Laici Missionari Comboniani

Messaggio del Santo Padre Francesco. IV Giornata Mondiale dei Poveri

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“Tendi la tua mano al povero” (cfr Sir 7,32)

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“Tendi la tua mano al povero” (cfr Sir 7,32). La sapienza antica ha posto queste parole come un codice sacro da seguire nella vita. Esse risuonano oggi con tutta la loro carica di significato per aiutare anche noi a concentrare lo sguardo sull’essenziale e superare le barriere dell’indifferenza. La povertà assume sempre volti diversi, che richiedono attenzione ad ogni condizione particolare: in ognuna di queste possiamo incontrare il Signore Gesù, che ha rivelato di essere presente nei suoi fratelli più deboli (cfr Mt 25,40).

1. Prendiamo tra le mani il Siracide, uno dei libri dell’Antico Testamento. Qui troviamo le parole di un maestro di saggezza vissuto circa duecento anni prima di Cristo. Egli andava in cerca della sapienza che rende gli uomini migliori e capaci di scrutare a fondo le vicende della vita. Lo faceva in un momento di dura prova per il popolo d’Israele, un tempo di dolore, lutto e miseria a causa del dominio di potenze straniere. Essendo un uomo di grande fede, radicato nelle tradizioni dei padri, il suo primo pensiero fu di rivolgersi a Dio per chiedere a Lui il dono della sapienza. E il Signore non gli fece mancare il suo aiuto.

Fin dalle prime pagine del libro, il Siracide espone i suoi consigli su molte concrete situazioni di vita, e la povertà è una di queste. Egli insiste sul fatto che nel disagio bisogna avere fiducia in Dio: «Non ti smarrire nel tempo della prova. Stai unito a lui senza separartene, perché tu sia esaltato nei tuoi ultimi giorni. Accetta quanto ti capita e sii paziente nelle vicende dolorose, perché l’oro si prova con il fuoco e gli uomini ben accetti nel crogiuolo del dolore. Nelle malattie e nella povertà confida in lui.Affidati a lui ed egli ti aiuterà, raddrizza le tue vie e spera in lui. Voi che temete il Signore, aspettate la sua misericordia e non deviate, per non cadere» (2,2-7).

2. Pagina dopo pagina, scopriamo un prezioso compendio di suggerimenti sul modo di agire alla luce di un’intima relazione con Dio, creatore e amante del creato, giusto e provvidente verso tutti i suoi figli. Il costante riferimento a Dio, tuttavia, non distoglie dal guardare all’uomo concreto, al contrario, le due cose sono strettamente connesse.

Lo dimostra chiaramente il brano da cui è tratto il titolo di questo Messaggio (cfr 7,29-36). La preghiera a Dio e la solidarietà con i poveri e i sofferenti sono inseparabili. Per celebrare un culto che sia gradito al Signore, è necessario riconoscere che ogni persona, anche quella più indigente e disprezzata, porta impressa in sé l’immagine di Dio. Da tale attenzione deriva il dono della benedizione divina, attirata dalla generosità praticata nei confronti del povero. Pertanto, il tempo da dedicare alla preghiera non può mai diventare un alibi per trascurare il prossimo in difficoltà. È vero il contrario: la benedizione del Signore scende su di noi e la preghiera raggiunge il suo scopo quando esse sono accompagnate dal servizio ai poveri.

3. Quanto è attuale questo antico insegnamento anche per noi! Infatti la Parola di Dio oltrepassa lo spazio, il tempo, le religioni e le culture. La generosità che sostiene il debole, consola l’afflitto, lenisce le sofferenze, restituisce dignità a chi ne è privato, è condizione di una vita pienamente umana. La scelta di dedicare attenzione ai poveri, ai loro tanti e diversi bisogni, non può essere condizionata dal tempo a disposizione o da interessi privati, né da progetti pastorali o sociali disincarnati. Non si può soffocare la forza della grazia di Dio per la tendenza narcisistica di mettere sempre sé stessi al primo posto.

Tenere lo sguardo rivolto al povero è difficile, ma quanto mai necessario per imprimere alla nostra vita personale e sociale la giusta direzione. Non si tratta di spendere tante parole, ma piuttosto di impegnare concretamente la vita, mossi dalla carità divina. Ogni anno, con la Giornata Mondiale dei Poveri, ritorno su questa realtà fondamentale per la vita della Chiesa, perché i poveri sono e saranno sempre con noi (cfr Gv 12,8) per aiutarci ad accogliere la compagnia di Cristo nell’esistenza quotidiana.

4. Sempre l’incontro con una persona in condizione di povertà ci provoca e ci interroga. Come possiamo contribuire ad eliminare o almeno alleviare la sua emarginazione e la sua sofferenza? Come possiamo aiutarla nella sua povertà spirituale? La comunità cristiana è chiamata a coinvolgersi in questa esperienza di condivisione, nella consapevolezza che non le è lecito delegarla ad altri. E per essere di sostegno ai poveri è fondamentale vivere la povertà evangelica in prima persona. Non possiamo sentirci “a posto” quando un membro della famiglia umana è relegato nelle retrovie e diventa un’ombra. Il grido silenzioso dei tanti poveri deve trovare il popolo di Dio in prima linea, sempre e dovunque, per dare loro voce, per difenderli e solidarizzare con essi davanti a tanta ipocrisia e tante promesse disattese, e per invitarli a partecipare alla vita della comunità.

È vero, la Chiesa non ha soluzioni complessive da proporre, ma offre, con la grazia di Cristo, la sua testimonianza e gesti di condivisione. Essa, inoltre, si sente in dovere di presentare le istanze di quanti non hanno il necessario per vivere. Ricordare a tutti il grande valore del bene comune è per il popolo cristiano un impegno di vita, che si attua nel tentativo di non dimenticare nessuno di coloro la cui umanità è violata nei bisogni fondamentali.

5. Tendere la mano fa scoprire, prima di tutto a chi lo fa, che dentro di noi esiste la capacità di compiere gesti che danno senso alla vita. Quante mani tese si vedono ogni giorno! Purtroppo, accade sempre più spesso che la fretta trascina in un vortice di indifferenza, al punto che non si sa più riconoscere il tanto bene che quotidianamente viene compiuto nel silenzio e con grande generosità. Accade così che, solo quando succedono fatti che sconvolgono il corso della nostra vita, gli occhi diventano capaci di scorgere la bontà dei santi “della porta accanto”, «di quelli che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 7), ma di cui nessuno parla. Le cattive notizie abbondano sulle pagine dei giornali, nei siti internet e sugli schermi televisivi, tanto da far pensare che il male regni sovrano. Non è così. Certo, non mancano la cattiveria e la violenza, il sopruso e la corruzione, ma la vita è intessuta di atti di rispetto e di generosità che non solo compensano il male, ma spingono ad andare oltre e ad essere pieni di speranza.

