Laici Missionari Comboniani

Laicato e Ministerialità

Laicado
Laicado

Laicato e ministerialità

Tenteremo di fare una riflessione sulla ministerialità da una prospettiva laicale, in particolare dal punto di vista della vocazione missionaria comboniana. Prima però di addentrarci in questi ministeri e servizi dal punto di vista della fede, credo sia importante inquadrare l’argomento.

La nostra vita prende una svolta quando facciamo un incontro personale con Gesù di Nazaret. Condividiamo questa società con molti uomini e donne di buona volontà. Ciascuno con principi e valori che orientano le sue azioni e le sue scelte di vita. Ma per noi esiste un “prima di” e un “dopo” aver conosciuto Gesù. Come i primi discepoli, un giorno abbiamo incontrato Gesù sulla nostra strada. Il nostro cuore ha sobbalzato e le nostre labbra hanno chiesto “Dove abiti?”. E la sua risposta è stata “vieni e vedi”. A partire da quel momento la nostra vita è cambiata.

Sono tante le vie attraverso le quali siamo giunti a questo incontro: per molti è stato grazie alle nostre famiglie, alle nostre comunità cristiane, ai nostri amici, a circostanze della vita che ci sono capitate… indubbiamente la casistica è molto vasta. Ma ciò che è realmente determinante, è la risposta data, a partire dalla libertà, e le conseguenze di questa risposta in ciascuna delle nostre vite. La risposta è libera, nessuno ci costringe a darla, è una grazia che abbiamo ricevuto e, di conseguenza, il riconoscimento di una nuova vita.

Il laico è prima di tutto un seguace di Cristo. Non si tratta di seguire un’ideologia né semplicemente di lottare per delle cause giuste che contribuiscano ad una nuova umanità più giusta e dignitosa per tutti, né vuol dire seguire tutti i precetti della religione che possono aiutarci nel nostro rapporto con Dio. Essere cristiani vuol dire innanzitutto seguire Gesù, uscire dalla nostra zona di confort e mettersi in cammino. Prendere il necessario per andare leggeri ed essere sempre aperti e disponibili in questo seguire. Gesù ci mostrerà, lungo questo cammino, qual è la nostra parte di responsabilità nell’annuncio e costruzione del Regno.

Noi diciamo di essere in costante discernimento che non è uno stato di dialogo costante con il Signore. È vero che esistono momenti speciali di discernimento nella vita di ogni persona. Sono quelli che riguardano la sua vocazione principale, come nel caso del matrimonio o della vocazione alla quale ci sentiamo chiamati, come la vocazione missionaria, e anche il genere di professione attraverso la quale vogliamo o sentiamo di poter servire gli altri, scegliendo un certo tipo di studi o un altro, un certo lavoro o un altro. È fondamentale per la vita di ogni persona capire questa chiamata a fare l’infermiere, il medico, l’insegnante, il dirigente d’azienda, l’avvocato, l’educatore, o a lavorare nel campo sociale, o essere un politico, fare l’artigiano, ecc.

Momenti vitali che nella nostra adolescenza, gioventù ed età adulta si presentano in maniera significativa. Ma, al di là di questi momenti, che ci manterranno sul cammino nei momenti difficili, in questo cammino vogliamo rimanere in ascolto. Non vogliamo accomodarci. Nella vita si presentano continuamente nuove sfide e nuove chiamate da parte di Gesù. Per noi, come missionari, avere la valigia pronta è qualcosa che fa parte della nostra vocazione. Siamo chiamati ad accompagnare le persone, le comunità per un determinato periodo, per poi andare via, perché l’andare via è parte essenziale. Uscire o continuare a crescere. Non rimaniamo sempre uguali per anni perché riconosciamo che le necessità cambiano. Siamo chiamati a lasciare la nostra terra e a viaggiare in altri paesi, in altre culture; siamo chiamati a svolgere nuovi servizi, a ritornare nei nostri luoghi di origine, ad assumere nuovi impegni: tutto questo fa parte della nostra vocazione. In ogni chiamata, ad ogni nuovo cambiamento, dobbiamo capire quali sono i piani del Signore per noi. Perché ci chiede di andare in un altro continente o di tornare nel nostro luogo di origine quando stavamo facendo così bene presso quella gente, quando addirittura sembravamo così necessari in quel luogo, la vita ci porta a cambiare posto, a cominciare di nuovo…

