari Comboniani

L’accoglienza dei nuovi paradigmi e sfide della missione

Paradigma-missione

Riprendendo la visione del Concilio Vaticano II, papa Francesco ha eletto il paradigma della “Chiesa in uscita” a programma missionario del nostro tempo. Questa ripresa è significativa in quanto contestualizzata in un mondo, quello odierno, che è in forte discontinuità con il passato. “Non viviamo in un’epoca di cambiamenti, ma in un cambiamento d’epoca”: con queste parole papa Francesco ci ha ricordato che i vecchi schemi con i quali interpretavamo il mondo e la missione non sono più efficaci per rispondere alle sfide di oggi. La nuova realtà globale richiede una “missione globale”, considerata in tutta la sua complessità e con presupposti, stile e strumenti rinnovati rispetto alla tradizione del passato (EG 33).

Lo schema classico che vedeva le Chiese del nord mandare missionari nel sud del mondo è superato dalle trasformazioni degli ultimi decenni, con la globalizzazione e una mobilità umana che hanno raggiunto livelli mai visti prima. Anche le circoscrizioni comboniane riflettono questo cambiamento: nella composizione del personale, nell’inviare missionari ad altre province, nel fatto che l’animazione missionaria è un impegno presente ovunque e non più un campo di servizio esclusivo delle province del nord del mondo.

Il criterio geografico della missione non costituisce più il punto di riferimento principale. Rimane l’idea di frontiera ma questa, ora, si qualifica nelle periferie umane ed esistenziali. È una grande sfida per gli Istituti missionari, la cui maggioranza dei membri di oggi ha probabilmente aderito al proprio istituto identificando la missione con una particolare area geografica. C’è un legame affettivo con la geografia e la storia; la nozione di “missione globale” desta un certo disagio, il timore di vedersi “bloccati” nel nord del mondo o nella propria provincia d’origine per l’idea che “la missione è ovunque”, o “anche in Europa”. In realtà, questa preoccupazione – comprensibile e giustificata – riflette ancora lo schema geografico, che è quello che dicevamo superato. Come pensare, allora, in modo alternativo, più rispondente alla realtà di oggi?

Papa Francesco ci invita a partire dalle frontiere, le “periferie che hanno bisogno della luce del vangelo” (EG 20). Queste non sono semplicemente un dato geografico, ma il risultato di un sistema economico-finanziario che genera esclusione, della cultura dello scarto che produce impoverimento e violenza. Portare la luce del vangelo in queste periferie richiede anzitutto inserzione, cioè:

  • una presenza radicata sul territorio;
  • un coinvolgimento nella vita quotidiana della gente;
  • una solidarietà nella loro sofferenza e istanze;
  • un accompagnare questa umanità lungo tutti i suoi processi, per quanto duri e prolungati possano essere.

Qui sta la chiave dell’approccio ministeriale: questo accompagnamento non è generico, non è una pastorale ordinaria portata nelle periferie. Al Capitolo Generale del 2015 è emerso che siamo presenti, inseriti in alcune periferie molto significative per il nostro carisma, come ad esempio tra gli afro-discendenti e i popoli indigeni in America Latina, o tra i popoli pastoralisti e i residenti delle baraccopoli in Africa. Però spesso non c’è una pastorale specifica che tenga conto della particolarità del contesto, delle situazioni, della cultura locale, dell’unicità di quel popolo. Una pastorale che, nella complessità del mondo d’oggi, richiede l’articolazione di diversi ministeri e un evangelizzare come comunità. Comunità apostoliche che non solo collaborano identificando e condividendo i propri doni, ma anche che testimoniano il Regno vivendo la fraternità e la comunione nella diversità.

Tutti questi elementi non sono “nuovi”; presi in se stessi possono essere già presenti in varie esperienze dell’Istituto e se ne è già parlato in diversi Capitoli. Ma siamo chiamati ad assumerli in una nuova prospettiva, o paradigma, cioè un punto di vista sulla missione che ne riorganizzi tutti gli aspetti fondamentali. L’immagine della “Chiesa in uscita” è un’icona che suggerisce un’idea di missione e una metodologia pastorale (prendere l’iniziativa, coinvolgersi, accompagnare, fruttificare, festeggiare, EG 24). È paradigmatica, perché richiede anche che altre dimensioni fondamentali, come la formazione e l’organizzazione dell’Istituto a vari livelli, divengano coerenti e finalizzate a questa missione.

A questo punto, come possiamo accogliere in pratica questo paradigma e quali sfide dobbiamo affrontare? Il Capitolo ci suggerisce di cominciare dalla missione, partendo dall’identificazione delle priorità continentali, condivise da più circoscrizioni e vissute in una più ampia collaborazione, a livello interprovinciale o continentale. Nel contesto di tali priorità, siamo chiamati a sviluppare delle pastorali specifiche come riqualificazione della nostra presenza e servizio missionario. Tenendo fermo questo punto centrale, avremo un punto di riferimento per ripensare anche la formazione e la riorganizzazione dell’Istituto.

  1. Sviluppare delle pastorali specifiche

Sviluppare una pastorale specifica è un compito ecclesiale, non si può fare da soli. Richiede dialogo, partecipazione, collaborazione, molteplicità di competenze ed esperienze. Soprattutto, ci vuole un metodo che permetta di valorizzare tutti i contributi, accogliere esperienze e prospettive diverse, e creare comunione nella diversità. Una pastorale specifica viene assunta quando, nonostante le varietà di vedute, prospettive teologiche, sensibilità e ministeri, tutti possono riconoscervisi senza dover annullare il proprio senso di identità. È un punto di fondamentale importanza, specialmente in un Istituto che sta crescendo in internazionalità e che comincia a vivere la sfida dell’interculturalità.

Tutto questo è possibile partendo dalla condivisione dalla base delle esperienze più trasformative in relazione alla pastorale specifica presa in considerazione, con un approccio di “indagine elogiativa” (Appreciative Inquiry). La riflessione comune su tali esperienze rigeneranti fa sorgere delle nuove intuizioni e comprensioni di ciò che rende un ministero fruttuoso in quel contesto.

Per meglio comprenderne il perché dell’efficacia e per approfondirne le dinamiche, queste esperienze vanno poi confrontate con un’analisi socio-culturale dei contesti della pastorale specifica, per coglierne il quadro d’insieme, le dinamiche e le tendenze.

Analogamente, una riflessione teologica e ministeriale specifica su quella realtà ci aiuta a mettere meglio a fuoco i nostri ministeri e ad identificare gli strumenti operativi più adatti.

Il passaggio successivo è quello del discernimento partecipato di alcuni principi che possano guidarci in quel contesto pastorale specifico. Proprio in quanto linee guida, questi non danno delle soluzioni prefabbricate, ma lasciano spazio per adattarsi alle situazioni particolari e per la creatività. Su questa base sarà possibile costruire un cammino di comunione in cui sperimentare, ricercare, imparare, condividere, scambiare esperienze e personale, documentare scoperte e risultati, e così via in cicli successivi di azione-riflessione (Action Learning).

  1. La riorganizzazione

Per riuscire sviluppare e sostenere delle pastorali specifiche è necessario arrivare gradualmente ad una riorganizzazione delle nostre presenze e modo di operare. Fino ad ora la nostra presenza missionaria è stata principalmente basata sul criterio geografico: i confratelli vengono destinati ad una provincia e poi, a seconda dei bisogni, vengono assegnati ad una comunità. Questa struttura riflette il presupposto che – al di là di alcuni servizi particolari – generalmente il lavoro missionario consista nel fondare o portare a maturazione delle comunità cristiane o parrocchie. Ma questo non è l’unico modo possibile di pensare l’organizzazione del lavoro missionario.

Per esempio, i gesuiti da alcuni decenni hanno cominciato a pensare il loro servizio missionario anche come risposta ai bisogni umani dei rifugiati (JRS), di persone colpite dall’AIDS (AJAN), e alle situazioni di ingiustizia (centri di fede-giustizia – faith-justice). Il personale viene adeguatamente preparato ed assegnato per questi servizi.