6. Tendere la mano è un segno: un segno che richiama immediatamente alla prossimità, alla solidarietà, all’amore. In questi mesi, nei quali il mondo intero è stato come sopraffatto da un virus che ha portato dolore e morte, sconforto e smarrimento, quante mani tese abbiamo potuto vedere! La mano tesa del medico che si preoccupa di ogni paziente cercando di trovare il rimedio giusto. La mano tesa dell’infermiera e dell’infermiere che, ben oltre i loro orari di lavoro, rimangono ad accudire i malati. La mano tesa di chi lavora nell’amministrazione e procura i mezzi per salvare quante più vite possibile. La mano tesa del farmacista esposto a tante richieste in un rischioso contatto con la gente. La mano tesa del sacerdote che benedice con lo strazio nel cuore. La mano tesa del volontario che soccorre chi vive per strada e quanti, pur avendo un tetto, non hanno da mangiare. La mano tesa di uomini e donne che lavorano per offrire servizi essenziali e sicurezza. E altre mani tese potremmo ancora descrivere fino a comporre una litania di opere di bene. Tutte queste mani hanno sfidato il contagio e la paura pur di dare sostegno e consolazione.

7. Questa pandemia è giunta all’improvviso e ci ha colto impreparati, lasciando un grande senso di disorientamento e impotenza. La mano tesa verso il povero, tuttavia, non è giunta improvvisa. Essa, piuttosto, offre la testimonianza di come ci si prepara a riconoscere il povero per sostenerlo nel tempo della necessità. Non ci si improvvisa strumenti di misericordia. È necessario un allenamento quotidiano, che parte dalla consapevolezza di quanto noi per primi abbiamo bisogno di una mano tesa verso di noi.

Questo momento che stiamo vivendo ha messo in crisi tante certezze. Ci sentiamo più poveri e più deboli perché abbiamo sperimentato il senso del limite e la restrizione della libertà. La perdita del lavoro, degli affetti più cari, come la mancanza delle consuete relazioni interpersonali hanno di colpo spalancato orizzonti che non eravamo più abituati a osservare. Le nostre ricchezze spirituali e materiali sono state messe in discussione e abbiamo scoperto di avere paura. Chiusi nel silenzio delle nostre case, abbiamo riscoperto quanto sia importante la semplicità e il tenere gli occhi fissi sull’essenziale. Abbiamo maturato l’esigenza di una nuova fraternità, capace di aiuto reciproco e di stima vicendevole. Questo è un tempo favorevole per «sentire nuovamente che abbiamo bisogno gli uni degli altri, che abbiamo una responsabilità verso gli altri e verso il mondo […]. Già troppo a lungo siamo stati nel degrado morale, prendendoci gioco dell’etica, della bontà, della fede, dell’onestà […]. Tale distruzione di ogni fondamento della vita sociale finisce col metterci l’uno contro l’altro per difendere i propri interessi, provoca il sorgere di nuove forme di violenza e crudeltà e impedisce lo sviluppo di una vera cultura della cura dell’ambiente» (Lett. enc. Laudato si’, 229). Insomma, le gravi crisi economiche, finanziarie e politiche non cesseranno fino a quando permetteremo che rimanga in letargo la responsabilità che ognuno deve sentire verso il prossimo ed ogni persona.

8. “Tendi la mano al povero”, dunque, è un invito alla responsabilità come impegno diretto di chiunque si sente partecipe della stessa sorte. È un incitamento a farsi carico dei pesi dei più deboli, come ricorda San Paolo: «Mediante l’amore siate a servizio gli uni degli altri. Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai il tuo prossimo come te stesso. […] Portate i pesi gli uni degli altri» (Gal 5,13-14; 6,2). L’Apostolo insegna che la libertà che ci è stata donata con la morte e risurrezione di Gesù Cristo è per ciascuno di noi una responsabilità per mettersi al servizio degli altri, soprattutto dei più deboli. Non si tratta di un’esortazione facoltativa, ma di una condizione dell’autenticità della fede che professiamo.

Il libro del Siracide ritorna in nostro aiuto: suggerisce azioni concrete per sostenere i più deboli e usa anche alcune immagini suggestive. Dapprima prende in considerazione la debolezza di quanti sono tristi: «Non evitare coloro che piangono» (7,34). Il periodo della pandemia ci ha costretti a un forzato isolamento, impedendoci perfino di poter consolare e stare vicino ad amici e conoscenti afflitti per la perdita dei loro cari. E ancora afferma l’autore sacro: «Non esitare a visitare un malato» (7,35). Abbiamo sperimentato l’impossibilità di stare accanto a chi soffre, e al tempo stesso abbiamo preso coscienza della fragilità della nostra esistenza. Insomma, la Parola di Dio non ci lascia mai tranquilli e continua a stimolarci al bene.

9. “Tendi la mano al povero” fa risaltare, per contrasto, l’atteggiamento di quanti tengono le mani in tasca e non si lasciano commuovere dalla povertà, di cui spesso sono anch’essi complici. L’indifferenza e il cinismo sono il loro cibo quotidiano. Che differenza rispetto alle mani generose che abbiamo descritto! Ci sono, infatti, mani tese per sfiorare velocemente la tastiera di un computer e spostare somme di denaro da una parte all’altra del mondo, decretando la ricchezza di ristrette oligarchie e la miseria di moltitudini o il fallimento di intere nazioni. Ci sono mani tese ad accumulare denaro  con la vendita di armi che altre mani, anche di bambini, useranno per seminare morte e povertà. Ci sono mani tese che nell’ombra scambiano dosi di morte per arricchirsi e vivere nel lusso e nella sregolatezza effimera. Ci sono mani tese che sottobanco scambiano favori illegali per un guadagno facile e corrotto. E ci sono anche mani tese che nel perbenismo ipocrita stabiliscono leggi che loro stessi non osservano.

In questo panorama, «gli esclusi continuano ad aspettare. Per poter sostenere uno stile di vita che esclude gli altri, o per potersi entusiasmare con questo ideale egoistico, si è sviluppata una globalizzazione dell’indifferenza. Quasi senza accorgercene, diventiamo incapaci di provare compassione dinanzi al grido di dolore degli altri, non piangiamo più davanti al dramma degli altri né ci interessa curarci di loro, come se tutto fosse una responsabilità a noi estranea che non ci compete» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 54). Non potremo essere contenti fino a quando queste mani che seminano morte non saranno trasformate in strumenti di giustizia e di pace per il mondo intero.

10. «In tutte le tue azioni, ricordati della tua fine» (Sir 7,36). È l’espressione con cui il Siracide conclude questa sua riflessione. Il testo si presta a una duplice interpretazione. La prima fa emergere che abbiamo bisogno di tenere sempre presente la fine della nostra esistenza. Ricordarsi il destino comune può essere di aiuto per condurre una vita all’insegna dell’attenzione a chi è più povero e non ha avuto le stesse nostre possibilità. Esiste anche una seconda interpretazione, che evidenzia piuttosto il fine, lo scopo verso cui ognuno tende. È il fine della nostra vita che richiede un progetto da realizzare e un cammino da compiere senza stancarsi. Ebbene, il fine di ogni nostra azione non può essere altro che l’amore. È questo lo scopo verso cui siamo incamminati e nulla ci deve distogliere da esso. Questo amore è condivisione, dedizione e servizio, ma comincia dalla scoperta di essere noi per primi amati e risvegliati all’amore. Questo fine appare nel momento in cui il bambino si incontra con il sorriso della mamma e si sente amato per il fatto stesso di esistere. Anche un sorriso che condividiamo con il povero è sorgente di amore e permette di vivere nella gioia. La mano tesa, allora, possa sempre arricchirsi del sorriso di chi non fa pesare la propria presenza e l’aiuto che offre, ma gioisce solo di vivere lo stile dei discepoli di Cristo.