Perché quando ci sembrava di essere arrivati in un porto definitivo, c’è qualcosa dentro di noi che ci interroga, ci inquieta? È il Signore che ci parla. Con Lui abbiamo un rapporto di amicizia che ci aiuta a crescere. Come amici condividiamo la vita e i nuovi progetti che la attraversano. Con momenti di maggiore stabilità ma anche con momenti di nuove sfide. Non siamo venuti a riposarci su questa terra ma a far fruttare la vita e a permettere e a lottare affinché anche altri possano goderne.

Noi rispondiamo a questa chiamata non solo in maniera individuale ma anche dall’interno di una comunità. Non camminiamo da soli. Questo è parte della nostra vocazione cristiana, l’appartenenza alla Chiesa, come ci sentiamo parte anche di tutta l’umanità. E come parte di questa Chiesa ci sentiamo chiamati ad un servizio comune. Come Laici Missionari Comboniani (LMC) sentiamo questa appartenenza alla Chiesa di Gesù. E sentiamo che questa vocazione specifica che abbiamo ricevuto è una vocazione e una responsabilità comunitaria. Abbiamo una chiamata personale ma anche una chiamata come comunità e comunità di comunità. Riconosciamo la Chiesa come sacramento universale di salvezza, ciascuno con la propria specificità, doni e carisma per l’annuncio e la costruzione del Regno.

Gesù chiama i suoi discepoli a vivere, a percorrere il cammino in comunità. Sappiamo che solo con l’aiuto di Gesù possiamo camminare e come comunità abbiamo bisogno di quella spiritualità profonda che ci unisce a Gesù, al Padre e allo Spirito. Un cammino dove la preghiera, la vita di fede e la comunità diventano nutrimento e riferimento per la vita del LMC.

La centralità della missione in Comboni. La Chiesa al servizio della missione

Comboni aveva ben chiara la centralità della missione nella sua vocazione e la necessità di questa nella Chiesa. Davanti alle necessità dei nostri fratelli e sorelle più bisognosi siamo chiamati a dare una risposta. E questa risposta è talmente necessaria e complessa che non siamo chiamati a darla individualmente bensì come Chiesa. Tutti e ciascuno di noi cristiani siamo chiamati a rispondere a questa chiamata. Non importa il nostro stato ecclesiale, ciascuno di noi deve dare una risposta di fede. Gesù chiama ciascuno a camminare. Ed è per la complessità delle necessità che esistono che lo Spirito suscita nel mondo e nella sua Chiesa vocazioni diverse, carismi diversi che diano il loro contributo a questa realtà.

Identificare la Chiesa con il clero o anche con i religiosi e le religiose vuol dire non capire Gesù, vuol dire non ascoltare lo Spirito. L’attività e la chiamata al sacerdozio o alla vita religiosa nei suoi numerosi aspetti è fondamentale per il mondo, ma non più dell’impegno di tutti e di ciascuno dei laici. La Chiesa non ha solo una responsabilità legata alla religiosità e spiritualità delle persone. Abbiamo una responsabilità sociale, familiare, ambientale, educativa, sanitaria, ecc. con il mondo intero.

Le cose di ogni giorno sono le cose di Dio. Le piccole cose sono le cose di Dio. L’attenzione ad ogni persona nel concreto e nelle necessità globali sono responsabilità dei seguaci di Gesù. E in tutte queste cose, il ruolo del laicato è fondamentale, dell’uomo e della donna, in campo materiale e spirituale… così lo intese Comboni e così lo intendiamo anche noi.

Comboni

Il laico nel mondo

In questa chiamata globale che abbiamo ricevuto, la Chiesa si presenta come comunità di riferimento. È nutrimento per il servizio. Luogo dove riprendere le forze, dove nutrirsi in maniera privilegiata anche se non unica.