In anni recenti, anche l’Istituto comboniano ha intrapreso una riflessione sull’approccio ministeriale, guardando in particolare ad alcuni gruppi umani che subiscono esclusione e a ministeri in ambiti prioritari (AC ’03 n. 43 e 50; AC ’09 n. 62-63; AC ’15 n. 45). Ovviamente l’elemento geografico è ineludibile, in quanto anche questi gruppi umani sono spazialmente collocati, l’inserzione nella Chiesa locale esige anche una presenza parrocchiale, ma il criterio guida è il ministero specifico verso questi popoli che richiede:

  1. Equipe pastorali. Sono composte di diversi ministri, con specifiche competenze e una varietà di doni personali, che collaborano come squadra. Vista la complessità del mondo d’oggi, è opportuno mettere assieme competenze di vario genere, includendo per esempio quelle nelle scienze umane e sociali. La diversità di competenze è di aiuto nella collaborazione; la diversità di nazionalità e culture all’interno dell’equipe, vissute nella fraternità, sono un segno profetico in un mondo sempre più diviso ed in conflitto. Questa comunione/solidarietà è ciò che contraddistingue un’equipe pastorale, che non è solo una squadra di lavoro affiatata ed efficace, ma una fraternità di discepoli-missionari. Evidentemente, comunità di grandezza media avranno maggiori possibilità di essere significative, potendo mettere assieme competenze e ministeri complementari e trasversali (come ad esempio GPIC), assorbire meglio le assenze per vacanze o motivi di salute, sviluppare una riflessione più ricca e condividere competenze e risorse con altre comunità impegnate nella stessa pastorale specifica. Ciò richiede una riduzione del numero di comunità, ma facilita il lavoro in rete, dal livello locale a quello inter-provinciale.
  2. Lavoro in rete. L’equipe pastorale non lavora in isolamento, ma è anzitutto inserita e collabora con la Chiesa locale. Va anche oltre, cooperando con varie componenti della società civile per una trasformazione sociale ispirata ai valori del Regno. Ci sono anche altri livelli di collaborazione che l’esperienza ci segnala come critici: ad esempio il fare rete con altre comunità ed equipe ministeriali, sia a livello regionale che su scala internazionale. Senza questo supporto e continuo stimolo all’apertura e alla crescita, allo scambio e alla condivisione di risorse, un’equipe locale ben presto si troverà a corto di ossigeno. Soprattutto per quanto riguarda la ricerca, la sperimentazione, l’apprendimento continuo e la riflessione sulle buone pratiche e l’innovazione. Il mondo continua a spostarsi, mentre l’equipe rischia di fermarsi e fossilizzarsi, o di reagire alle situazioni anziché rispondervi creativamente.
  3. Strutture di sostegno. Le varie equipe impegnate in una stessa pastorale specifica a livello locale hanno bisogno di strutture di collegamento e di sostegno. Questo sarebbe anche il miglior contesto per proporre dei percorsi di formazione permanente, ricerca e sperimentazione per meglio accompagnare la gente nel suo cammino di inclusione e trasformazione. La collaborazione con istituzioni accademiche e di ricerca, per esempio, può essere una risorsa utile, come anche dei segretariati specifici e dei processi di ricerca e azione partecipata. Bisogna anche ripensare le strutture in cui viviamo o che amministriamo nel nostro ministero. Queste infatti possono porre una certa distanza tra la gente e i missionari, o anche semplicemente assorbirli così tanto nell’amministrazione da far perdere il contatto diretto con le persone o la disponibilità a camminare accanto ad esse. Va poi notato come anche il Fondo Comune Totale sia un’opportunità che può aiutarci a fare una programmazione partecipata e responsabilizzante nel contesto di una pastorale specifica a livello provinciale. La dimensione economica, infatti, attiene alle scelte di stile, mezzi, cooperazione e programmazione di un settore pastorale, con il quale interagiscono i progetti comunitari. Infine, la riduzione degli impegni e la riqualificazione delle presenze e servizi missionari richiesti dall’ultimo Capitolo Generale diventeranno una realtà se avremo gli strumenti e il metodo per realizzarli attraverso cammini di comunione, inclusivi e partecipati. È su questo versante che si gioca l’efficacia di una leadership che non sia soltanto amministrativa, ma che ci porti verso una nuova primavera.
  1. Una formazione mirata

Anche la formazione di base va rivista per sviluppare competenze ministeriali, soprattutto per quanto riguarda il curriculum degli scolastici. I programmi di teologia, che generalmente offrono una preparazione teologica accademica, non necessariamente formano agli atteggiamenti e alle competenze utili all’approccio ministeriale, né forniscono sostegno, metodologie e strumenti pratici che tanto gioverebbero ad una pastorale specifica. Va da sé che un curriculum di studi sarà tanto più utile quanto più verrà incontro alle scelte di ministeri specifici dell’Istituto. Si potrebbe pertanto pensare alla possibilità di caratterizzare la formazione negli scolasticati con degli orientamenti coerenti con le priorità ministeriali del continente in cui si trovano. Anche se poi un confratello si troverà a lavorare in altri contesti, le competenze ministeriali acquisite saranno in parte trasferibili e comunque una base migliore per impararne di nuove.

In conclusione, l’accoglienza del nuovo paradigma di missione non significa rottamare il passato per introdurre solo cose completamente nuove. Piuttosto, si tratta di riorientare e integrare i diversi aspetti della vita e del servizio missionario (pastorali specifiche, persone, riorganizzazione, economia) attorno alla visione di missione indicata dal Capitolo e ai processi partecipativi di riqualificazione delle nostre presenze e servizio missionario.
Fr. Alberto Parise mccj

Domande

  1. Per sviluppare pastorali specifiche è richiesta una lettura approfondita della realtà. È pratica comune (nelle comunità, zone, circoscrizioni e continenti) una lettura della realtà (attraverso l’adozione, ad esempio, del circolo ermeneutico) per identificare necessità pastorali e adottare modalità di presenza e di intervento che incontrino tali necessità?
  2. Quali passi sono stati fatti nella circoscrizione per ripensare gli obiettivi, la struttura, lo stile e i metodi di evangelizzazione secondo un’ottica ministeriale?
  3. Ministeri specifici (che riguardano, per esempio, gli afro-discendenti e i popoli indigeni in America Latina, i popoli pastoralisti in Africa e i residenti delle baraccopoli, i rifugiati ecc.) richiedono, oltre ad equipe pastorali, un lavoro in rete e strutture di sostegno che abbiano delle prospettive pastorali continentali. Quanto la nostra programmazione pastorale riesce a superare i limiti geografici della circoscrizione e adottare un approccio continentale? Quali strutture continentali dovrebbero essere rafforzate per favorire un criterio continentale alle necessità pastorali comuni?

 

“Laicato e Missione”: una riflessione teologica su un fenomeno in crescita

Laicado y mision

Presso il Centro Internazionale di Animazione Missionaria (CIAM) a Roma si è tenuto dal 13 al 18 febbraio 2017 un seminario di studi sul rapporto tra Laici e Missione. L’iniziativa è nata in risposta alla crescente preoccupazione dei responsabili dell’animazione missionaria nelle comunità cristiane e alla positiva integrazione dei laici nella cooperazione missionaria tra le Chiese. La questione è oggetto di frequenti dibattiti e approfondimenti tra i Direttori nazionali delle Pontificie Opere Missionarie, che cercano risposte a questo arricchente fenomeno ecclesiale.

La presenza dei laici battezzati nell’attività missionaria della Chiesa è sempre più rilevante, a prescindere dal contesto sociale, ecclesiale o culturale in cui viene promossa. Negli ultimi decenni Dio sta suscitando vocazioni laicali per la missione, inviate da Chiese locali e accolte da altre Chiese locali nel loro impegno missionario. E’ una bella realtà, una nuova Pentecoste! Il suo fascino, tuttavia, non nasconde problematiche che pongono serie sfide alla vocazione missionaria laicale. La testimonianza della vita, la riflessione teologica e lo scambio di esperienze nella fede danno a questa nuova pubblicazione sul laicato un’originale apertura sull’orizzonte della missione della Chiesa. Il volume “Laicado y Misiόn” è stato pubblicato in lingua spagnola dalla casa editrice PPC (Madrid, Spagna) come seconda opera di riflessione teologica sulla missione della Collana OMNIS TERRA del Segretariato Internazionale della Pontificia Unione Missionaria (PUM) e del CIAM in collaborazione con la direzione nazionale delle Obras Missionales Pontificias di Spagna (OMP). Per ulteriori informazioni sul testo, in spagnolo, cliccare qui.
(Agenzia Fides)

Ricordare e raccontare la missione

P.-Mariano-TibaldoMolte volte mi sono domandato – scrive P. Mariano Tibaldo (nella foto) – come la mia esperienza missionaria abbia influito sul mio modo di percepire gli altri, sul mio rapporto con il mondo delle cose, sulla mia relazione con Dio e con il mio essere missionario. In altre parole, quali percorsi mi abbiano condotto a essere quello che sono, in quale modo i contatti con gente di diversa cultura e sensibilità mi abbiano cambiato, come la vita in comune con confratelli segnati da esperienze positive ma anche tragiche mi abbiano trasformato, e come situazioni dense di significati e, a volte, drammatiche, abbiano affinato la mia sensibilità missionaria.