In questo cammino di incontro quotidiano con i poveri ci accompagna la Madre di Dio, che più di ogni altra è la Madre dei poveri. La Vergine Maria conosce da vicino le difficoltà e le sofferenze di quanti sono emarginati, perché lei stessa si è trovata a dare alla luce il Figlio di Dio in una stalla. Per la minaccia di Erode, con Giuseppe suo sposo e il piccolo Gesù è fuggita in un altro paese, e la condizione di profughi ha segnato per alcuni anni la santa Famiglia. Possa la preghiera alla Madre dei poveri accomunare questi suoi figli prediletti e quanti li servono nel nome di Cristo. E la preghiera trasformi la mano tesa in un abbraccio di condivisione e di fraternità ritrovata.

Roma, San Giovanni in Laterano, 13 giugno 2020, Memoria liturgica di Sant’Antonio di Padova.

Francesco

Il ruolo ministeriale del fratello

Joel Cruz
Joel Cruz

INCARNAZIONE DELLA PAROLA, FRATERNITÀ E PROMOZIONE UMANA

Qui di seguito presentiamo l’esperienza di Fratel Joel Cruz Reyes in Ecuador. In cui le caratteristiche del ministero del Fratello si distinguono per una nuova prospettiva di promozione umana che ha come fondamento la Parola.

1. Incontro con la missione

Nel 1997 sono arrivato in Ecuador, assegnato al Centro Culturale Afro-Ecuadoriano della città di Guayaquil. All’epoca, l’accompagnamento degli afro-discendenti ruotava intorno alla religiosità, alla formazione liturgico-sacramentale e socio-politica, con l’obiettivo di renderli socialmente ed ecclesialmente consapevoli. A questo scopo si è cercato il supporto di esperti laici in psicologia, antropologia, sociologia, politica.

Dal comportamento, dagli atteggiamenti e dalle motivazioni che ho percepito negli afro-discendenti che venivano al Centro, mi sono reso conto che la loro dipendenza dal missionario era cronica. Si erano abituati a considerarsi materialmente, spiritualmente e moralmente indigenti. Certamente questo comportamento è stato un riflesso delle ombre della loro storia ancora operanti nel presente, ma è stato anche una conseguenza della visione paternalistica che aveva prevalso nel loro accompagnamento. Questo non ha permesso loro di crescere in umanità e in spirito; li ha bloccati ruolo di “oggetto”, non ha permesso loro di avanzare verso il ruolo di “soggetto” ecclesiale e sociale.

2. Capire e avviare i processi

A poco a poco ho capito che questi processi, pur essendo molto buoni, erano scollegati dalla fede e dalla Parola, come se la “rigenerazione dell’essere umano afro-discendente fosse solo un problema umano-sociale”. Mi sono reso conto che i processi non hanno raggiunto la contemplazione dell’afro-discendente come figlio di Dio, immagine e somiglianza di Lui, scolpito dalla storia, anche dalle circostanze sociali ed ecclesiali avverse, vero, ma soprattutto pensiero dell’essere umano, voluto da Dio e con una specifica missione nella Chiesa, nella società, nel mondo.

I risultati sono stati logici perché, da un lato, l’accompagnamento gerarchico ereditato dalla tradizione pastorale predominante nella Chiesa li ha resi “oggetti-dipendenti” dall’azione del “soggetto” che era il missionario. D’altra parte, l’intervento di specialisti laici senza una visione religiosa, di fede e scollegati dalla Parola di Dio, non poteva offrire altro che un modo di vedere l’afro-discendente e la sua storia, come un “problema” personale e sociale. Non si vedevano come “esseri umani”, ma come un “problema sociale” e “oggetto” di abusi, maltrattamenti ed esclusione. Erano convinti di essere solo “vittime” e non esseri umani con una responsabilità ecclesiale e sociale.

3. Presenza che condivide la vita

Quando ho cominciato a camminare con loro, mi sono reso conto che la presenza del Fratello che, per la sua natura vocazionale, è spogliato del sacro, a poco a poco sta “trasformando” la gerarchia relazionale nelle strutture culturali, sociali ed ecclesiali, fino a consolidare la circolarità della fraternità ministeriale voluta da Gesù. Che il Fratello, proprio perché religioso, è capace di contemplare l’umanità delle persone che accompagna e di metterla in moto (promozione umana) nella Chiesa e nella società.

Ho capito che il Fratello è un ponte tra la scienza e la fede, tra il Vangelo e la società, tra la Chiesa e il mondo, tra la vita religiosa e laica, tra il ministero sacerdotale e quello laico. Senza la sua presenza, spesso i processi diventano “estremi”: vanno all'”estremo liturgico-sacramentale” o all'”estremo politico-sociale”. E il Fratello ha un piede ad ogni estremità. Egli è quindi capace di equilibrare i processi di evangelizzazione e di far vedere all’essere umano la sua storia non come una tragedia umana senza Dio, ma come una storia sacra di salvezza, dove Dio non solo è presente, ma si fa carne e assume come proprie le cause di quell’essere umano.

4. I miracoli della fraternità

Il Signore mi ha dato l’opportunità di vedere i miracoli della fraternità che nascono dalla consapevolezza di sapere che siamo tutti fratelli e sorelle, figli dello stesso Padre. Con la stessa dignità e responsabilità missionaria di Cristo e, quindi, inteso come il Corpo Nero di Cristo in quella società discriminante ed escludente che ha messo in ombra la Chiesa anche in quel contesto. Mi ha dato l’opportunità di sperimentare il potere liberatorio di questo “diventare uno in più tra loro”, di non aver paura di “abbassarsi”, proprio come Gesù (Filippesi 2, Emmaus) e di cercare con loro le vie, le risposte, le soluzioni.

Questo essere tra il popolo di origine africana come “compagno di viaggio” e non come guida o insegnante, ha fatto sì che si iniziasse a gustare e ad assaporare la comunione e la partecipazione, a comprendere il valore e la potenza del “cenacolo degli apostoli” sognato da san Daniele Comboni. Così è nata la Confraternita dei missionari afro-ecuadoriani, il Cammino afro-biblico, i processi di etno-educazione e di ricreazione culturale in un contesto urbano, le organizzazioni e associazioni afro con finalità culturali e sociopolitiche e la pastorale giovanile afro.

