Laici Missionari Comboniani

Vivere il presente con passione

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P. Fernando Domingues

Le riflessioni che seguono vogliono essere semplici commenti al secondo obiettivo proposto da Papa Francesco nella sua Lettera Apostolica a tutti i religiosi in occasione dell’Anno della Vita Consacrata dello scorso novembre 2014, allo scopo di aiutarci a vivere come missionari comboniani il nostro tempo. “La passione per un ideale, nel nostro caso, la missione, è legata all’entusiasmo. La passione non si conquista una volta per sempre. È come una pianta che dobbiamo curare e nutrire ogni giorno. Per questo è necessario trarre profitto da iniziative come quella che ci propone il Papa nell’Anno della Vita Consacrata, per rivedere come stiamo vivendo la nostra consacrazione e qual è il nostro legame con il Vangelo, con l’Istituto e con la missione”, scrive P. Rogelio Bustos Juárez, mccj.

VIVERE IL PRESENTE CON PASSIONE

“Il passato che è memoria e il futuro che è immaginazione li evochiamo dal presente”.
(Sant’Agostino)

  1. La sequela di Cristo, come riferimento primario

Quando si parla di nascita dei carismi, la storia della vita religiosa ci insegna che la prima cosa da cui sono partiti i fondatori e le fondatrici è stato il Vangelo. Dalla lettura attenta della Buona Novella hanno conosciuto Gesù Cristo, hanno ricevuto la Parola e hanno scoperto come potevano seguirlo. Alcuni hanno posto attenzione al Gesù taumaturgo che curava gli infermi, altri al Gesù Maestro che, con autorità, insegnava cose nuove; noi siamo stati colpiti dal Gesù itinerante che deve annunciare il Vangelo a tutti i popoli, poiché per questo è stato inviato.

Sono nate da lì le regole o costituzioni come base teorica per rendere viva l’intuizione carismatica. Nelle Regole del 1971, il nostro Fondatore diceva: Di certo uno spirito umile che ami sinceramente la sua vocazione e voglia essere generoso con il suo Dio, le osserverà di cuore considerandole come il cammino tracciato dalla Provvidenza, ma è importante dire chiaramente che le Costituzioni, la Regola di Vita e le tradizioni di qualsiasi Istituto conserveranno il loro vigore solo se e quando continueranno ad ispirarsi ai valori evangelici.

Per questo il Papa scrive: “La domanda che siamo chiamati a rivolgerci in questo Anno è se e come ci lasciamo interpellare dal Vangelo; se esso è davvero il ‘vademecum’ per la vita di ogni giorno e per le scelte che siamo chiamati ad operare. Esso è esigente e domanda di essere vissuto con radicalità e sincerità. Non basta leggerlo (anche se lettura e studio rimangono di estrema importanza), non basta meditarlo (e lo facciamo con gioia ogni giorno). Gesù ci chiede di metterlo in pratica, di vivere le sue parole.

Non sono sicuro se, dopo aver concluso la nostra formazione di base, tutti abbiamo preso sul serio la nostra formazione permanente. Oggi si parla di società liquida e amore liquido (cfr. Z. Bauman) per alludere a quella rapidità con cui stanno cambiando il mondo, la società, la Chiesa e la vita religiosa.

Il Vangelo è la fonte che, con il suo dinamismo e la sua attualità, può indicarci sentieri sui quali indirizzare i nostri passi. In proposito, uno strumento utile può essere il terzo capitolo della Evangelii gaudium (n. 111-173) nella quale Papa Francesco ci invita a rivedere il modo in cui ci avviciniamo alla Parola e la annunciamo.

Ma non basta essere esperti di teologia biblica o buoni pastoralisti se non siamo capaci di mettere in pratica quello che annunciamo. Siamo invitati a rivedere il posto che la Parola occupa nella nostra vita; se essa è veramente quella guida sicura alla quale ricorriamo quotidianamente e che a poco a poco ci fa assomigliare al Maestro.

  1. Conformare la nostra vita al modello del Figlio
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P Manuel Pinheiro. Peru

Se è Gesù Cristo che seguiamo, ci sarà di aiuto riflettere sulla seconda parte del nostro nome, “del Cuore di Gesù”, perché ci permetterà di approfondire la nostra identità. Quando nel 1885, attraverso Mons. Sogaro, la Santa Sede ci concesse di diventare Congregazione religiosa, fummo chiamati: Figli del Sacro Cuore di Gesù. Nel 1979 si giunse alla riunificazione e rinascemmo con il nome di Missionari Comboniani del Cuore di Gesù. È interessante il fatto che si mantenga il riferimento al Cuore di Gesù.

Papa Francesco nella sua lettera sostiene che se il Signore è il nostro primo e unico amore, potremo imparare da lui che cos’è l’amore e sapremo come amare perché avremo il suo stesso cuore, cioè ci identificheremo con Lui. È quanto hanno meditato e condiviso con noi alcuni Padri della Chiesa.

Sant’Ireneo di Lione, ad esempio, parla di “Gesù Cristo che, per la sovrabbondanza del suo amore, è diventato ciò che siamo noi per fare di noi ciò che Lui è” (Contro le eresie, Prefazione del libro V).

San Gregorio Nazianzeno sviluppa un altro aspetto: “Nella mia condizione terrena, sono legato alla vita di quaggiù, ma essendo anche una particella divina, porto in me questo desiderio della vita futura”.

L’uomo non è solo ordinato moralmente, regolato da un decreto sul divino, ma è del ghenos, della stirpe divina, come dice san Paolo, è “stirpe di Dio” (At 17,29).

Sant’Atanasio, nel Trattato sull’incarnazione del Verbo, sostiene che il Logos divino si è fatto carne, diventando come noi, per la nostra salvezza. E, con una frase giustamente divenuta celebre, scrive che il Verbo di Dio “si è fatto uomo perché noi arrivassimo ad essere Dio; si è reso visibile corporalmente perché avessimo un’idea del Padre invisibile, e sopportò la violenza degli uomini perché ereditassimo l’incorruttibilità” (54,3).

Il nostro Fondatore, san Daniele Comboni, facendo sua la spiritualità del suo tempo, seppe rispondere alle sfide della missione ispirandosi alla spiritualità del Sacro Cuore, ampliandone il significato, dandole un’impronta più sociale e missionaria.