Come laici siamo chiamati a far nascere radici che stabilizzino il terreno e lo arricchiscano, siamo chiamati a creare reti di solidarietà e di relazione che articolino la società, attraverso la famiglia, le piccole comunità di condominio, di quartiere, entità sociali, aziende… siamo grandi creatori di reti di relazione, collaborazione e lavoro. Viviamo coinvolti in tutte queste reti e siamo chiamati ad animarle, a dare loro una spiritualità perché siano al servizio delle persone, soprattutto dei più deboli. Siamo chiamati ad includere tutte le persone. Il nostro sguardo deve concentrarsi sui più poveri e abbandonati di cui parlava Comboni, sugli esclusi da questa società, deve essere uno sguardo che ci spinge a stare nelle periferie perché è dal basso che le cose si vedono in maniera diversa. Non possiamo adattarci ad una società dove non tutti hanno una vita dignitosa. Una società dove si premia l’avere e non l’essere e il consumo che sta devastando un pianeta finito che grida e reclama la nostra responsabilità globale.

Questa visione che deve interrogare la nostra vita ci chiede azioni concrete.

La chiamata del laico è una chiamata al servizio dell’umanità. Una chiamata che per alcuni sarà di servizio interno alla nostra Chiesa. Non possiamo pensare che il buon laico sia colui che aiuta in parrocchia e perdere di vista la nostra vocazione di servizio al mondo. Alcuni servizi interni sono necessari ma la Chiesa è chiamata ad uscire. Ad andare con Gesù sulla strada, ad andare di villaggio in villaggio, di casa in casa, ad aiutare nelle piccole e grandi cose. Siamo chiamati ad essere sale che dà sapore, lievito nella pasta… chiamati a stare nel mondo e a contribuire in maniera significativa. Non possiamo rimanere in casa dove ci troviamo bene, dove ci comprendiamo gli uni con gli altri. Siamo chiamati ad uscire. La Chiesa non nasce per sé stessa ma per essere comunità di credenti che segue Gesù e serve i più bisognosi. Per questo ci sentiamo chiamati ad essere di aiuto nella crescita delle comunità umane (anche quelle cristiane).

Qual è la risposta che stiamo dando a questa chiamata come LMC?

Attualmente c’è un’ampia riflessione in tutta la Chiesa sullo specifico missionario. Su quali sono e dovrebbero essere i nostri servizi in quanto missionari, i nostri ministeri specifici. Ormai si è perduta la referenzialità geografica della missione, il riferimento fra un nord ricco e un sud da sviluppare, dove le disuguaglianze e le difficoltà sono presenti in tutti i paesi, anche se in alcuni continuano a concentrarsi la maggior parte delle ricchezze e delle possibilità mentre in altri le difficoltà sono molto più gravi… Infatti, la miseria è dilagante tra i senzatetto nei cosiddetti paesi ricchi, le migrazioni forzate a causa della povertà, le guerre, le persecuzioni per motivi diversi, i cambiamenti climatici e altri fattori stanno facendo sì che un fenomeno da sempre presente nell’umanità si stia aggravando. La pandemia del COVID-19 ci ricorda la globalità della nostra umanità al di sopra di barriere e frontiere. Ci colpisce tutti e tutte allo stesso modo. Finora il denaro sembrava essere l’unico in grado di viaggiare senza passaporto, ma ora sembra che possa farlo anche il virus.

Solo in un mondo giusto tutti potremo vivere in pace e prosperità. Le disuguaglianze salariali, i conflitti, il consumo scriteriato al punto da sciogliere i ghiacci dei poli e via dicendo finiscono per influire e avere conseguenze su tutta l’umanità. Le barriere e la polizia, che siano alle frontiere o nelle case o nelle zone urbane di chi ha di più, non otterranno un mondo migliore per tutti né per quelli che vi si rifugiano dietro.

Di fronte a tutto ciò, il dibattito e la riflessione sullo specifico del laicato missionario in questa nuova epoca è chiaro. Non avrò la pretesa di entrare nell’argomento in maniera teorica. Vi presenterò semplicemente alcune delle attività in cui siamo presenti come laici per dare una risposa alla chiamata ricevuta.

È questa la nostra ministerialità, il servizio a cui ci sentiamo chiamati. La risposta di vita, non teorica, che stiamo dando. Non mi dilungherò. Indicherò solo alcuni esempi che possano chiarire; tanti altri rimarranno nell’anonimato… non per niente siamo chiamati ad essere pietre nascoste.