Il cammino fraterno con gli afro-discendenti mi ha permesso di contemplare come “l’oggetto” si è trasformato in un “soggetto” sociale ed ecclesiale. E tutto è cominciato quando hanno scoperto se stessi come esseri umani, figli di Dio, missionari del Padre. E questa consapevolezza si semina vivendo con loro, discutendo con loro, come Gesù fece con i suoi discepoli: sulla strada, in casa, alla festa, lì dove si trovavano; conversando, rispondendo alle loro preoccupazioni, spiegando, condividendo senza fretta, senza luoghi fissi, solitamente lontano dal tempio.

Avendo sperimentato il potere rigenerante della fraternità negli esseri umani, ho pensato e immaginato il Fratello missionario comboniano come una “levatrice” di ministeri laici che vanno oltre le strutture del tempio e le questioni religiose. Di un ministero che tocca temi umani e sociali; come compagno di quei ministeri che nascono con una proiezione secolare per infondere loro lo Spirito e per essere la forza trasformatrice di Dio nella società.

Il cammino con la gente mi ha fatto riconoscere come un Fratello religioso, cioè un “esperto” nello stabilire la profonda connessione tra il mondo e Dio, tra la carne e lo spirito, tra l’umano e il divino. Un esperto nell’aiutare l’essere umano a comprendere Dio da cittadino che agisce nella società e da essere umano che si riconosce come sua presenza.

5. Strategia e sguardo al futuro

Ma come far sì che la fraternità che promuove l’umanità della gente si rafforzi e non finisca per diluirsi nella tradizione evangelizzatrice che guarda più al liturgico-sacramentale? Come rendere più visibile e significativo il ministero dell’incarnazione del Verbo in ministeri che toccano temi umani e sociali nell’Istituto, nella Chiesa e nella società? A queste domande ha trovato risposta nella proposta di San Daniele Comboni di istituire Centri di formazione dove l’africano non cambia e il missionario non muore.

Questa strategia mi è sembrata la più adeguata alla realtà numerica e dispersa del Fratello nell’Istituto e, quindi, per poter pensare ad una forma che accompagni il ministero del Fratello, lo identifichi, lo definisca e lo renda più comprensibile. Per questo motivo, proprio come il sacerdote è accompagnato dalla figura della parrocchia, un’opera che spiega e rende comprensibile il suo ministero, così ho iniziato a immaginare un’opera che potesse far esplodere tutta la forza ministeriale della fraternità nell’Istituto. Nacque così l’idea delle Opere Comboniane per la Promozione Umana (OCPH) e il Centro Culturale Afro-Ecuadoriano di Guayaquil divenne la prima di queste opere.

PER UNA RIFLESSIONE PERSONALE E COMUNITARIA:

1. Cosa mi colpisce di più di questa esperienza religiosa? Perché?

2. Che cosa suscita in me questa esperienza? Per quale motivo?

3. Cosa ci dice come comunità?

4. Quale parte o quali parti di questa esperienza possono illuminare il lavoro parrocchiale o i progetti missionari nelle nostre comunità/missioni?

PER APPROFONDIRE

Orientamenti di Papa Francesco e Benedetto XVI sulla fraternità

Riflessioni prese dal documento “Appunti per una spiritualità missionaria della fraternità” di Fr. Alberto Degan.

In questo terzo millennio, il Papa propone una missione affascinante: combattere la “globalizzazione dell’indifferenza” costruendo la “globalizzazione della fraternità”.  Naturalmente, è un appello per tutti i cristiani, ma in noi Fratelli questa chiamata suscita indubbiamente un senso di gioia e una responsabilità particolare.

  • I primi due messaggi per la Giornata Mondiale della Pace di Papa Francesco (i messaggi del 2014 e del 2015) sono interamente dedicati al tema della fraternità. “La fraternità è il fondamento e la via della pace“, ci dice Francesco. Infatti, la pace e la giustizia non sono solo una questione “tecnica” di apportare cambiamenti strutturali per ridurre le scandalose disuguaglianze che caratterizzano il mondo di oggi, né è solo una questione politica. La pace e la giustizia sono soprattutto una sfida spirituale: solo se ci sentiamo fratelli, figli dello stesso Padre, la gente sarà pronta a fare i cambiamenti e i “sacrifici” necessari per dare vita a una società giusta e fraterna. Come diceva Francesco nel messaggio Urbi et orbi per il Natale 2018, “senza la fraternità che Gesù Cristo ci ha dato, i nostri sforzi per un mondo più giusto non andrebbero molto lontano” (Salmo 84, 11-12).
  • Papa Benedetto XVI ha proposto la fraternità come principio economico: “Lo sviluppo economico, sociale e politico ha bisogno, per essere autenticamente umano, di fare spazio al principio di gratuità come espressione della fraternità“, ha affermato nella sua enciclica “Caritas in veritate” n. 34. E ha aggiunto: “La grande sfida che abbiamo… è di mostrare… che nelle relazioni commerciali il principio di gratuità e la logica del dono, come espressione della fraternità, possono e devono avere spazio nell’attività economica ordinaria” (CV 36). Benedetto XVI propone che la logica della fraternità riconfiguri il nostro sistema economico.
  • Più recentemente, Papa Francesco ha dedicato l’intero messaggio della Giornata Mondiale della Pace 2014 al tema della fraternità: “Fraternità, fondamento e cammino verso la pace”. I titoli delle diverse parti di questo documento sono: “Siete tutti fratelli, (Mt 23,8)”, “La fraternità, la premessa per superare la povertà”, “La riscoperta della fraternità nell’economia”, “La fraternità spegne la guerra”, “La fraternità genera la pace sociale”, “La fraternità aiuta a proteggere e coltivare la natura”. Solo dando un rapido sguardo a questi titoli si capisce che per Francesco la fraternità – lungi dall’essere un concetto casuale e “romantico” – è un principio di fede molto concreto, con inevitabili implicazioni sociali, politiche ed economiche. Secondo il Papa, la giustizia sociale non può essere costruita se prima non coltiviamo nel nostro cuore un profondo senso di fraternità.
  • La prima parte di questo documento è intitolata “Dov’è tuo fratello? (Gen 4:9). Nella Bibbia, questa è la seconda domanda che Dio rivolge all’uomo, e questo significa che per Dio è una domanda fondamentale. Gli esseri umani, così come sono stati concepiti dal nostro Creatore, realizzano la loro umanità quando lasciano il loro egoismo e si preoccupano delle condizioni di vita dei loro fratelli, quando entrano in una logica di comunione e di fraternità che li fa percepire che la loro vita ha senso solo se è vissuta in un atteggiamento di solidarietà con i loro simili. In altre parole, per Dio essere umano significa essere e sentirsi fratelli.
  • Gesù si presenta a noi come il “primogenito in mezzo a tanti fratelli” (Rm 8,29): la fraternità è la via tracciata da Dio per la realizzazione della nostra umanità. Come dice un proverbio africano, “Io sono un essere umano perché tu sei un essere umano”, cioè: “Mi sento bene e posso realizzare la mia umanità quando vedo che anche i miei fratelli stanno bene e possono realizzarla”. Ma nella nostra società prevale la logica opposta, quella del vecchio adagio latino “Mors tua vita mea“, che significa: “La tua morte è la mia vita“, “Solo se ti uccido e prendo possesso dei tuoi beni posso vivere felice”.