Riassumendo, se quelli che hanno approvato il nostro nome hanno giudicato opportuno e necessario includervi il riferimento al Cuore di Gesù, è dunque necessario che ci identifichiamo sempre di più con i suoi sentimenti e li traduciamo in atteggiamenti. Seguiamo Gesù non in qualsiasi modo, ma sforzandoci di essere “cordiali” nel nostro modo di fare, di essere riflesso ed espressione dei sentimenti del Figlio di Dio. Tutto questo ha delle conseguenze nella vita personale e comunitaria. Al punto di farci diventare parabola esistenziale, segno della presenza di Dio stesso nel mondo (cfr. Vita Consecrata n. 22).

3. Fedeli alla missione affidataci

Il terzo punto ci invita a rivedere la nostra fedeltà al mandato che abbiamo ricevuto dai nostri fondatori. Un’intuizione carismatica è, allo stesso tempo, dono e responsabilità. Dono, perché non abbiamo fatto nulla per riceverlo tramite la persona e il lavoro dei nostri fondatori, che però è stato riconosciuto dalla Chiesa, per cui abbiamo la responsabilità di non travisarlo né alterarlo, ma di essere i continuatori di questo regalo che è stato posto nelle nostre mani.

E qui si potranno avere due letture: o aggrapparci al pensiero e all’opera del nostro Padre e Fondatore pretendendo, per fedeltà carismatica, di riprodurre sine glossa quello che lui ha fatto oppure agire in modo tale che tutto quello che facciamo non assomigli affatto a quanto suggerito o proposto dai nostri fondatori e ci muoviamo in totale libertà, interpretando le nuove sfide a nostro piacimento e scarabocchiando l’eredità che abbiamo ricevuto 150 anni fa.

Credo sia bene evitare questi due estremi. È necessario infatti raccogliere la fiaccola dalle mani di quanti ci hanno preceduto conservando la lucidità per scoprire come dobbiamo rispondere alle sfide del presente senza indebolire l’originalità carismatica. È stato questo, mi sembra, l’obiettivo della Ratio missionis e del lavoro di riqualificazione dei nostri impegni su cui l’Istituto ha insistito negli ultimi anni.

Papa Francesco ci esorta a domandarci, in questo Anno della Vita Consacrata, se i nostri ministeri, le nostre opere e presenze rispondono a quelli che lo Spirito Santo ha chiesto ai nostri fondatori. In poche parole, ci invita a vivere in un’attitudine di discernimento costante per non sbagliare e per essere così riflesso ed espressione di quel carisma ecclesiale che abbiamo ricevuto.

4. Diventare esperti di comunione

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P Gino Pastore. Moçambique

Stando così le cose e considerando il valore che ha per noi la vita fraterna, sarebbe opportuno che ci interrogassimo sulla qualità della nostra vita in comune. In proposito, il nostro Fondatore è stato molto chiaro nel descrivere le caratteristiche del suo Istituto: “Questo Istituto perciò diventa come un piccolo Cenacolo di Apostoli per l’Africa, un punto luminoso che manda fino al centro della Nigrizia altrettanti raggi quanto sono i zelanti e virtuosi Missionari che escono dal suo seno: e questi raggi che splendono insieme e riscaldano, necessariamente rivelano la natura del Centro da cui emanano” (Scritti 2648).

È interessante l’immagine che san Daniele utilizza: “cenacolo di apostoli”. Il cenacolo è la stanza del piano superiore, dove il Maestro affidò ai suoi discepoli ciò che portava nel cuore alla vigilia del più alto gesto di donazione. Lo stare insieme è quella realtà che ci trascende e ci avvicina a Dio quando viviamo in comunione con i fratelli. È anche spazio d’intimità, dove possiamo aprire il nostro cuore ai compagni di cammino e mostrarci così come siamo. Lì dove condividiamo ciò che siamo, scoprendo i nostri doni e limiti e quelli di quanti vivono con noi. Teologicamente, la Trinità è il nostro modello: tre persone distinte ma un solo Dio. Vivere assieme ci aiuta a condividere i nostri doni e ad accogliere la ricchezza di quanti vivono accanto a noi. Siamo diversi, ma coltiviamo e promuoviamo l’unità, attraverso il rispetto e la tolleranza. In un istituto internazionale come il nostro, la sfida è maggiore ma non impossibile.

Nell’immagine utilizzata si fa riferimento anche all’apostolicità. Da questo “cenacolo di apostoli” usciranno come “raggi” missionari solleciti e virtuosi per illuminare situazioni di oscurità: il Papa parla di scontro, di difficile convivenza fra culture diverse, di sopraffazione sui più deboli, di disuguaglianza e potremmo continuare con un elenco di situazioni che conosciamo e che ci siamo trovati davanti nel nostro servizio nelle diverse parti del mondo, dove lavoriamo. A tutte queste, siamo chiamati a portare una parola di speranza e d’incoraggiamento, illuminando le oscurità e condividendo un’esperienza di fraternità, frutto della comunione che abbiamo sperimentato. E non baseremo la forza e l’efficacia della nostra vocazione missionaria sulle risorse materiali che potremmo portare alla missione, ma sulla disponibilità a condividere l’esperienza autentica di Dio che abbiamo e sulla dose di umanità che possiamo trasmettere. La qualità della vita missionaria dipenderà dal tempo che siamo disposti a dedicare alle persone emarginate dalla società. Il nostro posto, come missionari – e questo ce lo riconoscono la maggior parte delle Chiese locali – è là dove ci sono tensioni e differenze, dove ci sono situazioni che sono contrarie alla condizione umana. È lì che dobbiamo portare la presenza dello Spirito, cercando di dare testimonianza di unità (Gv 17,21), come ci ricorda il Papa.

Tutto questo si traduce in uno stile proprio che deve essere di ascolto, di dialogo e di collaborazione con le persone con cui veniamo a contatto. Potremo anche essere persone dinamiche e capaci, ma se non sapremo lavorare in gruppo, difficilmente daremo testimonianza dell’amore trinitario sul quale si fonda la vita comunitaria. Le differenze non devono impedirci di dare testimonianza di unità davanti alla Chiesa e al mondo.