‘Raccontare’ la missione, allora, non è semplicemente riportare fatti e problematiche missionarie (tanto meno esporre ‘paradigmi missionari’ che titillano la mente, forse, ma non il cuore). Raccontare la missione è ‘ricordare’ gli eventi fondanti che hanno segnato la vita (nel senso più ampio del termine, come eventi-segni di realtà-altre, dove si è accarezzati dalla mano invisibile di Dio), e fanno parte della propria storia e identità; il racconto, allora, assume una dimensione performativa perché, testimoniando un cambiamento che interessa la mente, il cuore, la volontà, coinvolge altri nel proprio percorso missionario. Raccontare la missione è, in sintesi, testimoniare un incontro che misteriosamente affiora nella storia e che dà la direzione di marcia. La missione nasce dall’incontro con l’amore di Dio. Lo dice Papa Francesco nell’enciclica Evangelii Gaudium (EG): “Solo grazie a quest’incontro – o re-incontro – con l’amore di Dio, che si tramuta in felice amicizia, siamo riscattati dalla nostra coscienza isolata e dall’autoreferenzialità. Giungiamo ad essere pienamente umani quando siamo più che umani, quando permettiamo a Dio di condurci al di là di noi stessi perché raggiungiamo il nostro essere più vero. Lì sta la sorgente dell’azione evangelizzatrice. Perché, se qualcuno ha accolto questo amore che gli ridona il senso della vita, come può contenere il desiderio di comunicarlo agli altri?” (n. 8).

Ricordare i 150 anni dell’Istituto è, pertanto, celebrare eventi costitutivi e fondanti, quella “roccia da cui siamo stati scavati”, che ci hanno resi ciò che siamo e in cui discerniamo l’amorevole mano di Dio, ma anche fare memoria delle persone che ne hanno incarnato i valori con passione e nell’estrema donazione di sé. Di questi eventi ne scelgo tre che, mi sembra, abbiano un significato particolare nella nostra vita e, in particolare, nel nostro modo di vivere la missione perché ne esprimono le costanti, gli atteggiamenti e le dimensioni fondamentali.

  1. La morte di Comboni quale evento paradigmatico della sua vita

Confesso di essere sempre stato affascinato dalla passione viscerale di Comboni per l’Africa, da quel suo consumarsi per l’Africa, come la fiamma che lentamente consuma la cera: come non ricordare una delle ultime foto di Comboni, ormai alla fine della sua vita, con la barba striata di bianco e il volto segnato dai patimenti? Ma sono sempre stato affascinato anche dalla morte e dal dopo-morte di Comboni, quali eventi emblematici della sua vita. Comboni moriva quando all’orizzonte si stavano addensando le nuvole minacciose della rivoluzione del Mahdi che avrebbe spazzato via le missioni del Sudan. Qualche giorno prima della sua morte, aveva scritto a p. Sembianti una lettera che terminava con queste parole: “Io sono felice della croce, che portata volentieri per amore di Dio genera il trionfo e la vita eterna”. Parole che, dal punto di vista puramente umano, sembravano contraddire l’evidenza, almeno per quanto riguardava il ‘trionfo’ della sua missione. Chi, come lui, poteva capire l’enormità della missione ma anche l’esiguità delle forze? Un’eredità raccolta da Johan Dichtl, che assistette Comboni nelle ultime ore della sua vita, ma che era ancora troppo giovane, così pareva, per proseguire quella missione sovrumana. Un’eredità che sembrava chiudersi tragicamente poco tempo dopo con l’avvento della Mahdia.

Comboni veniva sepolto nel giardino della missione, accanto alla tomba del primo provicario apostolico, il gesuita Massimiliano Ryllo. Dopo la rivoluzione, nel 1901, l’allora vicario apostolico, Mons. Roveggio, torna nel cimitero della missione di Khartoum per riesumare le salme. “[…] si è tornati nel giardino della missione di Khartum, – scrive Domenico Agasso nella biografia sul Comboni – presso le tombe di padre Ryllo e monsignor Comboni. La prima è stata trovata intatta. […]. Di Daniele Comboni, invece, in quella distruzione, solo poche ossa mescolate alla terra. […]. Pochi resti […]: il corpo del vicario apostolico è rimasto in gran parte là, mescolato a quella terra. La donazione totale […] Comboni e l’Africa, una cosa sola[1]. Una scena commovente, parole che ancor di più esprimono la passione viscerale di Comboni, di cui non solo la vita ma anche la morte sembra appartenere all’Africa. Un evento, mi pare, altamente simbolico: il corpo di Comboni, “mescolato a quella terra” sembra quasi fecondarla. Un’appartenenza, la sua, oltre la morte. Ma, al di là del turbamento emotivo, il punto di vista umano ci indurrebbe a pensare che il grande sogno di Comboni si fosse risolto in un insuccesso – come altre esperienze prima di lui.

Mi sembrano, allora, illuminanti le parole di Papa Francesco che, nell’Evangelii Gaudium, formula un principio fondamentale nella costruzione di una nuova società: il tempo è superiore allo spazio. “Dare priorità al tempo, afferma il Papa, significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci”. E ancora: Questo criterio è molto appropriato anche per l’evangelizzazione, che richiede di tener presente l’orizzonte, di adottare i processi possibili e la strada lunga” (n. 223 e n. 225).

La vita e la morte di Comboni come un’azione generativa di un processo di cambiamento attraverso persone che, per quanto numericamente poche, ne continuino il sogno. Pertanto, un criterio di metodo missionario e di animazione missionaria è quello di mettere in atto azioni generative che, per quanto apparentemente insignificanti, innescano un movimento di trasformazione, associandovi persone che diventino, esse stesse, strumenti di cambiamento. Gli esempi, nella nostra storia, non mancano. Accenno brevemente a Fr. Michele Sergi e al suo ‘club’ a Khartoum, un punto d’incontro e di formazione per i giovani, una realizzazione senza grandi pretese, ma molti di coloro che vi furono formati diventarono pionieri dell’evangelizzazione nelle zone del Sudan del Sud dove i missionari non erano ancora arrivati.

  1. Dopo la rivoluzione del MahdiP.-Mariano-Tibaldo

L’uragano della rivoluzione del Mahdi, subito dopo la morte prematura di Comboni, si abbatte sulle nostre missioni. La missione dell’Africa Centrale viene spazzata via, i missionari e le missionarie fuggono in Egitto o vengono fatti prigionieri. Per questi ultimi inizierà il calvario della prigionia e delle umiliazioni.

Dopo vent’anni circa, i missionari ritornano a Khartoum e iniziano la marcia verso sud per fondare nuove missioni; senza punti di riferimento, senza esperienza, senza, addirittura, un manuale missionario. P. Antonio Vignato, ripensando alle sue prime esperienze in Sudan, inquadra la situazione: “Un terribile ritardo della nostra organizzazione catechistica si deve attribuire anche all’inesperienza di come organizzare la missione; nessuno di noi aveva osservato sul posto il lavoro degli altri missionari e pochissimo si aveva letto dell’esperienza altrui. L’unica nostra esperienza ci era data dalla colonia antischiavista di Gesirah […] e dalle scuole di Helouan, Suakim e simili[2]. Bisogna ricominciare da capo e rifondare il sogno di Comboni, nonostante le difficoltà immani e gli impedimenti posti sul cammino.

Perdere tutto e ricominciare da capo, rifondare il sogno di Comboni – o tenerlo vivo nelle tragedie in cui molti di noi si sono trovati – è una costante che ci ha accompagnati dall’inizio. È come se il Signore ci avesse condotto, attraverso queste e altre esperienze dolorose, all’essenzialità della missione. Ricordo le distruzioni della guerra in Uganda, quando ancora ero scolastico; delle missioni distrutte: Maracha, Koboko e altre; ricordo la missione di Otumbari, lasciata dai missionari su ordine del vescovo perché in zona di guerriglia, il dolore di p. Bernardo Sartori all’ordine di evacuare la missione, nonostante non ne fosse convinto, e il suo piegare il capo in obbedienza. Ho presente anche quei tanti confratelli che rimangono con la gente nonostante le guerre e le violenze, a volte seguendola come rifugiati. Ricominciare da capo, caparbiamente, tenere vivo il sogno di Comboni, che è poi quello di Gesù, o rifondarlo quando tutto sembra perduto, passando attraverso un doloroso processo di kenosi, che è partecipazione alla kenosi di Gesù, dove tutto un lavoro di anni è distrutto e annullato; è però un’esperienza che può diventare, attraverso un processo di discernimento guidato dallo Spirito, kairòs, momento opportuno di crescita e di cambiamento.