Non sorprende quindi che Helmut Maucher – presidente della multinazionale Nestle negli anni ’80 e ’90 – abbia detto di aver bisogno di dirigenti con “l’istinto omicida“. In questo modo, come afferma l’economista Hinkelammert, “la lotta per uccidere l’altro è vista come fonte di prosperità e di vita“. Così, l’evangelizzatore propone il modello e la spiritualità dell’uomo-fratello contro il modello e la “spiritualità” dell’uomo-killer.

Per combattere l’ingiustizia e la povertà, quindi, è necessaria una “rivoluzione spirituale”, una spiritualità della fratellanza che ci faccia capire che la sconfitta e la morte di mio fratello saranno, prima o poi, anche la mia sconfitta e la mia morte. Come disse Martin Luther King, “o riusciremo a vivere come fratelli o moriremo tutti come sciocchi“.

  • Nella Evangelii Gaudium (n. 186) Francesco afferma che il nostro amore per “i più abbandonati della società” deriva “dalla nostra fede in Cristo che è sempre vicino ai poveri“. Indubbiamente, di fronte a tante sfide enormi, ci sentiamo spesso piccoli e impotenti: non abbiamo risposte immediate su cosa fare. Ma Gesù ci dà un’indicazione molto chiara di DOVE ESSERE: oggi come ieri, Gesù “sempre vicino ai poveri” ci chiama ad essere VICINO AI POVERI, VICINO AGLI ULTIMI.

Il nostro Capitolo generale del 2015 ha accolto l’invito del Papa e ha indicato come primo criterio per la riqualificazione dei nostri impegni il criterio della “vicinanza ai poveri” (AC15 n.44.5). Questo è un criterio che per noi Fratelli comboniani ha un valore speciale, perché il nostro Fondatore ci vedeva come coloro che sono più vicini alla gente, perché passiamo più tempo con loro: “In Africa centrale, i Fratelli artigiani ben preparati contribuiscono al nostro apostolato più dei sacerdoti alla conversione, perché gli studenti neri e i nuovi arrivati (la maggior parte dei quali si trovano nella stessa situazione) sono quelli che hanno più bisogno di conversione. … devono passare un tempo piuttosto lungo con  i “maestri” e gli “esperti”, che a parole e con l’esempio sono veri apostoli per i loro alunni) sono con i fratelli, e li osservano e li ascoltano più di quanto possano osservare e ascoltare i sacerdoti” (S5831).

Nota: Vedere anche l’ultima enciclica di Papa Francesco “Fratelli Tutti” sulla fraternità e l’amicizia sociale (3 ottobre 2020).

PREGHIERA PERSONALE

“E il Verbo si è fatto carne e ha abitato in mezzo a noi, e noi abbiamo visto la sua gloria (la gloria che corrisponde all’unigenito del Padre), piena di grazia e di verità”. Jn 1,14

Riflessioni dagli incontri continentali dei Fratelli in America:

  • In mezzo a una mentalità e tradizione ecclesiale che imprigiona la Parola di Dio nei templi, nei discorsi teorici e che difficilmente osa andare oltre le strutture ecclesiali e toccare questioni umane e sociali, si inserisce la figura ministeriale del Fratello Missionario Comboniano.
  • La sua vocazione a “fare carne al Verbo”, nel contesto in cui vive e vive insieme, e a plasmare l’essere umano come figlio di Dio e fratello di tutti, lo porta ad aprire percorsi e iniziative che non si limitano alle strutture e alle tradizioni della Chiesa, perché la “incarnazione missionaria del Verbo” è vissuta in armonia con i tempi e i luoghi in cui si trova.
  • Lo spirito fraterno di Dio lo conduce all’inserimento nella vita e nella quotidianità della gente, quindi è in grado di scoprire e salvare la ricchezza e l’esperienza delle persone e dei gruppi umani che accompagna in missione, con lo scopo di arricchire la Chiesa, la società e di promuovere l’aspetto veramente umano delle persone attraverso le quali passa, come opera e rivelazione di Dio che deve essere conosciuta, riconosciuta, valorizzata, assunta e proposta dalla Chiesa al mondo.
  • La convivenza fraterna con la gente, dalla coscienza e dallo spirito missionario, ne fa il “radar” che coglie i segni, i segnali, i rumori, le sfide… che la realtà umana e sociale pone nel qui e ora. Per questo motivo, la sua parola e il suo contributo sono decisivi per il dinamismo, la creatività e l’aggiornamento della missione comboniana.
  • Il suo volto evangelico-sociale e fraterno lo rende un “ponte” tra la società e la Chiesa, tra laici e religiosi, tra laici e clero. Proprio per questo diventa il volto sociale dell’impegno missionario della Chiesa. Questa dimensione vocazionale la inserisce nel cuore della sensibilità umana che cerca la solidarietà, la giustizia, la pace e l’impegno a trasformare la società. La sua vocazione ne fa una presenza che rafforza la coscienza e lo spirito dell’essere umano a vivere il Regno come giustizia, pace, gioia (Rm 14, 17ss)
  • Il ruolo del Fratello come persona consacrata e ministro di Cristo, quindi, è l’edificazione e la crescita umana e cristiana delle persone e delle comunità, nella prospettiva del Vangelo; per questo motivo, la sua azione non esclude il ministero della Parola. La sua presenza evangelizzatrice tra la gente sottolinea la dimensione della fraternità in tutti i suoi aspetti: lo sviluppo integrale delle persone, la promozione della giustizia, della pace, dei diritti umani… cioè il suo ministero tocca direttamente le questioni sociali, antropologiche e culturali dal punto di vista del Regno di Dio.

CONDIVISIONE IN COMUNITÀ E LINEE D’AZIONE

  1. In un clima di preghiera e di ascolto reciproco, condividiamo in comunità i frutti della preghiera personale.

2. Riflettiamo insieme:

a. Cosa ti fa pensare a ciò che abbiamo condiviso e pregato sul ministero del Fratello?

b. Cosa senti che lo Spirito ci invita a fare, personalmente, come comunità, come Provincia e come Istituto?

c. Come possiamo rispondere concretamente agli inviti dello Spirito?

d.  Il nostro impegno è: ________________________________

“Il ministero dei Fratelli, discepoli di Cristo fraterno, presta attenzione alla dimensione della fraternità in tutti i suoi aspetti, compreso lo sviluppo integrale delle persone, la promozione della giustizia, della pace e dei diritti umani. Si tratta, quindi, di un ministero aperto prevalentemente alla dimensione sociale, antropologica e culturale del Regno di Dio, orientato alla trasformazione sociale, alla testimonianza e all’annuncio della fraternità e all’animazione della comunità cristiana”.

SUGGERIMENTI PER LA CELEBRAZIONE DELL’EUCARISTIA

Nel momento del PADRE NOSTRO, mantenete un prolungato momento di silenzio per pensare alla fratellanza che nasce da Dio.