5. Appassionati al Regno

Un’ultima considerazione: seguire Gesù, desiderare di assomigliare al suo cuore, rimanere innamorati della missione ed essere costruttori – e non meri consumatori – di comunità, sarà possibile nella misura in cui manterremo sempre viva la passione per il Regno. Se guardiamo bene, molti di noi dimostrano una certa dose di irresponsabilità per il modo in cui amministriamo il tempo e i beni che arrivano nelle nostre mani. Se perdiamo il contatto con le persone, sarà difficile immaginare le mancanze che vive la maggior parte della nostra gente. Nella Lettera, citando Giovanni Paolo II, Papa Francesco afferma: “La stessa generosità e abnegazione che spinsero i Fondatori devono muovere voi, loro figli spirituali, a mantenere vivi i carismi che, con la stessa forza dello Spirito che li ha suscitati, continuano ad arricchirsi e ad adattarsi, senza perdere il loro carattere genuino, per porsi al servizio della Chiesa e portare a pienezza l’instaurazione del suo Regno”.

Perché alcuni dei nostri candidati perdono l’entusiasmo iniziale quando poi fanno parte dell’Istituto? Perché per molti di noi è così facile smettere di essere comboniani, quando compaiono difficoltà o disaccordi? Perché ci è sempre più difficile obbedire e rispondere alle sfide che ci si presentano? Perché è diminuita la nostra passione per il Vangelo e per tutto quello che riguarda la missione? Perché tanti vivono da pensionati prima del tempo? Non sarà forse perché abbiamo trascurato alcuni riferimenti fondamentali legati alla nostra identità, per cui usciamo di strada e perdiamo la rotta?

La passione per un ideale, nel nostro caso, la missione, è legata all’entusiasmo. La passione non si conquista una volta per sempre. È come una pianta che dobbiamo curare e nutrire ogni giorno. Per questo è necessario trarre profitto da iniziative come quella che ci propone il Papa nell’Anno della Vita Consacrata, per rivedere come stiamo vivendo la nostra consacrazione e qual è il nostro legame con il Vangelo, con l’Istituto e con la missione.
P. Rogelio Bustos Juárez, mccj

 

“Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa”.

Brasil Questa terra si chiama Pau BrasilIrajà, Comboios, Caeiras, Olho d’ Agua, villaggi indigeni situati nello stato dell’ Espirito Santo.
Ho trascorso 9 giorni passati da un villaggio all’altro, dormendo nelle famiglie, di casa in casa, celebrando insieme la settimana santa, celebrando insieme la Vita e la sua vittoria contro la morte.
Sono stati giorni intensi, veloci, importanti, belli, carichi di amicizia e di condivisione, noi piccola equipe della famiglia Comboniana (padri, suore, laici, escolasticos) e il popolo indigeno Tupinikim, popolo di questa terra santa. Semplicità, umiltà, condivisione, accoglienza sono le parole che predominano rivivendo quei giorni. La disponibilità e l’affetto delle famiglie incontrate, visitate, vissute, non fa che crescere dentro me la bellezza di quei valori veri e sinceri che valorizzano l’incontro con l’Altro e la sacralità del saper accogliere l’Altro. Il popolo Tupinikim, come tutti i popoli indigeni, è un popolo che ha lottato per far si che la propria terra fosse riconosciuta, fosse rispettata e curata da quegli abitanti che da secoli, ancor prima della colonizzazione portoghese, ci abitavano. Terra indigena, terra santa. Una lotta iniziata dal 1979 fino al 1981 per riconquistare un territorio sempre più ingoiato e sfruttato da una multinazionale straniera, appoggiata da un potere politico ed economico lobbistico. Tanti i tentativi da parte della polizia con armi in spalla, tante le minacce, le violenze, per scacciare le occupazioni dei Tupinikim. Tanti i processi, la ricerca di carte e documenti per dimostrare che era terra indigena e finalmente,  nel 1993, la demarcazione della terra, il riconoscimento che è territorio indigeno protetto, con le sue Comunità e i suoi villaggi (aldeias). Lotta per la Vita, lotta per i diritti, per il rispetto di una cultura che si sta perdendo e che sta resistendo ad una omologazione sempre più dominante, quella che ci vedi tutti come merci e consumatori.
Le minacce sono finite, la legge ha finalmente scritto su carta una verità sempre esistita, ora è il tempo di recuperare un territorio sfruttato da una fabbrica (straniera) che ha piantato eucalipti in ogni luogo, per interessi di mercato, per la fabbricazione di cellulosa, carbone e pellets. Il problema di questi alberi è che crescono molto velocemente, tolgono spazio alla flora autoctona e danneggiano il suolo. Questi alberi, belli a vedersi, gradevoli per la salute, in realtà, prosciugano il terreno, “bevono” molta acqua, impoveriscono la terra e la rendono “sterile”, difficile da coltivare.
Quando il clima, poi, fa la sua parte, con periodi di siccità, tutto diventa difficile e complicato, soprattutto per chi vive dell’aiuto della terra.
Ricominciare, curare la terra e i suoi frutti, attraverso una tradizione indigena che ha sempre rispettato PachaMama, sempre si è presa cura di lei, vivendo nell’essenzialità e questo lo si sente molto in alcuni villaggi ed è una bella lezione di vita.
In questa terra siamo stati accolti, ci siamo sentiti a casa, perché ci hanno fatto sentire a casa, non c’è cosa più bella per un viandante, per uno straniero, per chi viene da fuori, l’essere accolto e preso per mano.

Famiglia Comboniana: padre Elias, padre Savio, sr. Giusy, Emma, Wedipo, Cosmas, Fidel, Grimer (escolasticos)

Emma Chiolini (LMC italiana in Brasile)

Convegno in occasione dei 150 anni del “Piano per la rigenerazione per l’africa”

congreso RomaAFRICA, CONTINENTE IN CAMMINO.

Cari amici, partecipando al Convegno del 13-14-15 Marzo 2015, “Africa in cammino” organizzato in occasione dei 150 anni del “Piano per la rigenerazione dell’Africa” del nostro fondatore S. Daniele Comboni, vi offro come riflessione la sintesi conclusiva di Fulvio del Giorgi, che coglie la sostanza dei lavori di questi tre giorni, vissuti intensamente e gioiosamente nello scambio e nell’incontro di tutta la famiglia comboniana.

Il Convegno ha visto la sua conclusione con la celebrazione eucaristica, celebrata da S.E.R. Card. Fernando Filoni.