Ecco allora un richiamo a ritornare all’essenziale attraverso l’annullamento di certezze effimere e di piani e metodi ben congegnati, se frutto solo di “vanagloria”. “Quante volte sogniamo piani apostolici espansionisti, meticolosi e ben disegnati, tipici dei generali sconfitti! – ci ricorda il Papa – Così neghiamo la nostra storia di Chiesa, che è gloriosa in quanto storia di sacrifici, di speranza, di lotta quotidiana, di vita consumata nel servizio, di costanza nel lavoro faticoso, perché ogni lavoro è ‘sudore della nostra fronte’”, (EG n. 96). Allora anche la tragedia, le sconfitte, la perdita, l’annullamento delle nostre certezze mondane diventano appello alla conversione, si trasformano in eventi fondanti per ritornare alle radici della nostra identità e della missione.

In pochi tratti l’Evangelii Gaudium prospetta le dimensioni di una comunità ‘in uscita’ e in che cosa consista l’essenzialità della missione. Papa Francesco parla di prendere l’iniziativa, cercare i lontani, andare nei crocicchi delle strade e invitare gli esclusi: è andare verso i ‘più poveri e abbandonati’ della nostra tradizione; la formula ad gentes, in questa prospettiva, conserva ancora la sua validità. Ma Francesco parla anche di una comunità che si coinvolge e sa “assumere la vita umana toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo”, eco di quel ‘fare causa comune con la gente’ che è parte della metodologia comboniana di evangelizzazione; missione è toccare la carne sofferente del fratello – ‘carne’ intesa nelle sue varie dimensioni: umane, sociali e culturali – e invito a non “rimanere nella pura idea e degenerare in intimismi e gnosticismi che non danno frutto”, bensì a porre in essere “il criterio di realtà di una Parola già incarnata e che sempre cerca di incarnarsi” secondo il criterio per cui “la realtà è più importante dell’idea” (EG n. 233). Francesco aggiunge altre dimensioni missionarie: quella di accompagnarel’umanità in tutti i suoi processi, per quanto duri e prolungati possano essere”; accompagnare è un percorso che “conosce le lunghe attese e la sopportazione apostolica. L’evangelizzazione usa molta pazienza, ed evita di non tenere conto dei limiti”. Salvare l’Africa con l’Africa’ non sottolinea forse il processo di farsi compagni discreti perché la gente sia protagonista del proprio destino? E, infine, i criteri di fruttificare e festeggiare per “far sì che la Parola s’incarni in una situazione concreta e dia frutti di vita nuova” e “possa celebrare e festeggiare ogni piccola vittoria, ogni passo avanti nell’evangelizzazione” (EG n. 24).

Ritornare all’essenzialità della missione è riscoprire la comunità come soggetto che evangelizza, che prende l’iniziativa, si coinvolge, accompagna, fruttifica e festeggia perché, nelle parole dell’Enciclica, la comunità “è un’intimità itinerante, e la comunione «si configura essenzialmente come comunione missionaria»” animata dallo Spirito di Gesù (EG n. 23). La comunità, aggiungo, è quell’intimità itinerante che, mentre evangelizza, viene evangelizzata, mentre insegna, impara, mentre è soggetto di missione ne diviene l’oggetto, in un mutuo arricchimento di dare e ricevere (AC ’15 n. 3, 26).

  1. Divisione e riconciliazione

Ricordarci, anche per sommi capi, gli eventi che portarono alla divisione e, poi, alla riunione dell’Istituto mi sembra abbia una conseguenza non solo su come vediamo la nostra comune appartenenza ma anche sul modo in cui viviamo la missione.

La divisione dell’Istituto, sancita nel 1923, fu una “profonda ferita”, scrive p. Romeo Ballan sull’inserto di Familia Comboniana, aprile 2017, riportando i commenti dei pp. F. Pierli e T. Agostoni. Una divisione le cui ragioni sembravano avere più peso delle motivazioni per rimanere uniti: diversa formazione, diverso metodo missionario, accesi nazionalismi, il tutto condito da un’assoluta mancanza di dialogo al vertice cui si imputava, così si scriveva nel Bollettino del 1972, la separazione in due dell’unico corpo fondato dal Comboni[3]. Una divisione vissuta con sofferenza da molti comboniani, aperti di cuore e di mente: “La separazione non è mai stata senza rimpianti – insisteva lo stesso articolo – anzi, in taluni è stata un caso di coscienza [4].

Però, l’anelito verso la riunione non fu mai sopito perché “il corpo comboniano rimase fedele alla propria vocazione: per ciò l’inquietudine feconda seminatavi da Comboni[5]. Inquietudine che fa superare le reciproche cautele e i preconcetti quando la coscienza della comune appartenenza a Comboni come figura di fondazione e la consapevolezza della missione come ragione di essere dell’“unico Istituto Comboniano «nato in missione»[6] si rafforzano e diventano le ragioni generative di un nuovo movimento: allora le inquietudini diventano prassi, storia concreta fatta di dialoghi informali, ricerche di studio, collaborazione nelle missioni, concrete realizzazioni per una formazione comune in Spagna, lavoro di persone che hanno creduto nella riunione come i pp. Riedl e Farè, storia di deliberazioni dei Capitoli Generali dei due Istituti, di attività della Reunion Study Commission, fino al Capitolo del 1979 che ha formalmente sancito la riunione. Ma la riunione, che è semplicemente un fatto formale e giuridico, è stata preceduta da dialogo sincero, accettazione reciproca e, direi, onesto riconoscimento dei propri pregiudizi nella consapevolezza di radici identitarie comuni come punto fermo per ricostituire l’unità. Ritengo quest’anelito verso la riunione e il processo che lo ha messo in moto eventi fondanti della nostra identità, soprattutto oggi in cui l’Istituto sta assumendo una marcata dimensione multiculturale: siamo un Istituto fondato sulla riconciliazione e sull’accoglienza reciproche e la cui missione è creare comunità riconciliate: il perdono, il dialogo, la riconciliazione, l’accoglienza dell’altro fanno parte della nostra identità missionaria.

Trovo perciò pertinenti le parole dell’Evangelii Gaudium sulle modalità di porsi di fronte agli inevitabili conflitti che possono sorgere nella comunità. Il conflitto, afferma il Papa, non si dissimula, tanto meno vi si rimane prigionieri gettando sugli altri le proprie “confusioni e insoddisfazioni”, ma lo si accetta, lo si risolve, lo si trasformacome anello di collegamento di un nuovo processo” (EG n. 227). “In questo modo, prosegue il Papa, si rende possibile sviluppare una comunione nelle differenze, che può essere favorita solo da quelle nobili persone che hanno il coraggio di andare oltre la superficie conflittuale e considerano gli altri nella loro dignità più profonda. Per questo è necessario postulare un principio che è indispensabile per costruire l’amicizia sociale: l’unità è superiore al conflitto” (EG n. 228). In sintesi, il conflitto va affrontato nell’accettazione incondizionata dell’altro e nell’orizzonte della propria identità carismatica e missionaria; in questo modo le differenze, occasioni di conflitto, sono invece trasformate in potenzialità a vantaggio della missione. È da questi conflitti accettati, risolti, trasformati che si procede sulla via della costruzione di comunità interculturali e la comunità stessa diventa segno e strumento di riconciliazione e di dialogo.

P.-Mariano-Tibaldo

  1. Per concludere: alcuni nodi problematici

Vorrei accennare ad alcune questioni che mi sembrano importanti in questo primo quarto del XXI secolo e lo faccio senza avere la pretesa di soluzioni ma come proposte per una riflessione ulteriore.

Scrivevo più sopra di un Istituto, dove confratelli portatori di nuove culture provenienti dal Sud Globale (una qualifica che prendo a prestito da alcuni sociologi) stanno entrando nell’Istituto occupandone anche spazi di gestione. L’Istituto sta cambiando non solo numericamente, con l’avvento di questi confratelli, ma anche perché essi portano nuovi modi di pensare la vita religiosa, la comunità e la missione, retaggio di un diverso ambiente culturale. Il dialogo, che si alimenta dell’ascolto profondo delle ragioni dell’altro, è tanto più necessario ora, nel momento in cui si stanno palesando queste differenze culturali e alcune soluzioni a questioni che sembravano comunemente accettate sono rimesse in questione.

Mi riferisco in modo particolare alla problematica delle comunità d’inserzione radicale che, secondo un intendimento e una prassi comune, sottintendono il vivere poveramente, a livello dei poveri e in strutture povere. Mi chiedo se confratelli di altre culture, che non siano quelle del mondo occidentale, abbiano un altro modo di intendere la povertà, di vivere da poveri con i poveri e, in generale, una sensibilità diversa verso la povertà ‘radicale’. Non ho soluzioni a questo quesito, mi limito a porre la questione ritenendo, però, che il compito di ascoltarci, soprattutto di ascoltare tanto i messaggi verbali quanto quelli non verbali, ci aiuti nella costruzione di una comunione delle differenze, primo passo verso la realizzazione di comunità interculturali.