Abbiamo amici e amiche che lavorano con i pigmei e con il resto della popolazione nella Repubblica Centrafricana, un paese dove siamo da oltre 25 anni. In mezzo a quanti sono considerati come servi dalla maggioranza della popolazione; facendo da ponte di inclusione o assumendoci la responsabilità di una rete di scuole primarie in un paese che ha attraversato vari colpi di stato ed è da anni in una situazione di guerra che non permette allo stato di fornire questi servizi.

In Perù accompagniamo la gente alla periferia delle grandi città. Negli insediamenti abusivi dove chi viene dalla campagna strappa un pezzo di terra alla città per vivere, senza luce, senza acqua né fognature. Poche famiglie che lottano per una vita dignitosa, che hanno lasciato i loro paesini per la città per poter mangiare e dare una vita migliore ai propri figli. Dove c’è molta solidarietà fra vicini e accoglienza ma anche problemi causati dall’alcol, dalla violenza maschilista e dalla disgregazione di molte famiglie.

In Mozambico collaboriamo nell’educazione dei giovani, maschi e femmine, che andando via dalle loro comunità dell’interno, sperano di potersi formare per risollevare il paese. Hanno bisogno di scuole che diano loro questa formazione professionale e internati che consentano loro di vivere durante il periodo scolastico, dato che le loro case sono molto distanti. Anche accompagnare questi giovani e le comunità cristiane fa parte della nostra chiamata.

Dall’altra parte, siamo presenti in Brasile, nella lotta contro le grandi compagnie estrattiviste che cacciano via le comunità dalle loro terre, avvelenano i fiumi e l’aria, interrompono le comunicazioni o le isolano con i loro treni chilometrici che estraggono i minerali della zona senza preoccuparsi dell’ambiente o del bene delle persone.

Inoltre, in molti paesi europei siamo coinvolti nell’accoglienza agli immigrati. Cerchiamo di restituire quanto abbiamo ricevuto quando anche noi eravamo stranieri. Siamo chiamati a ricevere quanti fuggono dalla miseria e dalle guerre, quanti sono in cerca di un futuro migliore per le loro famiglie e che al loro arrivo si trovano davanti muri non solo di cemento e reti metalliche ma anche di paura e di incomprensione da parte della popolazione. Fare da ponte con una popolazione che continua ad essere ospitale e solidale, presenti nelle organizzazioni sociali ed ecclesiali che si mobilitano per accogliere e integrare i nuovi vicini. Dall’accoglienza sulla spiaggia fino all’aiuto per la lingua, la ricerca di un lavoro, di una casa, per la trafila amministrativa o a riconoscere la ricchezza che ci portano e il valore aggiunto che rappresentano per la nuova società. Valorizzando quello che sono e le loro culture ed essendo dei referenti per queste ultime in un mondo che non sempre le comprende.

Quando la società crolla e l’essere umano è sconfitto non sappiamo cosa fare con queste persone. La reclusione in carcere è la soluzione che abbiamo dato come società. Ma queste carceri molto spesso diventano scuola di delinquenza e non di riabilitazione, come dovrebbero. Fra queste ci sono le APAC che sono nate in Brasile e che a poco a poco si stanno estendendo. Un sistema di reclusione dove la persona che arriva è considerata come uno da recuperare e non un detenuto, che viene chiamata con il suo nome e non con un numero. Protagonista della sua vita, la si aiuta a comprendere il suo errore e la necessità di chiedere perdono e a reinserirsi come membro attivo nella società. Un metodo dove la comunità opera un cambiamento e crea ponti recuperando i suoi figli e le sue figlie che un giorno hanno commesso un errore; dove queste persone da recuperare hanno le chiavi delle porte e man mano assieme agli altri capiscono la dignità di essere figli di Dio, il pentimento e il loro valore come persone per la società.