Ringraziamo la madre generale Luzia Premoli che ha aperto i lavori donandoci il benvenuto ed esponendoci il programma di questi giorni e ringraziamo anche il padre generale Enrique Sanchez González che ha chiuso i lavori con un invito a sviluppare nella nostra vita e nella nostra missione le riflessioni che sono emerse nel convegno. “Abbiamo fatto un cammino insieme come un’opportunità per ricevere un’aria nuova, fresca, un’aria che riconosciamo che stà cambiando l’umanità e non possiamo negarlo. Ora partendo con questa sensibilità nuova – dice p. Enrique- il sogno del Comboni si rivela bello, attuale e una grande sfida.

Ricordiamoci che l’Africa non ha bisogno di benefattori, perché è capace e sempre più consapevole di se stessa e i nostri missionari se ne rendono conto sul campo.

Non è accidentale che i nostri istituti si stanno rinvigorendo attraverso tanti fratelli che vengono dall’Africa e questo dimostra quanto è veritiero il “Piano” del Comboni. L’Africa deve diventare protagonista della sua storia.

congreso RomaIl dono ricevuto da Comboni è un dono, non tanto per lui ma per tutti quelli che dopo di lui ne vivono la forza dello Spirito in esso contenuto.

Perché l’Africa ha qualcosa che nessuno ha. Ha una vita propria, è un dono particolare, prezioso per tutta l’umanità. Non si può spiegare, deve essere vissuto; è un’esperienza d’amore. Quindi auguro a tutti di continuare questo cammino, di continuare questa esperienza d’amore con una nuova freschezza per una nuova giovinezza africana”.

Vi lascio dunque questa bella sintesi sui temi del Convegno curata da Fulvio De Giorgi e che ho portata a casa per condividerla con voi! Un saluto e buona missione a tutti.

Rosanna Braglia, LMC Italia

 

 

congreso Roma“Vedendo tutto questo, se Daniele Comboni, fosse qui avrebbe il cuore pieno di consolazione e gioia, vedere l’Africa cosi cresciuta. Vedere i figli e le figlie dei suoi istituti coinvolti in questo grande progetto.

Vedere il suo sogno, in parte compiuto con tanti frutti, anche e soprattutto nel laicato delle donne e in parte, pista per le intuizioni ancora da seguire nel futuro.

Questo il principale frutto del nostro convegno che continua a chiamarci ad una svolta. E’ fondamentale dirlo, che tutti hanno sottolineato, è che non ci deve mai più essere: uno sguardo negativo, catastrofico e triste, sull’Africa.

Papa Francesco ci ricorda che “Può essere missionario solo chi cerca la felicità del prossimo!”.

Partendo dal pensiero del Comboni che diceva “E’ il Sacro Cuore di Gesù che mi fa sormontare tutte le enormi difficoltà per realizzare il mio ‘Piano di rigenerazione della nigrizia con la nigrizia stessa!’.

Le parole chiave, sono due: “PIANO” e “CUORE”.

Prima parola “PIANO”. Cos’è un Piano? E’ un progetto che mette alla prova le capacità critiche di ciascuno e che impegna le volontà sorrette da una grande speranza.

Sono chiamati tutti da ogni continente a decolonizzare la nostra speranza, i nostri disegni, piani, sguardi, affidandoli ad una speranza che è più grande di noi e che ci sorregge nelle fatiche.

La decolonizzazione dello sguardo, rende limpido il nostro occhio e ci fa vedere un’Africa che continua a crescere, alla quale l’Europa può essere patners dei fattori positivi. Un giovane Rinascimento africano in atto.

L’Europa può cooperare, camminando insieme in amicizia.

L’Africa degli africani ci ha detto che vuole vivere in pienezza la sua vita, accanto a tutti i popoli.

Dunque decolonizzando lo sguardo e superando stereotipi, la diaspora e l’emigrazione trans-continentale in tutte le direzioni sono una risorsa, nonostante sia causata da squilibri interni al Paese a causa di grandi sofferenze.

Ma è importante non fissarle per sempre in un orizzonte negativo di morte, ma liberarle e rigenerarle come occasione, come chance per un mondo più plurale e più bello.

Ecco ‘più bello’, le mostre fotografiche esposte qui, le sculture, il films, la musica offerta in questo convegno, ci fanno constatare l’insieme di grande bellezza e di creatività estetica che ci viene dalla nuova arte, dalla nuova cinematografia. E la nostra speranza vede cosi meglio la tramatura positiva che si ricostruisce in un progetto, e in un piano che cresce intorno a noi.

“Piano”, richiama ancora l’appianare; cioè colmare le valli e abbassare i monti, mettere tutti sullo stesso “Piano”.

E qui il discorso richiama quello di Matteo, quello di Gesù sulla montagna; Luca chiama il discorso del ‘piano’ della pianura e Luca dice anche “Guai a voi ricchi…”.

Se siamo sullo stesso ‘piano’ ci guardiamo direttamente negli occhi, cosi le ingiustizia, le disuguaglianze, diventano intollerabili. “Rovesciare i potenti dai troni e innalzare gli umili” è la dinamica del MAGNIFICAT.

Capiamo cosi come ci ha detto Samia Nkrumah (ministro nel suo Paese) che è giusto che gli africani possono controllare la loro economia a beneficio degli africani stessi e che ritrovano la via del Pan-africanesimo.

Appianare, significa colmare le valli o i baratri della corruzione delle liste di governo.

Riconoscere che il cammino della democrazia africana deve essere autonomo e nuovo e non nelle forme europee; certo sarà un cammino che presenta luce e ombre, di governi corrotti e dittatoriali che neanche un fallimento delle leadership africane, deve rallentare la coscientizzazione dei cittadini, per migliorare le dirigenze politiche che siano disinteressate per formare agenti di “trasformazione sociale” come diceva Efrem Tresoldi (Nigrizia), citando Pierli.

“Appianare” significa abbattere le montagne delle inimicizie e degli odi, delle guerre interne e montagne di armamenti come ci ha mostrato Maurizio Simoncelli (Archivio Disarmo); “cercando sempre la via appianata della pace e della stabilità” come ha osservato Alfredo Mantica (interventi dell’Italia in Africa).

E allora le Afriche al plurale, verso le quali continua il nostro cammino, sono l’ Africa della giustizia, l’ Africa della Pace, l’ Africa della salvaguardia del creato, l’ Africa dei diritti.

Ma “Piano” ci dice pure che è meglio andare ‘piano’. Chi conosce le lettere che scriveva Comboni ai suoi missionari, diceva che “Si, molti missionari hanno fretta, ma voi andate piano!”.