Un secondo problema riguarda la provvisorietà degli impegni e, in particolare, ciò che è legato alla responsabilità di lasciare un impegno (mi riferisco soprattutto alle parrocchie) una volta che questo abbia raggiunto un certo grado di autosufficienza economica, ministeriale e missionaria (RV n.70). Aggiungo, come digressione ma senza vena polemica, che anche impegni non autosufficienti e che ancora necessitavano della nostra presenza sono stati consegnati al Vescovo in ragione dell’impossibilità di portarli avanti, data la scarsità di personale. Gli ideali della Regola di Vita si scontrano molte volte con i limiti della storia. Il problema di consegnare parrocchie autosufficienti, soprattutto fiorenti dal punto di vista economico, si pone ora che confratelli di appartenenza radicale di una Circoscrizione ritenuta ‘di missione’ stanno aumentando e, giustamente, ne stanno occupando la gestione. L’autonomia delle Circoscrizioni, quanto il sostentamento economico dei confratelli di appartenenza radicale, è un problema serio cui molte Circoscrizioni stanno cercando faticosamente di dare delle risposte. In questa prospettiva e alla luce delle nuove circostanze storiche, asserzioni e dottrine che ritenevamo ormai accettate dovrebbero essere rivisitate. Nella mia passata esperienza di provinciale, ricordo i dubbi e le perplessità dei confratelli di appartenenza radicale alla decisione di consegnare al Vescovo una parrocchia economicamente florida.

Un terzo nodo problematico: la missione che si contestualizza e l’impianto giuridico dell’Istituto diviso in Province e Delegazioni le quali, generalmente, seguono i confini nazionali. Molte ‘situazioni missionarie’ come i popoli pastori dell’Africa dell’Ovest, gli afro-discendenti, le popolazioni indigene dell’America Latina ma anche le problematiche associate alle periferie delle grandi città, travalicano i confini nazionali e circoscrizionali. Infatti, nell’Istituto si parla di ‘impegni continentali’ in riferimento a tali contesti. Mi domando se l’organizzazione giuridica dell’Istituto, in linea con il criterio dell’impegno missionario, non debba essere ripensata e adattata alla nuova realtà. Cioè se una divisione giuridica non debba seguire un’organizzazione basata sulle ‘situazioni missionarie’ più che sui confini amministrativi di una nazione. Questo non è un problema nuovo: infatti, fu una questione che emerse al Capitolo Generale del 2009, ma senza una vera soluzione di continuità. È anche vero che, per ciò che riguarda lo scambio di personale tra Circoscrizioni, la Regola di Vita prevede una certa flessibilità (116 e 125), ma è anche vero che rimodellare una Circoscrizione (o come la si voglia qualificare) secondo una ‘situazione missionaria’ aiuta a creare omogeneità e identità nella Circoscrizione stessa, a discernere le linee comuni di pastorale e a facilitare, da parte del superiore, il processo di approfondimento degli impegni presi.

A me sembra che questi tre nodi problematici (e altri ancora che potrebbero sorgere) necessitino di riflessione approfondita, dialogo costante e discernimento sincero. “Continuare nell’ascolto di Dio, di Comboni e dell’umanità, per cogliere e indicare nella missione di oggi i segni dei tempi e dei luoghi” (AC ’15 n. 22) è un compito al quale non possiamo sottrarci.
P. Mariano Tibaldo mccj

Domande per una riflessione

  1. Ricordando la mia storia personale e/o quella della Circoscrizione, quali sono le esperienze fondanti che ne hanno segnato la vita e in cui intravedo la presenza di Dio? In che modo questi eventi mi hanno cambiato e/o hanno cambiato la vita della Circoscrizione?
  2. Vi sono azioni generative che hanno messo in moto una trasformazione della Circoscrizione e/o di una situazione sociale? Quali cambiamenti hanno apportato? Quali sono le persone che le hanno iniziate? Quanto, della nostra azione missionaria, è dovuto alla ‘vanagloria’ di piani personali più che alla preoccupazione di iniziare processi di cambiamento?
  3. Quali situazioni difficili a livello personale e/o della Circoscrizione hanno purificato e reso più credibile il mio essere missionario e aiutato la Circoscrizione a ritrovare l’essenzialità della missione?
  4. Quali sono i conflitti e come li gestisco a livello comunitario e circoscrizionale?

[1] Domenico Agasso sr – Domenico Agasso jr, Un profeta per l’Africa. Daniele Comboni, Cinisello Balsamo (Milano), San Paolo, 2011, pp. 279-280.

[2] Antonio Vignato, Una pagina di storia catechetica africana, in «Combonianum», 8 (1944)2, p. 11-12. Roma, Archivio Centrale, l/A/l.

[3] Breve cronologia dei contatti tra Comboniani Italiani (FSCJ) e Tedeschi (MFSC), in «Bollettino» (1972)97, p. 58.

[4] Ibid. p. 58.

[5] Ibid. p. 58.

[6] Ibid. p. 59.

DIARIO di BORDO di Simone Parimbelli, a LMC nella Repubblica Centrafricana

LMC CAR15 maggio 2017
giorno 88 rimanenti 1012
LE AFRICHE INTORNO AL TAVOLO: mi sono trasferito alla parrocchia comboniana di Nostra Signora di Fatima! Tutto nuovo…nuovi orari, nuovo cibo, nuova stanza, nuova COMUNITÁ! Ora vivo con 3 padri comboniani africani: p.Moises, p.Jean Michel e p.Romain! Tutti africani ma di diverse AFRICHE: p.Moises é ugandese, ha dovuto imparare il francese e il sango, é quello con piú esperienza ed é il responsabile della parrocchia. P.Jean Michel é togolese, é arrivato da poco tempo in Rep.Centrafricana sta imparando il sango e conoscendo la realtá, la vita e le abitudini centrafricane. P.Romain é centrafricano, é appena stato ordinato sacerdote, parla benissimo il sango e il francese, sta imparando a celebrare la messa e sará inviato in Guatemala come primo servizio missionario. Uganda-Togo-Rep. Centrafricana per le distanze delle AFRICHE é come vivere con un russo, un francese e un portoghese, dire che sono africani é generalizzare, ognuno ha le sue abitudini… non é facile essere COMUNITÁ ma a TAVOLA si scherza, si ride, si chiacchera, si parla dei problemi delle AFRICHE…c’é un’ottima sintonia e fraternitá in questo piccolo pezzo di AFRICHE!

LMC CAR22 maggio 2017
giorno 95 rimanenti 1005
MARTIAL IL BUON PASTORE: Martial é un giovane della parrocchia di 28 anni, catechista del gruppo della Cresima, animatore del gruppo AITA KWE, in questa settimana é stato anche il mio BUON PASTORE che mi ha accompagnato a scuola su “sentieri tranquilli e sicuri”. La parrocchia é vicina al quartiere mussulmano chiamato “Kilometro 5”, dove nel periodo di “turbolenza” si é verificato qualche “piccolo” problemino, ma abitando nel quartiere, Martial, come il BUON PASTORE, é garanzia di tranquillitá e sicurezza nel breve cammino fino a scuola. Al pomerggio la parrocchia si riempie di giovani che studiano, donne che pregano, bambini che giocano, persone che cercano i padri , ma spesso é una vita silenziosa o senza troppo rumore e ho avuto la sensazione, qualche volta, che tutti siano in attesa di qualcosa, speriamo sia un attesa di piena Speranza e di pace.

LMC CAR28 maggio 2017
giorno 101 rimanenti 999
AITA KWE: “Tutti fratelli e sorelle”, é un gruppo parrocchiale che raggruppa dai bambini-bambine fino ai giovani, hanno la divisa con la camicia gialla, pantaloni o gonna verde e un foulard verde bordato di giallo. Con p.Moises e Martial sono andato alla loro giornata di ritiro-formazione: quando siamo arrivati, stavano riflettendo su “il mio progetto di vita: le mia qualitá e le mie debolezze”, dopo la riflessione, un po di svago, messa celebrata da p.Moises e pranzo tutti assieme con pane, pesce, polenta di manioca. Tutti assieme come fratelli e sorelle!!! Al momento del ritorno abbiamo caricato il pick-up di p. Moises con tutti gli zaini, le pentole, le taniche di acqua vuote, qualche bambina stanca che non riusciva piú a stare in piedi, mentre il gruppone in fila x 2 a ritmo di tamburi ha camminato fino alla parrocchia (2h di cammino!!!). É stato molto simile alle giornate trascorse in oratorio a Osio Sopra (o a Basiano) con i bambini e i ragazzi dei gruppi della catechesi…anche la vita pastorale della parrocchia di Nostra Signora di Fatima é attiva e fervente con tante persone impegnate a servizio della comunitá!!!