Laici missionari, esempio di cattolicità, inculturazione e contaminazione religiosa

Etiopia
Etiopia

Qualche anno fa mi era stato chiesto di esprimere la mia idea di cattolicità ad un gruppo di giovani della regione caucasica dell’ex Unione sovietica. Non avendo padronanza specifica in materia sul piano teologico o ecclesiologico e ancor meno dottrinale, per affrontare questo tema per niente banale o secondario rispetto agli elementi che contraddistinguono le “appartenenze” cristiane soprattutto in quella parte del mondo, mi sono semplicemente avvalso della mia personale esperienza di “cattolico”, attingendo alle tante occasioni di incontro che ho potuto avere con varie realtà ecclesiali, sociali e culturali di matrice cristiana nei cinque Continenti.

In particolare, a quei giovani riuniti per un fine settimana di spiritualità e condivisione conviviale anche con le famiglie del luogo, ho accennato all’esperienza vissuta con la mia famiglia in Etiopia, unico Paese dell’Africa sub-sahariana a vantare una identità cristiana risalente ai tempi della predicazione apostolica (Atti 8: 26-27), secondo la tradizione della chiesa ortodossa Tewahedo (termine che in lingua gh’ez idioma liturgico dell’Etiopia- starebbe per “uniti come uno”, in riferimento alla natura divina e umana di Gesù Cristo, che si riflette nello spirito di unità della Chiesa).

In Etiopia, è presente una numericamente piccola ma molto attiva e apprezzata Chiesa cattolica che si esprime nei due riti: alessandrino-etiopico, derivato dalla tradizione condivisa nei secoli (non senza incomprensioni e conflitti) con la chiesa ortodossa, e latino- romano, proprio della più recente attività missionaria iniziata nella seconda metà dell’Ottocento.

Questa diversità, sebbene a volte fonte di controversie e malintesi sotto vari aspetti su cui non è opportuno soffermarci ora, è soprattutto motivo di reciproco arricchimento sia spirituale che umano.

PROSEGUI DA QUI LA LETTURA

L’espressione cattolico richiama immediatamente ad un valore di universalità, che per la Chiesa cattolica assume non solo e non tanto il significato di unico centro di amministrazione del “potere” in Roma per tutte le chiese sparse nel mondo, ma le riconosce in particolare la capacità di sapersi esprimere come «unità nella diversità», in una vitale pluralità di espressioni della fede cristiana. Una unità che, come sappiamo, non è certo già realizzata, ma che viene costantemente perseguita anche attraverso un paziente lavoro ecumenico per superare lo «scandalo» delle divisioni di varia natura presenti nella Chiesa e realizzare la volontà di Cristo: «che tutti siano una sola cosa» (Gv 17,21).

Una Chiesa, quindi, che riconosce la fratellanza dei cristiani perché uniti nell’unico battesimo, fratelli e sorelle con tutta l’umanità: una Chiesa cattolica, insomma!

E, partendo da queste semplici considerazioni, mi sono ritrovato a descrivere uno spaccato di vita “cattolica” di tanti laici missionari fidei donum che in molte parti del mondo esprimono, con la loro presenza di comuni battezzati, un senso di fraternità solidale ispirata dal Vangelo, che non ha confini geografici e non pretende di imporre barriere culturali nei confronti dei più poveri ai quali i laici fidei donum prestano il loro servizio sia di evangelizzazione che di promozione umana.

Quando, parlando con un anziano missionario, ho usata il termine “contaminazione” per descrivere una modalità con cui i laici missionari, soprattutto i giovani, sono particolarmente coinvolti nel prestare attenzione alle diverse tradizioni religiose cristiane presenti nei Paesi in cui operano, mi ha subito opposto la sua contrarietà, ritenendo tale espressione del tutto negativa, come se io volessi inquinare una fonte d’acqua pura, cioè quella che da lui giustamente era ritenuta l’“unica” Chiesa di Roma, con sostanze “velenose” sprigionate dalle diversità presenti nelle “Chiese sorelle” che, invece, proprio per le loro particolarità, contribuiscono a rendere la Chiesa davvero cattolica, universale.

Le diversità sane nella Chiesa non sono frutto di personalismi o settarismi, né tanto meno di lotte di potere, ma derivano da consolidate esperienze di condivisione della fede che si innestano, anche modificandolo, nell’albero ultra-millenario delle culture e delle tradizioni dei popoli. Come potremmo altrimenti noi “occidentali” sentirci pienamente partecipi di una fede generata in terra d’Oriente?

E’ proprio il paziente e ponderato sforzo di inculturazione del Vangelo da parte degli annunciatori della Buona Notizia, tra i quali figurano sempre più  laiche e laici genuini testimoni di cattolicità a privilegio dei poveri, che rende possibile un reale radicamento della fede cristiana nella storia dei popoli e dell’umanità intera.

LAICI E MISSIONE AD GENTES – di Beppe Magri

*Giuseppe Magri è stato con la moglie Anita Cervi e la famiglia in più periodi durati anni volontario in Etiopia con l’LVIA. Ha ricoperto diversi incarichi legati al mondo missionario in ambiti nazionali. Attualmente è membro del Comitato della Conferenza Episcopale Italiana per gli Interventi Caritativi a favore del Terzo Mondo. Con Anita vive in una canonica nella montagna veronese, a servizio della comunità ecclesiale.

Ministerialità: un approccio a partire dalla ricchezza semantica dei testi biblici

La Palabra
La Palabra

Introduzione

Il presente articolo vuole essere un semplice e breve contributo al processo di riflessione e condivisione attorno al tema della ministerialità a partire dai testi biblici. Visto che il sostantivo astratto “ministerialità” non compare nei testi sacri, il nostro approccio sarà basato sulla pluralità semantica del termine ministro. È importante sottolineare fin d’ora che il nostro testo non intende includere tutti i termini biblici equivalenti a “ministro”, né approfondire i cosiddetti ministeri biblici come ad esempio sacerdote, re, profeta, apostoli, evangelisti, pastori, dottori. Ci limiteremo quindi ad affrontare alcuni elementi teologico-linguistici associati ai termini per condividere, in un secondo tempo, a titolo conclusivo, una breve riflessione e alcune domande in vista di un eventuale approfondimento del tema.

  1. Visione generale dei termini biblici equivalenti a ministro
    1. Nell’Antico Testamento
      1. MESHARET

La radice di questo termine ebraico designa qualsiasi servizio. Nel contesto del nostro tema, merita di essere sottolineato il servizio di Giosuè a Mosè in Es 24,13; 33,11, Nm 11,28 e Gs 1,1. In questi testi, MESHARET significa ministro, ausiliare diretto, discepolo. Mosè infatti portava Giosuè ai suoi incontri con Dio sul monte e nella tenda. Il ministero di Giosuè consisteva nell’aiutare Mosè a comprendere il messaggio di Dio, per poi trasmetterlo al popolo. Ciò che è interessante in questi testi biblici è che l’essere ministro è una fase di preparazione per essere una guida, ossia è un vero e proprio discepolato. Perciò, MESHARET rinvia al tema del rapporto discepolo-maestro, del saper apprendere per continuare una missione o un ministero. Da questo punto di vista, il concetto di MESHARET ci trasmette l’idea che, nel rapporto discepolo-maestro, il discepolo non apprende solo dal maestro ma anche dalla realtà. Ossia, anche la realtà diventa maestra. Pertanto, il ministro è, allo stesso tempo, discepolo del Signore e della realtà.