Elogio alla ‘lentezza’, se vuol dire “paziente perseveranza, ascolto e discernimento, camminare insieme senza lasciare indietro nessuno”. Significa dunque un piano ecclesiologico inclusivo e partecipativo e dal profilo femminile, come ha detto suor Luzia Premoli (generale comboniane) e suor Elisa Kidanè (ComboniFem), che si realizza nelle comunità di base, come ci ha detto il cardinale Peter Turkson.

Da più parti si è fatto notare l’importanza delle conoscenze storiche per superare le ferite delle discriminazioni passate e delle guerre civili più o meno recenti.

Tutti i Paesi e i Continenti le hanno vissute, ma tutti dobbiamo dirci che per andare avanti occorre parlarsi e cercare insieme una purificazione della memoria e una storia se non condivisa, almeno inclusiva da diversi punti di vista.

Ci vuole pazienza, ricerca non semplificazione sbrigative e sommarie.

Pazienza = andare piano. Anche come Chiesa che riconcilia e che vive come famiglia di Dio, abbiamo il compito di interrogarci sulla storia della salvezza che si dipana nell’oggi di Dio e sulle responsabilità alle quali siamo chiamati.

La seconda parola è “CUORE”. IL Cuore di Cristo. Il cuore ha due fondamentali movimenti di sistole e diastole.

Nel Cuore di Cristo questi due movimenti sono l’incarnazionismo e l’escatologismo.

Da una parte l’incarnazione. Il Vangelo entra e si fa carne in tutte le culture di oggi per farle fiorire alla liberazione e alla salvezza.

Un Vangelo che entra, assume su di se, si incultura, si incarna oggi nelle complessità culturali, nel pluralismo delle identità in evoluzione, nei confini intellettuali ed esistenziali, nelle culture scartate, nei crescenti meticciati culturali. Oggi il Vangelo ha un volto meticcio.

Questa incarnazione allora sa scoprire, accogliere e valorizzare, come ci ha detto (il teologo) Martin N’Kafu, tutti i segni del tempo, ovunque siano. Solo cosi, si avrà una teologia africana, non perché rielaborata in Africa, ma perché sa accogliere e far fiorire tutti i semi del Verbo sparsi nelle culture, religioni africane, senza escludere nessun tessuto culturale, geografico e umano.

Questa incarnazione come ci ha detto Cécile Kyengue (parlamentare europea), cerca il primato della vita e perciò si oppone e lotta contro il traffico degli esseri umani e contro la nuova schiavitù; cioè contro gli orizzonti di violenza e di morte in cui è Cristo stesso incarnato nei piccoli, che viene violentato e ucciso.

In questa inculturazione col passo dell’incarnazione, un grande ruolo e una grande responsabilità è affidato alla comunicazione, ai media, e al giornalismo. P. Giulio Albanese e Fabrizio Colombo hanno sottolineato questo aspetto, insieme agli ospiti della tavola rotonda.

Quindi una crescita in positivo della comunicazione dell’Africa nell’integrazione digitale e cartacea, corre sul filo della rete, ma sempre rendendo visibile e trasparente il positivo che cresce in lei, come “LA PERLA”, definita da suor Elisa Kidanè, nel rispetto profondo della persona.

Non si tratta come dice suor Elisa di dare voce a chi non ne ha, ma si tratta forse, di non darne ulteriore voce a chi ne ha troppa.

E perciò continuare a decolonizzare lo sguardo anche nella stampa missionaria comboniana.

Ma accanto al movimento dell’incarnazionismo, il Cuore di Cristo ha il movimento dell’escatologismo, cioè la capacità di staccarsi da ogni ingiustizia, da ogni idolo, da ogni orizzonte intra-mondano, tutti i cristiani di ogni continente, siamo tutti extra-comunitari in questo mondo. “Siamo nel mondo, ma non siamo del mondo”.

Françoise Kankindi ha detto “Mi sento a casa in tanti posti”. Ciò è bello ma possiamo dire di più. “Il Regno di cui siamo cittadini, la nostra vera patria, non è di questo mondo”.

Termino con un’affermazione del 12° secolo, diceva un grande mistico, Ugo da S. Vittore “Colui che trova dolce la sua patria, non è che un tenero principiante. Colui, per il quale ogni terra è la propria, è già una persona forte”.

“Ma solo è perfetto colui, per il quale tutto il mondo, non è che un Paese straniero”, io ho preso questa frase da un autore bulgaro vissuto in Francia, il quale l’ha preso in prestito da Eduard Said palestinese vissuto negli Stati Uniti, il quale l’ha preso a sua volta da un autore tedesco esule in Turchia! “

Fulvio De Giorgi

 

 

Incontro dei Consigli Generali della Famiglia Comboniana

Consejos FamiliaComboniana

Sabato 24 gennaio 2015 i Consigli Generali della Famiglia comboniana si sono riuniti a Roma, nella casa della Curia Generalizia.

La mattinata è stata dedicata alla riflessione sulle sfide che ogni ramo della Famiglia si trova ad affrontare nei vari contesti di presenza e sulla necessità di vivere la missione a partire dai bisogni reali della gente. Abbiamo riflettuto anche sul fatto di essere diminuiti di numero, da qualche anno; d’altronde, una differenziazione dei nostri membri – sempre meno europei e sempre più americani e africani – ci porta a dover prendere in considerazione questa diversità e ad un nuovo stile di missione. Infine, ci siamo soffermati sulla nostra realtà di Famiglia carismatica, sul nostro stile di presenza e soprattutto sul nostro puntare ad essere seme di una Chiesa più comunitaria, nella quale sacerdoti, religiosi, religiose, secolari e laici possano condividere responsabilità e servire la gente in funzione, ciascuno, delle proprie capacità e specificità.

Nel pomeriggio abbiamo avuto l’opportunità di condividere gli eventi più rilevanti del 2014 e di essere aggiornati dalla commissione che prepara l’evento celebrativo del 150° Anniversario del Piano, che si svolgerà a Roma dal 13 al 15 marzo.

La giornata si è conclusa con un momento di preghiera e dandoci appuntamento per la fine dell’anno.

Elementi della spiritualità comboniana

Comboni

Stiamo celebrando i 150 anni del Piano di san Daniele Comboni. Il testo ha avuto più di un’edizione. La nostra riflessione sarà basata sulla IV ed., pubblicata a Verona dalla Tipografia Vescovile di A. Merlo, dal titolo “Piano per la rigenerazione dell’Africa proposto da Don Daniele Comboni missionario apostolico dell’Africa centrale, Superiore degli istituti dei neri in Egitto”.