LMC CAR02 giugno 2017
giorno 106 rimanenti 994
IN UN BATTIBALENO: domani dalle 8.30 alle 10.30 ho la valutazione finale del secondo corso di francese…in un BATTIBALENO…Anna passerá a prendermi a scuola, andremo in parrocchia per caricare le mie valigie che ho giá preparato e partiremo…in un BATTIBALENO…per Mongoumba…ci aspetta un viaggio di 5/6 h. Dopo solo 20 giorni un altro trasferimento…fino ad ora ho rispettato la “rotta di navigazione”: arrivare tranquillamente in Rep. Centrafricana, prendere del tempo per ambientarmi, studiare il francese…ora comincia una nuova fase del viaggio: imparare il sango e ambientarmi a Mongoumba! É da un pó che non vi mando news, ma in parrocchia non c’é rete internet e a Mongoumba sará lo stesso, a volte neanche alla Maison Comboni posso entrare nella mail, diventa difficile comunicare con tutti voi, ma é uno degli obiettivi del viaggio! Non ho ancora avuto la prima malaria e non ci sono stati problemi insormontabili, forse sono un pó dimagrito, (p.Alex direbbe che ho perso i miei kg occidentali in piú) ma l’appetito non mi manca e i padri continuano a dirmi di mangiare, perché mangiare aiuta a non ammalarsi. Il tempo scorre velocemente…in un BATTIBALENO…sono giá trascorsi 106 giorni dal mio arrivo nella Repubblica Centrafricana!!!

Un saluto, un abbraccio, un bacio, una preghiera, un GRAZIE…
Simone LMC

 

L’evoluzione storica dell’Istituto dei Missionari Comboniani

LOGO 150 aniversario MCCJ“La vita di Daniele Comboni (1831-1881) – scrive P. Fidel González Fernández, missionario comboniano – ha una chiara unità di fondo in cui si intrecciano i diversi aspetti. Ma in questa nota storica vogliamo fermare la nostra attenzione su Comboni fondatore di “istituti missionari”, nel contesto degli Istituti missionari dipendenti da Propaganda Fide. Comboni fonda due “Istituti” missionari: un Seminario o Istituto missionario per le Missioni Africane (1867) e l’Istituto delle “Pie Madri della Nigrizia” (1872), che rientra nella storia dei “novelli istituti” di vita consacrata che nell’Ottocento hanno una speciale storia innovatrice. Nell’evoluzione storica dell’Istituto dei Missionari Comboniani si possono chiaramente individuare tre fasi”.

L’ISTITUTO COMBONIANO PER LE MISSIONI AFRICANE NELLA SUA PRIMA TAPPA “SECOLARE”

(Prima parte)

  1. La storia della missione e degli istituti missionari sotto Propaganda Fide

La storia dell’evangelizzazione inizia il giorno stesso della Pentecoste e va progressivamente sviluppando forme nuove nella storia della Chiesa[1]. Nei primi secoli il cristianesimo si diffuse “da esperienza a esperienza” (Ratzinger) e soltanto a partire del secolo IV prenderà forme missionarie progressivamente “organizzate”. Nell’età moderna l’evangelizzazione prende nuove forme, modalità ed estensione. Troviamo, infatti, consacrati all’opera di evangelizzazione fra i popoli non cristiani, ordini religiosi antichi e nuovi istituti che iniziano a essere chiamati “istituti missionari ad gentes”. Il nome e il concetto di “istituto missionario” sono relativamente moderni nella storia della Chiesa, come pure il termine “missione”. Sono stati introdotti dopo la fondazione di Propaganda Fide (1622), nel senso di mandati da parte del Papa in qualunque parte del mondo (i gesuiti e più tardi i lazzaristi, Congregatio Missionum, 1625) per opere apostoliche fra cattolici, a-cattolici e non cristiani (“levangelizzazione dei popoli o ad gentes”).

Joseph Ratzinger in una delle ultime pagine del libro Gesù di Nazaret, dove parla della “venuta intermedia del Signore” (fra Betlemme e la Gloria definitiva), scrive che tale “venuta” adotta molte modalità, ma ce ne sono alcune che “fanno epoca”. Si riferisce all’impatto di alcune figure attraverso le quali Cristo opera nella storia. Lo Spirito Santo, attraverso queste figure, suscita nella Chiesa dei movimenti che testimoniano la bellezza di essere cristiani in epoche in cui la stanchezza della fede diventa una specie di pandemia generalizzata. Così è accaduto nella storia missionaria moderna. Riflettendo sulla storia missionaria ad gentes della Chiesa nell’epoca missionaria inaugurata con la fondazione di Propaganda Fide, si possono segnalare numerose figure missionarie carismatiche che hanno svolto quest’opera missionaria ad gentes. Fondando la Congregazione di Propaganda Fide, il Papa aveva attribuito a questa la missione di costituire i ministri necessari “per insegnare il Vangelo e la Dottrina cattolica in tutte le missioni”. Nell’impossibilità di avere missionari propri, la Congregazione dovette ricorrere agli antichi Ordini religiosi. E solo dopo aver incontrato notevoli difficoltà in questo appello, Propaganda Fide appoggia la nascita di nuove istituzioni missionarie sotto la sua giurisdizione. Così inizia la storia degli Istituti missionari “ad gentes”.

Propaganda Fide, da una parte, vedeva i vantaggi che gli antichi Ordini religiosi offrivano alle missioni ma, dall’altra, ne riconosceva anche gli inconvenienti. Questi due aspetti sono sottolineati in una relazione del segretario di Propaganda, Alberizi, del 4 novembre 1657, dove si dice che una “perversione dei fini a volte fa sì che i religiosi cerchino prima la gloria del proprio istituto, persuasi che stanno lavorando per la gloria di Dio”. Altri inconvenienti segnalati erano le lotte tra i diversi Ordini religiosi, la poca importanza che davano alla creazione del clero indigeno o il fatto che non davano ad esso sufficiente fiducia, e la loro opposizione alla nomina di Vescovi nelle missioni. La tendenza era a “perpetuarsi” nei territori attraverso un monopolio missionario su questi. Alberizi accennava anche ai motivi della scarsità di risultati nell’evangelizzazione, come pure ai danni dovuti al monopolio di certi Ordini, e al controllo dell’attività missionaria da parte di enti politici ai quali si trovavano spesso legati gli stessi missionari. La relazione si concludeva con un’allusione diretta alla fondazione recente del Seminario delle Missioni Estere di Parigi (MEP) e al Collegio Urbano di Propaganda a Roma. Ci si trovava così davanti a una nuova realtà nella vita della Chiesa: quella degli Istituti missionari “secolari”[2]. È qui che, col tempo, si inserirà l’iniziativa di diversi missionari, fra i quali Daniele Comboni, di fondare Seminari Missionari o Istituti (la terminologia è ancora molto imprecisa e la figura giuridica di tali fondazioni raggiungerà soltanto verso la fine del sec. XIX una più chiara fisionomia). Nell’Ottocento non si potevano fondare altri Ordini religiosi secondo il modello di quelli antichi, perché non era permesso sia dal punto di vista canonico che dalle legislazioni civili liberali dell’epoca. Con la Rivoluzione francese siamo all’inizio di una nuova tappa epocale anche nella storia della Chiesa e della vita consacrata apostolica. La storia missionaria della Chiesa attraversava da tempo una crisi profonda e molte istituzioni ecclesiali erano in netta decadenza (alcune addirittura scompaiono), ma sorgeranno numerose fondazioni apostoliche nuove, ancora in cerca di una fisionomia giuridica propria.

Il crollo dell’Antico Regime e lo scardinamento dell’antica società degli “stati” sociali, seguiti dall’instaurazione della nuova società liberale delle “classi” sociali e delle unità politiche nazionali travolgono il vecchio ordine culturale, sociale e politico e, con esso, anche quello ecclesiastico. In questa società dominata dal liberalismo, nella Chiesa molte vecchie strutture ecclesiastiche deperiscono o addirittura sono travolte dall’ideologia dominante. La vita degli antichi Ordini si dibatte fra la possibilità dell’estinzione e, in alcuni casi, della restaurazione. Non bisogna però additare come unico responsabile di questo stato di cose lo Stato liberale. Molti Ordini versavano da tempo in una situazione di decadenza interna. La Santa Sede procedeva – spesso a fatica – a una loro restaurazione emanando leggi e norme inefficaci. Di quegli Ordini religiosi antichi, ne sopravvivono pochi: sono quelli che riscoprono di nuovo la forza del proprio carisma con un ritorno alla primitiva instituti inspiratio. Nascono comunque nuove realtà ecclesiali, che si manifestano anche nella storia missionaria.