  1. EBED

Altro termine usato nell’Antico Testamento per designare ministro è EBED. Questo termine indica non solo il comune servizio di qualsiasi persona subordinata ad un padrone, come nel caso di Nàaman (2 Re 5,6), ma anche la subordinazione ai piani divini, come nel caso del servo di Dio (EBED ADONAI o EBED HAELOHIM) in Is 42,1-4; 49,1-6; 50,4-9; 52,13-15; 53,1-12. Anche se gli studiosi non concordano sull’identità storica del EBED ADONAI, i testi mostrano chiaramente che la sottomissione ai piani di Dio è la condizione per realizzare la missione ricevuta.

  1. Nel Nuovo Testamento

Per quanto riguarda il Nuovo Testamento (NT), meritano di essere evidenziati i seguenti termini:

  1.  PAIS/DOULOS

Nell’accezione comune, PAIS significa bambino. In Mt 12,18 tuttavia si cita la versione greca di Is 42,1 nella quale il termine PAIS traduce il significato ebraico di EBED (servo), per indicare che Gesù è Servo di Dio. Con la stessa intuizione, nel portico di Gerusalemme, dopo la Pentecoste, Pietro dichiara per la prima volta che Gesù è il Servo di Dio (At 3,13). In effetti Pietro rimase così segnato dall’immagine di Gesù-servo che questa divenne punto di riferimento delle sue prime predicazioni, dopo la Pentecoste. Così, egli presenta l’immagine di Gesù-servo come paradigma di qualsiasi tipo di servizio nella Chiesa nascente. Ne è una prova testuale la trasposizione semantica che il NT opera fra i termini PAIS (bambino, servo) e DOULOS (schiavo, servo). Facciamo attenzione: rivolgendosi agli apostoli in Gv 15,15, Gesù qualifica il suo rapporto con loro come un rapporto di amicizia e non di servitù o schiavitù. Inoltre, il termine DOULOS (servo) continuerà a caratterizzare la missione dei discepoli. Infatti, Gesù raccomanda che i rapporti interpersonali siano contrassegnati dagli atteggiamenti e sentimenti del servo, che devono essere adottati da chiunque voglia essere grande nel Regno dei Cieli (Mt 20,27; Mc 10,44). Va osservato anche che DOULOS è il titolo col quale Paolo si presenta alle sue comunità (Rm 1,1; 2 Cor 4,5; Gal 1,10; Ef 6,6; Fil 1,1; Tt 1,1). Alcuni cristiani sono chiamati servi (DOULOI) in Col 4,12; 2 Tm 2,14; Gc 1,1. Pietro, Giuda e tutta la Chiesa sono servi (DOULOI) di Cristo secondo 2 Pt 1,1; Gd 1,1; Ap 1,1. Possiamo così constatare che i termini PAIS e DOULOS diventano sinonimi e Gesù-servo appare l’unico paradigma nell’esercizio dei ministeri.

Di questo termine, tre significati meritano particolare attenzione:

  1. indica i servitori e gli amministratori pubblici che vengono chiamati servi di Dio perché svolgono con zelo il loro incarico (Rm 13,6). A loro, il cristiano deve essere sottomesso e per loro deve pregare, affinché abbiano una vita tranquilla, pacifica, pia e onesta (2 Tm 2,2).
  • Anche colui che annuncia il vangelo di Gesù Cristo a coloro che non Lo conoscono, perché diventi un’offerta a Lui gradita, è chiamato LEITOURGOS (Rm 15,16).
  • Il termine viene applicato anche a Gesù per indicare il suo ministero di mediatore fra Dio e gli uomini (Eb 8,2). È interessante anche il fatto che nel NT, con questo termine, si equipari il ministero del servitore pubblico a quello dell’evangelizzatore, perché entrambi, ispirandosi a Gesù-mediatore, servono lo stesso Dio. Come abbiamo appena detto, ispirarsi a Gesù-mediatore vuol dire assumere e svolgere, dentro e fuori dalla Chiesa, la dimensione sacerdotale dei ministeri. Tutti i ministeri, infatti, senza eccezione alcuna, si rivestono di una dimensione sacerdotale, ossia, la mediazione fra il creatore e il creato.
    • HYPĒRETES

Per quanto riguarda il termine HYPĒRETES, troviamo soltanto il significato di “ministro della Parola” (Lc 1,2; At 26,16). In questi testi, l’esperienza di Cristo appare come una condizione necessaria per l’esercizio del ministero. Basta vedere che i “servitori della Parola”, menzionati in Lc 1,2, sono testimoni oculari. Saulo, in At 26,16, è costituito servo e testimone di quanto aveva appena visto e di ciò che il Signore doveva ancora mostrargli. Da questi passaggi emerge l’idea che i ministeri nascono dall’esperienza di Cristo e si nutrono di questa.

  1. DIAKONOS

È un termine ampiamente usato nel NT, ma in contesti e con significati diversi. Fondamentalmente, è bene soffermarsi su quanto segue: DIAKONOS è la persona che riceve la missione di servire la Chiesa. Stefano e i suoi amici lo sono perché si occupano delle opere caritatevoli della comunità (At 6,1-6); Paolo e Apollo, per quanto lavorino instancabilmente nell’evangelizzazione, preferiscono essere considerati semplicemente dei diaconi (DIAKONOI) della Chiesa (1 Cor 3,5-15); Tichico (Ef 6,21), Epafra (Col 1,7) e Timoteo (1 Ts 3,2) sono DIAKONOI perché collaborano più direttamente nell’evangelizzazione. Anche Gesù Cristo è DIAKONOS perché non è venuto per essere servito ma per servire e dare la vita in riscatto di molti (Mt 28,28; Mc 10,45; Rm 15,8). L’assistenza ai più bisognosi è considerata non solo una DIAKONIA (ministero, servizio) ma una condizione necessaria per avere un posto nel Regno dei cieli (Mt 25,31-46). In particolare, vale la pena evidenziare i testi sull’inferiorità del DIAKONOS: Lc 12,37 e 22,26-27. Il DIAKONOS è inferiore a Dio e al popolo che gli è affidato. In effetti, sembra che questa sia stata una caratteristica importante dei ministeri nelle prime comunità cristiane.

  1. OIKONOMOS

OIKONOMOS è l’amministratore che cura i beni del suo signore. Va osservato che nella tradizione paolina e petrina, gli apostoli e tutti i cristiani sono chiamati OIKONOMOI, perché amministrano i misteri e le grazie di Dio (1 Cor 4,1-2; 1 Pt 4,10). Il simbolismo dell’amministratore della casa è davvero evocativo, perché insiste sul dovere di ogni cristiano di avere un ministero. Così, i ministeri sono visti come una forma di amministrare la OIKOS (dimora, casa) di Dio (1 Cor 3,5-9).