ELEMENTI DELLA SPIRITUALITÀ COMBONIANA CHE EMERGONO DAL PIANO PER LA RIGENERAZIONE DELLA NIGRIZIA

Introduzione
La prima domanda che ci poniamo è se sia più opportuno chiamare il testo di Comboni piano o progetto. Anche se il termine ebraico che indica questa realtà è costantemente tradotto con progetto, piano o disegno, la questione merita di essere posta. La parola greca tradotta con progetto dà l’idea di movimento. La nozione di “piano”, dunque, indica qualcosa di statico, mentre “progetto” implica dinamicità. Il piano di solito è una fredda elaborazione, senza alcun coinvolgimento soggettivo, senza cuore; il progetto è vissuto dall’interno, con una carica soggettiva forte, ed è questo il caso del testo che san Daniele Comboni ha presentato alla Chiesa. C’è il coinvolgimento del cuore di Comboni nel testo del Piano, per questo è forse più opportuno parlare di “Progetto per la rigenerazione della Nigrizia”. San Daniele visse l’opera della Rigenerazione della Nigrizia dentro di sé (è l’immagine di Potier) prima di giungere alle sue implicazioni pratiche. Nelle righe che seguono continueremo a chiamare il testo di Comboni “Piano”, per rispetto alla memoria del nostro Padre fondatore, ma senza dimenticarne l’aspetto dinamico, quella dinamicità che nasce dalla contemplazione del Cuore di Cristo Buon Pastore, fonte della sua missione.

L’esperienza carismatica in San Pietro, in occasione della canonizzazione di Santa Margherita Maria Alacoque, è stato il momento fondante di questo Piano ma non l’unico, come sottolinea bene il Padre Generale: “Il Piano non è il testo, ma è la vita nascosta nelle parole, nei pensieri, nelle intuizioni, nei sogni e nei desideri che sono stati il motore capace di muovere le mani di Comboni per lasciare traccia di quello che lo Spirito voleva esprimere e che va molto al di là delle idee e delle strategie che diventeranno in qualche modo risposta al grido che sale e importuna le orecchie di Dio per suscitare la sua misericordia” (Il Piano di Comboni, Lettera del Superiore Generale, MCCJ Bulletin 258, gennaio 2014).

Possiamo dire che il Piano scaturisce, da una parte, da una spiritualità “con i piedi per terra”, fatta di studi e di ricerca, e, dall’altra, dall’esperienza dell’amore di Dio fatta da Comboni e che egli traduce in un testo a beneficio dei suoi fratelli e sorelle africani.

Il nostro contributo si divide in cinque punti: 1. Un Piano nato da uno sguardo diverso. 2. Un Piano mosso dall’indignazione. 3. Un Piano da realizzare a più mani. 4. Un Piano con un tocco di… “genere”. 5. Un Piano da pagare con la propria vita.

1. Un Piano nato da uno sguardo diverso

Sennonché il cattolico, avvezzo a giudicare delle cose col lume che gli piove dall’alto, guardò l’Africa non attraverso il miserabile prisma degli umani interessi, ma al puro raggio della sua Fede; e scorse colà una miriade infinita di fratelli appartenenti alla sua stessa famiglia, aventi un comun Padre su in cielo, incurvati e gementi sotto il giogo di Satana in sull’orlo del più orrendo precipizio. Allora, trasportato egli dall’impeto di quella carità accesa con divina vampa sulla pendice del Golgota, ed uscita dal costato del Crocifisso per abbracciare tutta l’umana famiglia, sentì battere più frequenti i palpiti del suo cuore; e una virtù divina parve che lo spingesse a quelle barbare terre, per istringere tra le braccia e dare il bacio di pace e di amore a quegl’infelici suoi fratelli, sovra cui par che ancor pesi tremendo l’anatema di Canaam” (S 2742).

Il paragrafo più denso, che è alla base di tutto e che costituisce il fondamento in assoluto di tutto il resto del testo è il n. 2742: “il cattolico avvezzo a giudicare delle cose col lume che piove dall’alto…”. Comboni è questo cattolico che, a forza di giudicare sempre a partire dalle ispirazioni divine, ha assunto un’abitudine che lo porta a guardare l’Africa non a partire dagli interessi umani e a scoprire fratelli che hanno il suo stesso Padre e ai quali bisogna portare la Buona Novella della Salvezza. Evidentemente per giudicare dall’alto, bisogna rinascere dall’alto (Gv 3); rinascere dall’alto è un dono di Dio ma richiede anche un’ascesi (sforzo). La fonte di questo sguardo diverso sull’africano, considerato un fratello appartenente alla propria famiglia, che Comboni vuole stringere fra le braccia dandogli il bacio di pace e di amore, è la carità accesa dalla divina fiamma sul Golgota, uscita dal costato del Crocifisso. L’esperienza dell’amore del crocifisso è il motore dello slancio missionario che lo spinge verso questa periferia, l’Africa, vista dagli altri sotto il prisma degli interessi umani. L’esperienza della fede, che cambia il suo sguardo sull’africano, l’esperienza della carità divina che lo spinge verso queste “barbare terre” sono dunque fonte della sua fiducia nell’uomo africano che egli associa come protagonista all’opera di rigenerazione dell’Africa, “convertire l’Africa con l’Africa”. Oggi, nelle nostre comunità, nelle nostre missioni, questo sguardo di fede sugli eventi, sulle persone e sull’esperienza dell’amore del Crocifisso, che non è mai separato dall’amore del prossimo, è un elemento importante per la costruzione di una fraternità e confraternità che va al di là del colore della pelle, dell’etnia, della provenienza provinciale, ecc. Il Piano nasce dalla fede che opera attraverso la carità in vista di una liberazione dell’uomo africano: “La nostra Opera è basata sulla fede. È un linguaggio che lo intendono poco anche fra i buoni sulla terra. Ma l’hanno compreso i Santi, che soli noi dobbiamo imitare” (S 6933).

Il Piano ha un centro spirituale, il Cuore di Gesù, e dei centri materiali, gli istituti dove saranno preparati gli evangelizzatori e le evangelizzatrici, in cui possano vivere ed operare sia africani che europei (cfr. S 2764) e che andranno verso il centro dell’Africa.