  1. Contesto del nuovo movimento missionario

Nel campo dell’attività missionaria della Chiesa, bisogna rendersi conto dello stato disastroso dell’attività missionaria ad gentes ai tempi della Rivoluzione francese. Dopo la soppressione dei gesuiti (1773), l’abbandono obbligato delle loro missioni aveva costituito una vera catastrofe per l’attività missionaria. Lo storico delle missioni, Joseph Schmidlin, fa notare che all’inizio dell’800, i missionari presenti in tutto il mondo non cattolico non oltrepassavano i 300 (compresi quelli che lavoravano nei paesi protestanti). Simbolo di tale decadenza fu la soppressione del Dicastero di Propaganda Fide dal Direttorio francese (15 marzo 1798) che lo definisce come un “établissement fort inutile”. Napoleone ne permise di nuovo l’esistenza, ma per metterlo al servizio dei propri interessi. Questa mentalità sarà predominante in tutte le potenze coloniali dell’Ottocento e del Novecento. La vita del Dicastero, nonostante la sua riorganizzazione ad opera di Pio VII nel 1817, languisce fino ai tempi di Gregorio XVI. Sarà a partire da questi anni travagliati che si avrà un lento risveglio della dimensione missionaria ad gentes in alcuni circoli minoritari.

In questo risveglio missionario bisogna segnalare un movimento generalizzato di rinnovamento cristiano di fronte alla mentalità della cultura illuminista, prima, e di quella liberale-positivista, poi. Alcuni vedono l’urgenza dell’attività missionaria come imperativo della “Caritas Cordis Christi”. È in questa prospettiva che bisogna vedere la nascita delle opere a favore delle missioni. Fra i più noti protagonisti del movimento missionario possiamo ricordare l’Istituto delle Missioni Estere di Parigi e i fondatori di “istituti secolari” missionari.

  1. Le diverse fasi dell’evoluzione storica dell’Istituto comboniano

Nel movimento missionario dell’Ottocento, una parte specifica di esso rivolge la sua attenzione verso i popoli neri dell’Africa. In questo movimento missionario si collocano la travagliata storia della Missione dell’Africa Centrale e l’attività fondazionale di Comboni. In questa storia il giovane missionario Daniele Comboni è andato occupando un posto sempre più significativo. Il suo percorso formativo lo ha aiutato nella sua maturazione apostolica. La sua definitiva vocazione a favore dell’evangelizzazione di quei popoli di colore e la genesi della sua vocazione come fondatore di un Seminario missionario per le Missioni Africane, che raggiunse il momento carismatico più significativo con la proposta del “Piano per la rigenerazione dell’Africa” (1864), è stato già ampiamente studiato dalla storiografia comboniana recente[3]. La vita di Daniele Comboni (1831-1881) ha una chiara unità di fondo in cui si intrecciano i diversi aspetti. Ma in questa nota storica vogliamo fermare la nostra attenzione su Comboni fondatore di “istituti missionari”, nel contesto degli Istituti missionari dipendenti da Propaganda Fide. Comboni fonda due “Istituti” missionari: un Seminario o Istituto missionario per le Missioni Africane (1867) e l’Istituto delle “Pie Madri della Nigrizia” (1872), che rientra nella storia dei “novelli istituti” di vita consacrata che nell’Ottocento hanno una speciale storia innovatrice[4].

Nell’evoluzione storica dell’Istituto dei Missionari Comboniani si possono chiaramente individuare tre fasi.

La prima fase è quella in cui l’Istituto ha inizio come semplice Seminario di Missioni per l’Africa e quindi con una finalità molto concreta, l’evangelizzazione, in sintonia con esperienze similari già conosciute nella Chiesa a partire dal secolo XVII. I membri erano sacerdoti secolari o candidati al sacerdozio ai quali, fin dagli inizi, si aggiunsero alcuni membri laici. Dai documenti a nostra disposizione non risulta che inizialmente avessero alcun vincolo di voto. Troviamo solo un impegno con il quale il candidato alle missioni africane prometteva di vivere secondo la “finalità” del Seminario sotto i legittimi superiori e otteneva la “patente” di missionario apostolico, che Propaganda Fide dava ai missionari che lavoravano alle sue dipendenze. In questa fase viene sottolineato il carattere di sacerdoti secolari dei suoi membri. Questi restavano vincolati, in un modo o nell’altro, alla propria diocesi di origine, la quale di solito li presentava o almeno li consigliava per l’attività missionaria. L’autorità suprema dell’Istituto è “il Sommo Pontefice e la Congregazione di Propaganda Fide… Il Superiore immediato è il Vescovo di Verona il quale è rappresentato da un Rettore scelto ordinariamente tra i Missionari stessi, membri dell’Istituto Fondamentale, già provetti nell’esercizio dell’Apostolato Africano”. “Il Vescovo di Verona è coadiuvato nelle sue funzioni da un corpo da lui presieduto, composto dei più assennati e distinti Ecclesiastici e secolari della sua Diocesi, il quale porta il titolo di Consiglio Centrale dell’Opera per la Rigenerazione della Nigrizia[5]. In parte, queste Regole riflettono la dinamica giuridica di quelle del MEP, ma con importanti modifiche che riguardano l’autorità, di fatto fondamentale, del Vescovo di Verona e del Consiglio da lui scelto. Il “Vescovo di Verona ha eretto canonicamente detto seminario a richiesta del sacerdote, missionario apostolico, Daniele Comboni” nel 1867. Il Seminario delle Missioni Africane di Verona nasce così e tale resterà, con un’esistenza piuttosto precaria, fino alla fine del 1871[6].

A partire da quell’anno si delinea una fisionomia più precisa di questo Seminario missionario per le Missioni Africane e, più in concreto, per la Missione dell’Africa Centrale, un territorio molto vasto e dai limiti ancora incerti. Comboni aveva già fatto un’esperienza di responsabilità di un’opera missionaria al Cairo, da lui fondata nel 1868. Si rende conto che non è sufficiente un Seminario per le Missioni Africane dell’Africa Centrale, senza una struttura giuridica più specificamente determinata. Alcune dolorose esperienze di quegli anni glielo hanno insegnato. La vita comune e l’attività missionaria esigevano una maggiore coesione tra i suoi missionari e un impegno formale più deciso.

Entriamo così in una seconda fase di questa storia. Comboni comincia a scrivere le Regole del suo Istituto e ne cerca l’approvazione da parte di Propaganda. Occorre segnalare che con il termine Istituto non si indica quanto nel nostro linguaggio attuale esso viene a significare[7].

In questa seconda fase vediamo che dai membri del giovane Istituto si esige un vincolo canonico più specifico ma, sempre secondo le “Regole del 1871-1872”, mai approvate da Propaganda Fide, manca ancora quella precisione giuridica richiesta fin da allora alle istituzioni ecclesiastiche di diritto pubblico. Anche il linguaggio e le norme date, pur attingendo alla terminologia della vita religiosa classica, termini come “noviziato” e altri, rimangono ancora imprecisi. Si tratta di “Regole” esortative, giuridicamente generiche, e per questo non saranno mai approvate. Il periodo di preparazione alla missione africana doveva essere effettuato a Verona o al Cairo. Non si emettevano voti – a quanto pare, nemmeno privati – ma esisteva il vincolo di un giuramento di consacrazione “in perpetuo” alla missione africana, obbedienza ai legittimi superiori con un vincolo di dipendenza dal superiore ecclesiastico proprio. Si parla esplicitamente del Dicastero di Propaganda Fide e del Vescovo di Verona, ma manca una chiara e precisa fisionomia giuridica. Le Regole dell’Istituto presentano caratteri di radicalità (consacrano le loro opere e, se occorre, anche la vita…), ma anche qui non si precisa molto il loro contenuto. Nella prefazione Comboni scrive: “Le Regole di un Istituto che dee formare Apostoli per nazioni barbare ed infedeli, perché sieno durevoli, debbono basare sopra principi generali…” e subito dopo spiega il motivo: “Se fossero molto minute, ben presto, o la necessità, od una cotal vaghezza di mutazione minerebbe il fondamento del loro edificio, e potrebbero riuscire giogo aspro e peso grave per chi le deve osservare. Essendo oltremodo vario e smisurato il campo, sul quale il candidato deve spiegare la sua azione, non può essere limitato a certi determinati uffici come negli Ordini Religiosi; bensì quei principi generali debbono informare la sua mente e il suo cuore in guisa, da sapersi regolare da sé, applicandoli con accorgimento e giudizio nei tempi, luoghi e circostanze svariatissime, in cui lo pone la sua vocazione. Per conseguire pertanto il fine a cui mira il novello Istituto delle Missioni per la Nigrizia, si stabiliscono soltanto quei principi fondamentali, che ne costituiscono il vero carattere, e che servono agli alunni di norma per esaminare con piena uniformità e con quella eguaglianza di spirito e di condotta esteriore, che fa riconoscere i membri di una sola famiglia[8].