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  • Riflessione

La ricchezza semantica di cui abbiamo parlato non va vista come una mera ricercatezza linguistica degli autori biblici, bensì come una prova evidente della diversità di esperienze di ministerialità presso il popolo di Israele e nelle prime comunità cristiane. Allo stesso modo, questa ricchezza semantica ci serve come fondamento e ispirazione per la continua contestualizzazione dei ministeri.

  • Diversità di esperienze ministeriali

Da quanto detto sopra, è evidente che le varie esperienze di ministerialità riportate nei testi sacri interessano agli agiografi per presentare, attraverso di esse, un Dio che suscita ministeri per il servizio della Sua casa. Ricordiamo che nel NT, casa di Dio (OIKOS TOU THEOU) indica, in senso stretto, la Chiesa di Cristo (1 Tm 3,15; Eb 3,6) e, in un senso più ampio, tutto l’universo (At 7,44-50). La complessità insita nei concetti dimostra l’importanza di approfondire non solo il significato dell’espressione “casa di Dio”, ma anche i ministeri che si richiedono per poterla amministrare integralmente. La casa di Dio è talmente complessa che non è possibile amministrarla senza una vasta gamma di ministeri. Urge, pertanto, stimolare la nascita di nuovi ministeri dentro e fuori dalla Chiesa. In questo senso, i Comboniani sono chiamati ad animare questo processo che oggi più che mai appare come una conditio sine qua non per l’evangelizzazione del mondo contemporaneo.

  • Contestualizzazione dei ministeri

Le varie esperienze di ministerialità nella Bibbia sono accompagnate da un processo di contestualizzazione, cioè di adeguamento dei ministeri ad un determinato contesto. Per i Comboniani, la contestualizzazione comporta due processi intrinsecamente interdipendenti: il processo ad intra e il processo ad extra. Ad intra perché richiede che si ripensino i ministeri e gli impegni missionari alla luce della realtà interna dell’Istituto (numero di confratelli, formazione accademica, geografia vocazionale, situazione economica, ecc.). Ad extra perché ci sfida a identificare, nel contesto in cui lavoriamo, persone, mezzi e metodi per favorire il sorgere, con questi e a partire da questi, di nuovi ministeri o l’attualizzazione di quelli già esistenti. Entrambi i processi richiedono realismo, coraggio e ottimismo. Va rilevato che, nel processo di contestualizzazione dei ministeri, assunti individualmente e come gruppo, la lettura contestualizzata della Sacra Scrittura svolge un ruolo insostituibile. Per questo motivo, è fondamentale reimparare a leggere la Bibbia a partire dal contesto del destinatario contemporaneo. Solo così sarà possibile individuare i ministeri più appropriati ad ogni realtà.

3. Domande per un approfondimento

a) In che cosa consiste questa “inferiorità del ministro” applicata al missionario comboniano?

b) Oggi sentiamo la necessità di nuovi ministeri nella Chiesa e nell’Istituto? Quali?

c) La casa di Dio è immensa e complessa. Come amministrarla integralmente?

d) Siamo stati capaci di contestualizzare il carisma comboniano e i ministeri ad esso legati?

e) Siamo riusciti a contestualizzare la nostra ermeneutica dei testi biblici, allo scopo di suscitare ministeri adeguati alla realtà? Quali difficoltà abbiamo incontrato?

Bibliografia consigliata

COLLINS, J.N. (2014). Diakonia Studies: Critical Issues in Ministry. Oxford: Oxford University Press.

COMISSÃO Teológica Internacional. (2002). Da Diaconia de Cristo à Diaconia dos Apóstolos.

GUIJARRO, S. (2017). La Aportación del Análisis Contextual a la Exégesis de los Textos Bíblicos. Cuestiones Teológicas, 44 (102), 283-300.

KING, N. (2019). Ministry in the New Testament. New Blackfriars, 100 (1086), 155-164.

MĂCELARU, M.V. (2011). Discipleship in the Old Testament and Its Context: A Phenomenological Approach. Pleroma, 13 (2), 11-22.

P. José Joaquim L. Pedro, mccj

Libro: Noi siamo missione

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“La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei Figli di Dio” (Rom. 8,19)

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Carissime e carissimi nel nome del nostro Signore Gesù, vi salutiamo cordialmente!

Come ben ricorderete, due anni fa circa, è stato pubblicato il primo volume, dal titolo: “Siate il cambiamento che volete vedere nel mondo”, dove erano state raccolte soprattutto le idee, che ci animano e guidano in modo particolare all’interno dei percorsi inerenti alla GPIC. Questi percorsi, a loro volta, sono stati resi possibili anche dall’incontro tra i Fori Sociali Mondiali (FSM) e i Fori organizzati come Famiglia Comboniana in concomitanza ai FSM. Nei 150 anni di Storia e di Vita, i nostri Istituti si sono arricchiti di una grande esperienza ministeriale grazie soprattutto alla dedizione di moltissimi e moltissime missionarie che hanno interpretato con creatività e passione apostolica la specificità del nostro Carisma.

Questo secondo volume dal titolo: “Noi siamo missione: testimoni di ministerialità sociale nella famiglia comboniana”, presenta una gamma significativa di esperienze ministeriali concrete. Il nostro desiderio è che la condivisione di queste esperienze, scelte tra tante altre, prima di tutto ci aiuti a valorizzare quello che già facciamo, grazie al Dono dello Spirito Santo e alle nostre risposte personali e comunitarie. Inoltre, questa pluralità di esperienze condivise ci aiuta ad apprezzare le diverse azioni ministeriali comboniane che si completano e si arricchiscono a vicenda, rivelandoci la ricchezza del Carisma in una crescente dinamicità.

Chiediamo ai nostri Superiori Provinciali, di prendersi cura nel distribuire a tutte le comunità le copie stampate e anche la copia digitale in quattro lingue di questo secondo volume, perché tutte e tutti possano godere del lavoro fatto insieme e in collaborazione di oltre 40 confratelli e consorelle Comboniani.

Ringraziamo i membri della Commissione Ministerialità Sociale della Famiglia Comboniana che hanno lavorato con passione e competenza alla cura di questo secondo volume e alla mappatura delle nostre presenze comboniane di ministerialità sociale sparse nel mondo. A dicembre 2020, Covid-19 permettendo, si realizzerà il Forum sulla Ministerialità Sociale a Roma.

Queste iniziative e attività sono parte di un grande cammino di sinergia e collaborazione dei membri della Commissione e di tanti confratelli e consorelle, che, sicuramente porterà entusiasmo e apertura al nuovo a cui il Signore sta guidandoci. Tutto questo richiede, comunque, da parte di tutta la Famiglia Comboniana una grande apertura di cuore, mente, creatività e impegno che affidiamo all’ intercessione del nostro grande fondatore San Daniele Comboni.

Maria, Donna del Vangelo insegnaci ad annunciare tuo Figlio Gesù nel nostro impegno ministeriale!

Sr. Luigia Coccia, smc                        P. Tesfaye Tadesse, mccj

Potete scaricare il libro seguendo questo link