“Possiamo dire che il Piano scaturisce, da una parte, da una spiritualità ‘con i piedi per terra’, fatta di studi e di ricerca, e, dall’altra, dall’esperienza dell’amore di Dio fatta da Comboni e che egli traduce in un testo a beneficio dei suoi fratelli e sorelle africani”.

2. Un Piano mosso dall’indignazione

Piano ComboniOra la desolante idea di vedere forse per molti secoli sospesa l’opera della Chiesa a vantaggio di tanti milioni di anime gementi ancora nelle tenebre e nelle ombre di morte, dee ferire profondamente e fieramente straziare il cuore d’ogni pio e fedele cattolico infiammato dello spirito della carità di Gesù Cristo. Egli è perciò, che a secondare l’impulso di questa sovraumana virtù, e a dileguare per sempre dal filantropo cattolico il desolante pensiero di abbandonare avvolte nell’infedeltà e nella barbarie quelle vaste e popolate regioni, che sono senza dubbio le più necessitose e le più derelitte del mondo, è d’uopo deviare dal sentiero fino ad ora seguito, mutare l’antico sistema, e creare un nuovo piano che guidi più efficacemente al desiato fine” (S 2752).

Il Piano nasce dall’indignazione provocata in Comboni dallo stato di abbandono in cui si trovava l’Africa dal punto di vista della fede, ma anche dello sviluppo sul piano umano. Comboni è quel cattolico pieno di pietas, infiammato della carità di Gesù Cristo, che si rattrista ed è desolato davanti alla situazione dell’Africa; che s’indigna “ci sarà perdonato, se l’impeto del cuore, dove protestiamo di sentir forte il grido della miserazione, che verso di tutti noi mandano quegl’infelici figliuoli di Adamo e nostri fratelli, spingesse la mente fuor della linea della verità e della certezza” (S 2754). Un’indignazione che lo spinge alla ricerca di un cammino per l’evangelizzazione dell’Africa, senza paura di sbagliare, senza una certezza assoluta; anche se sbaglia, sarà perdonato. La paura di sbagliare paralizza l’azione evangelizzatrice e ci chiude in noi stessi, limitando la nostra audacia di andare in cerca di nuove strade. Preferisco, dice Papa Francesco “una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze” (EG 49).

Dio stesso s’indigna davanti ad ogni forma di non dignità della persona umana: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze” (Es 3,7). È l’indignazione di Gesù davanti alle moltitudini prostrate come pecore senza Pastore. Come ogni vera indignazione, che nasce da una contemplazione, l’indignazione di Comboni non è rimasta sterile, ma lo ha portato alla compassione e all’azione. Un’azione che si caratterizza per l’intima condivisione di vita con l’Africa: “L’Africa e i poveri neri si sono impadroniti del mio cuore, che vive soltanto per loro, particolarmente da quando il Rappresentante di Gesù Cristo, il S. Padre, mi ha incoraggiato a lavorare per l’Africa” (S 941).

Molte delle nostre indignazioni davanti agli orrori del mondo rimangono sterili perché, mentre condanniamo le situazioni di guerra che ci sono nel mondo, allo stesso tempo riproduciamo nelle nostre comunità e nelle nostre missioni gli stessi meccanismi di guerra fra di noi, anche se su scala minore: “All’interno del Popolo di Dio e nelle diverse comunità, quante guerre! La mondanità spirituale porta alcuni cristiani ad essere in guerra con altri cristiani che si frappongono alla loro ricerca di potere, di prestigio, di piacere o di sicurezza economica” (EG 98).

Inoltre, la nostra indignazione rimane sterile quando ci indigniamo davanti alla povertà estrema nella quale si trovano migliaia di nostri contemporanei, ma siamo incapaci di piccoli sacrifici che la missione ci chiede. Pensiamo in questo momento a certi missionari che accettano la destinazione a condizione che, nel posto in cui andranno, ci siano i mezzi tecnologici, come ad es. internet. Quando c’è la passione per la missione e la compassione per le persone, il resto è superfluo.

3. Un Piano da realizzare a più mani

Familia CombonianaL’Opera dev’essere cattolica, non già spagnola o francese o tedesca o italiana. Tutti i cattolici devono aiutare i poveri Neri, perché una nazione sola non riesce a soccorrere la stirpe nera” (S 944).

Nel Piano appare chiaramente questa dimensione della collaborazione. L’appello alla collaborazione per l’opera della rigenerazione dell’Africa deriva dalla consapevolezza che san Daniele Comboni ha del fatto che l’opera è di Dio e non un affare personale, è affare della Chiesa: “Siccome l’opera che ho tra le mani è tutta di Dio, così è con Dio specialmente che va trattato ogni grande e piccolo affare della Missione” (S 3615).

Questa collaborazione si manifesta nel momento della formazione degli evangelizzatori ed evangelizzatrici. Pur valorizzando le ricchezze carismatiche di ogni Istituto religioso nella formazione degli africani e africane, san Daniele Comboni indica ciò che non deve mancare nel cammino formativo. Prima di tutto, lo spirito di Gesù Cristo (cfr. S 2770): si tratta di radicare nel loro cuore (nel cuore dei formandi, uomini e donne) lo spirito di Gesù Cristo.

Che cosa intende Comboni per spirito di Gesù Cristo? Nella vita di Gesù Cristo due sono gli elementi fondamentali: l’esperienza di Dio come Padre (Abba) e l’esperienza del Regno. Radicare lo spirito di Gesù Cristo nel cuore degli evangelizzatori e delle evangelizzatrici vuol dire portarli a fare esperienza di Dio come Padre, cioè aiutarli a fare esperienza del cristianesimo non come un insieme di leggi o di una grande idea, ma come un incontro con la persona di Gesù (cfr. Deus Caritas est, 1); è l’unico modo per sviluppare in essi la libertà dei figli di Dio contro qualsiasi paura di spiriti che paralizzino la crescita umana, spirituale e sociale.

Il secondo elemento è sviluppare negli africani la passione per l’annuncio del Regno di Dio, che è Regno di amore, di pace, di giustizia e di misericordia; l’unico modo per dissipare le dense tenebre che coprivano la vasta distesa dell’Africa Centrale (S 2741).

Un terzo elemento che caratterizza lo spirito di Gesù è l’umiltà: “da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà” (cfr. 2Cor 8,9).