In questo periodo i membri dell’Istituto sono già definiti come “ecclesiastici e laici” consacrati alla Missione[9]. Nel testo delle Regole del 1871 si diceva che “L’Istituto, ossia Collegio delle Missioni per la Nigrizia, è una riunione di Ecclesiastici e di fratelli Coadjutori i quali senza vincolo di voti… si dedicano alla conversione dell’Africa[10]. Le “Regole ed organizzazione dell’Istituto delle Missioni per la Nigrizia in Verona” del 1872 sono un testo ridotto e riveduto, da Comboni stesso, delle sue “Regole” del 1871[11]. Il testo di questa nuova edizione delle “Regole” fa parte dei documenti inseriti nella Ponenza cardinalizia a Propaganda del 1872 che determinò la nomina di Comboni a Provicario e l’affidamento della Missione dell’Africa Centrale all’Istituto da lui fondato a Verona e al Cairo. Si dice che: “L’Istituto per le Missioni della Nigrizia è una libera associazione secolare di Ecclesiastici e Laici che consacrano le loro opere e, se occorre, anche la vita per la conversione dei poveri Neri pagani dell’Africa Centrale, sotto la dipendenza dei legittimi superiori, e le norme di queste Regole[12].

Dal 1872 alla morte di Comboni la fisionomia dell’Istituto andrà timidamente definendosi meglio, sia nella mente di Comboni sia negli altri membri. Comboni cercava un’approvazione canonica definitiva da parte di Propaganda: ma che tipo di associazione aveva in mente? Quale fisonomia giuridica voleva? Non si trattava di una congregazione religiosa di voti semplici nel senso moderno, ma neppure – ci sembra – nel senso delle congregazioni o compagnie già esistenti e giuridicamente approvate dalla Chiesa fin dal Cinquecento, come ad es. i Preti della Missione e, più tardi, congregazioni con vincoli di voti semplici come Redentoristi e Passionisti. Si trattava allora di una specie di “società apostolica” composta da sacerdoti e laici consacrati alla Missione come il MEP o altre fondazioni simili?[13] Dai documenti comboniani ci sembra che possa essere questa la tendenza di Comboni. Ma la sua morte prematura tronca le cose, senza chiarire giuridicamente il tema. Lo sviluppo della fase successiva non appartiene più all’operato di Comboni. Dobbiamo però dire che pur non essendo religiosi nella modalità giuridica classica, dai suoi missionari Comboni esigerà quella radicalità di vita evangelica che è caratteristica dei consacrati, aspetto, questo, che troviamo anche in altre società apostoliche simili del tempo. Pensò, forse, alla trasformazione del suo Istituto in congregazione religiosa formale nel senso che assumerà più tardi questa espressione? I documenti che abbiamo non aiutano molto a dare una risposta sicura, anche perché oggetto della storia sono i fatti accaduti e non le intenzioni. Quello che egli certamente voleva era mettere in moto una compagnia di missionari radicalmente consacrati a Cristo e alla sua Chiesa a favore della missione africana, con tutte le caratteristiche di una vita consacrata, seguendo le tracce di esperienze simili già riconosciute dalla Chiesa o in via di riconoscimento.

Forse si potrà dire che dal 1871 al 1881, anno della morte di Comboni, il Seminario o Istituto Missionario Africano da lui fondato si evolve formalmente nella ricerca giuridica di una sua fisionomia propria come “associazione di Ecclesiastici e Laici” consacrati alla Missione, legati con vincoli solidi di appartenenza e stabilità (“consacrazione” prima ad decemnium, secondo le Regole redatte da Comboni nel 1872, ma che lasciano aperta la porta alla perpetuità della consacrazione, e più tardi già esplicitamente “in perpetuo”, come dice il giuramento redatto da Comboni per i Fratelli Laici). Nel suo sviluppo logico, questo avrebbe certamente portato alla formazione di una societas stabile di vita comune e apostolica. Ogni seme ha il proprio tempo di sviluppo e di crescita. Ed è accaduto nel caso comboniano, anche se la morte di Comboni fece scattare un’altra fase, con problematiche del tutto particolari.
P. Fidel González, mccj
La seconda parte di questo articolo sarà pubblicata su
Familia Comboniana di marzo.

[1] Cf. Fidel González, I movimenti nella storia della Chiesa dagli Apostoli ad oggi, Rizzoli, 2000.

[2] Il termine “secolare” fino all’inizio del Novecento comprende tutte le forme di vita apostolica non considerate giuridicamente “religiose” come i monaci, i frati e simili. Le “congregazioni” fondate a partire dal sec. XVI sono considerate genericamente “secolari”.

[3] Cf. Congregatio De Causis Sanctorum, Danielis Comboni. Positio super vitae et virtutibus… (d’ora in poi citata come D.C. Positio), 2 voll. Romae 1988. Sono fondamentali i libri di P. Chiocchetta e A. Gilli: di F. González, Daniel Comboni, Profeta y Apostol de Africa, Mundo Negro, Madrid 1985; Idem, Comboni en el corazón de la Misión Africana. El Movimiento misionero y la Obra comboniana:1846-1910, Madrid 1993.

[4] L’Ottocento ecclesiale cattolico si caratterizza per il protagonismo della donna nella vita ecclesiale con la fondazione di numerosi “novelli istituti” femminili (non entro i limiti della vita monacale, ma anche paragonata agli “istituti secolari”) che coprono tutti i campi della emarginazione sociale e nell’attività missionaria. Queste nuove fondazioni porteranno una “rivoluzione” nel campo del diritto delle religiose o della vita consacrata.

[5] Regole del 1871, cap. II, in D. Comboni, Scritti, 2650-2652.

[6] Cf. Decreto diocesano del Vescovo di Verona, Magno sane perfundimur gaudio, in ACR, sez. A, c. 25/14 (kalendis Iunii [1 Giugno] an. 1867. Programma e Statuto dell’Opera del Buon Pastore, in ACR, sez. A, c. 25/14; Lettera Bonus Pastor del Vescovo di Verona ai Vescovi d’Italia (6 marzo 1868), in ACR, sez. A, c. 25/14; Decreto del Vescovo di Verona con l’erezione canonica del novello Istituto del 8.XII.1871, in ACR, sez. A, c. 25/20: in A. Gilli, L’Istituto Missionario Comboniano dalla fondazione alla morte di Daniele Comboni, pp. 359-378. Seguono altre lettere del Vescovo a Pio IX e al Card. Prefetto di P. F. e altri documenti relativi al tema.

[7] Per “Istituto” si intende un ente di diritto pubblico o privato, costituito sulla base di esigenze organizzative e di obiettivi determinati: i. ecclesiastico (religioso, missionario), ospedaliero, educativo, ecc., istituito secondo precise leggi e norme per un determinato fine di pubblico interesse. “Congregazione” (da congregare, lett. “riunire in gregge”), nel mondo ecclesiastico cattolico, è un gruppo di persone radunato per motivi religiosi o laici. Nella storia della vita religiosa il termine ha avuto diversi significati; uno di essi, dopo il sec. XIX, si riferisce a “Istituto” di vita consacrata con vincoli di voti semplici; ma non si tratta di un termine univoco.

[8] D. Comboni, Regole dell’Istituto delle Missioni per la Nigrizia. Testo del 1871, in P. Chiocchetta, Daniele Comboni: Carte per l’Evangelizzazione dell’Africa, EMI, Bologna 1978, pp. 250-251.

[9] Regole (1872), cap. I, 1, ibidem, p. 276.

[10] Regole (1871), cap. I, ibidem, p. 252.

[11] Cf. D. Comboni, Regole (1871), cap. I-II, in P. Chiocchetta, Daniele Comboni: Carte per l’evangelizzazione dell’Africa, pp. 249-275.

[12] Regole (1872), testo in P. Chiocchetta, Carte per l’evangelizzazione dell’Africa…, o.c., p. 276, e in A. Gilli, L’Istituto Missionario Comboniano dalla fondazione alla morte di Daniele Comboni, pp. 359-378.

[13] Nate, come abbiamo già detto, dopo che con la Rivoluzione francese si ebbe la scomparsa quasi totale della vita religiosa organizzata.