4. Un Piano con un tocco di… “genere”

Il piano quindi, che noi proponiamo è: la creazione di altrettanti Istituti d’ambo i sessi, che dovrebbero circondare tutta l’Africa, giudiziosamente collocati in luoghi opportuni alla minima distanza dalle regioni interne della Nigrizia, sopra terreni sicuri ed alquanto civilizzati, in cui potessero vivere ed operare sì l’europeo, che l’indigeno africano” (S 2764).

La valorizzazione della donna nell’opera dell’evangelizzazione da parte di san Daniele Comboni non è solo un’opzione strategica nel senso che le donne avrebbero resistito di più al clima duro dell’Africa (parlando delle europee) o sarebbero entrate più facilmente in certi ambienti ostili al cristianesimo. La valorizzazione della figura femminile nel suo Piano per la rigenerazione della Nigrizia è un’opzione di vita. È una delle conseguenze di quello sguardo contemplativo sulla realtà: per quelli che sono in Gesù Cristo, non c’è più greco o ebreo, circonciso o incirconciso… donna o uomo, c’è solo Cristo, che è tutto e in tutto (cfr. Col 3,9-11).

Si spiega così anche la devozione di san Daniele per la Madonna. Accanto al titolo “Vergine della Nigrizia”, troviamo, nei suoi Scritti, diversi titoli con cui Comboni si riferisce alla Madre di Dio. Uno dei nostri confratelli ha anche preparato una Litania in base ai titoli utilizzati da Comboni per rivolgersi a Maria.

San Daniele Comboni è in sintonia con il patrimonio della grande tradizione cattolica: lungi da qualsiasi devozionismo, Maria è il cuore della Chiesa. Nella Chiesa, diceva von Balthasar, Maria ha un posto più alto di Pietro e nell’Evangelii gaudium, Papa Francesco dice che Maria è più importante dei vescovi. Bisogna quindi rivalutare questa componente femminile nella Chiesa in equilibrio con quella maschile per non cadere, da una parte, nel maschilismo e nel clericalismo, e, dall’altra, nel femminismo esasperato o semplicemente in certe teorie di genere che tanto male fanno all’umanità. Nella vita di san Daniele questo equilibrio c’è stato, perché accanto alla Vergine Maria, c’è san Giuseppe, suo sposo, e nel carattere di Comboni – potremmo dire – i due elementi s’intrecciano: Comboni è in grado di difendersi con virilità quando è calunniato e di rendere verità ai fatti con parole a volte molto dure ma, allo stesso tempo, è capace di perdonare fino in fondo chi lo accusa falsamente. Alla forza, unisce l’elemento della misericordia, della compassione e della tenerezza, che sono tipicamente femminili. Non è un caso se la Commissione che ha l’incarico di eseguire il Piano si chiama “Società dei SS. Cuori di Gesù e di Maria per la rigenerazione della Nigrizia, sotto il patrocinio della Vergine Immacolata, di san Giuseppe, suo sposo, e dei principi degli Apostoli”.

5. Un Piano da pagare con la propria vita

Comboni y la VirgenSu questa grande idea si è fissato il nostro pensiero; e la rigenerazione dell’Africa coll’Africa stessa ci parve il solo Programma da doversi seguire per compiere sì luminosa conquista. Il perché nella nostra debolezza ci siamo creduti lecito di suggerire sommessamente una via, sulla quale camminando, più probabilmente giungere all’alto scopo, dove d’altronde si appuntarono sempre tutti i pensieri della nostra vita, e pel quale saremmo lieti di versare il nostro sangue fino all’ultima stilla” (S 2753).

Esiste uno stretto rapporto fra il Piano elaborato da san Daniele Comboni e la sua vita concreta. Tutti i suoi pensieri sono rivolti al Piano per il quale sarà disposto a dare il suo sangue fino all’ultima goccia. È l’immagine del Buon Pastore che è venuto perché tutti abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza (cfr. Gv 10,10).

Questa affermazione da parte di Comboni non è retorica. San Daniele, il 10 ottobre 1881, morirà a Khartoum, al vertice di una vita totalmente dedicata all’Africa e agli Africani. Dietro il Piano di Comboni ci sono nomi, cognomi, volti di africani e africane per i quali Comboni dà la propria vita. Possiamo dire che ciò che Papa Francesco afferma a proposito dei pastori della Chiesa è del tutto vero nel caso di san Daniele Comboni: possiamo sentire l’odore degli africani sotto la veste dell’infaticabile missionario dell’Africa. Affinché un Piano pastorale, dunque, affinché un progetto comunitario possa uscire dalla carta ed essere elaborato – ci insegna san Daniele Comboni – bisogna metterci cuore, amore, con la consapevolezza che dietro a quel Piano ci sono migliaia di vite che attendono la loro rigenerazione spirituale e umana allo stesso tempo, bisogna essere disposti a dare il proprio contributo, a dare il proprio sangue per la sua realizzazione. Perché a volte, infatti, i nostri piani pastorali non escono dalla carta? Forse mancano di quel coinvolgimento affettivo ed effettivo con la gente per cui il Piano diventa un pezzo di carta in più, oppure perché non siamo disposti a dare qualche goccia di sangue per la sua realizzazione, energia, tempo.

Conclusione

Alla fine di questa breve riflessione, possiamo dire che per comprendere il Piano, bisogna entrare in profondo dialogo con il suo autore, san Daniele Comboni, con la sua vita e con tutta la sua opera. Bisogna scoprire lo spirito che anima il Piano, al di là delle povere parole che lo traducono, per non perdersi in sterili dibattiti, quali ad es. “figlio di Cam” o altri del genere.

Salvar Africa con Africa

Il Piano traduce la passione di san Daniele per l’Africa, la sua preoccupazione di conquistare la perla nera alla Chiesa di Gesù Cristo. Il Piano è nato da una visione di fede che muove all’indignazione-compassione-azione davanti alla situazione di abbandono nella quale si trovava l’Africa. San Daniele ha capito che l’evangelizzazione dell’Africa non era un affare personale, ma della Chiesa. Ha cercato il confronto e il dialogo con il pontefice, con il prefetto di Propaganda Fide e con personalità legate all’esperienza africana, insomma ha cercato collaborazione coinvolgendo strettamente la figura femminile. Per l’elaborazione e l’esecuzione del Piano, san Daniele Comboni ha dato la sua vita, perché, dietro al Piano, ha capito che c’è una moltitudine di vite, una moltitudine di fratelli e sorelle che attendono il Messaggio della rigenerazione.

Novembre 2014

P. Fidèle Katsan, mccj