Il modo in cui si vive nei paesi con maggiori risorse sta esaurendo un pianeta finito. Le relazioni commerciali internazionali stanno impoverendo tanti a beneficio di pochi… promuovere un nuovo stile di vita è fondamentale per cambiare i paradigmi e i valori che si dimostrano come gli unici validi per un esito sociale e per la felicità. In una società in cui il possesso e il consumo prevalgono sull’essere, bisogna proporre nuovi stili di vita. Anche in questo siamo coinvolti in Europa: proponendo nuovi stili di vita, di impegno, di responsabilità nel consumo, nell’economia, ecc.

Potremo così proseguire con attività legate ad un’educazione impegnata con gli esclusi delle periferie delle nostre città, nell’attenzione ai malati mostrando il volto di Dio che li accompagna e la mano di Dio che se ne prende cura, nell’attenzione ai senzatetto, alle persone con dipendenze, ecc.

Come missionari siamo e dobbiamo rendere tutti consapevoli della realtà di un mondo globalizzato che richiede un’azione congiunta, una nuova presa di posizione. Perciò, ogni nostra piccola azione, tutti i nostri granelli di sabbia danno forma a piccole montagne dove salire, vedere e sognare un mondo diverso.

Salire con la gente con cui viviamo tutti i giorni. Chiamati in particolare a quanti vivono sommersi senza possibilità di vedere un orizzonte, di uscire dalle proprie difficoltà, siamo chiamati ad alzare la testa e a guardare avanti, ad animare e accompagnare queste comunità. Siamo chiamati a stare lì dove nessuno vuole andare.

Tutti chiamati a lottare in maniera globale per i problemi che sono globali, ad unirci e ad essere promotori di reti di solidarietà in questa umanità che abita la casa comune, che dimostra ogni giorno di essere più piccola.

E in mezzo, mettere Gesù, la persona che ha cambiato la nostra vita. Dio è un diritto di ogni uomo e di ogni donna. Ci sentiamo responsabili di far conoscere la Buona Novella, di presentare un Dio vivo che sta in mezzo a noi, che cammina con noi, che come ci ha mostrato Gesù di Nazaret non ci abbandona e ci accompagna sempre. Dentro ogni persona, nel più bisognoso, nella comunità, Dio aspetta ciascuno di noi, per trasformare la nostra vita, riempirla di felicità, di una felicità profonda. Dio ci aspetta per darci l’acqua viva, quell’acqua che colma la sete dell’essere umano.

Che il Signore ci dia le forze per poter essere sempre presenti e accompagnare, essere uno strumento che porta le persone ad incontrarlo e ci tenga sempre accanto a lui nel cammino.

LMC

Alberto de la Portilla, LMC

Due notizie sulla Beatificazione di P. Giuseppe Ambrosoli

Giuseppe Ambrosoli
Giuseppe Ambrosoli

PRIMA NOTIZIA

Il 22 novembre in Uganda, la beatificazione di Giuseppe Ambrosoli,
missionario, medico e «martire»

La Beatificazione di P. Giuseppe Ambrosoli mette in evidenza un testimone della missione tra gli acholi in Uganda, dove ha trascorso i 31 anni del suo servizio missionario. Per noi comboniani un tale evento ci riempie di gioia e allo stesso tempo di responsabilità. La Beatificazione si terrà in terra d’Uganda, Kalongo, il 22 novembre 2020, Solennità di Cristo Re dell’Universo.

Dopo aver sentito il parere del Padre Generale e suo Consiglio; consultato la Chiesa locale di Gulu attraverso il suo Arcivescovo, Mons. John Baptist Odama; la Chiesa locale di Como nella persona del suo Vescovo, Mons. Oscar Cantoni, e anche il parere della famiglia Ambrosoli c’è stato un parere unanime che la Beatificazione avvenga a Kalongo dove P. Giuseppe ha svolto in pienezza e totalmente il suo servizio missionario. La data più significativa è sembrata il 22 novembre, Solennità di Cristo Re dell’Universo. Ora, trattandosi di un atto pontificio, doveva essere consultato il prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, Card. Giovanni Angelo Becciu, il quale ha convintamente espresso la volontà di presiedere la cerimonia della Beatificazione, proprio per il significato missionario che essa riveste. Naturalmente tutto dovrà essere sottoposto all’approvazione della Santa Sede, la quale si esprimerà con un decreto ufficiale.

La Beatificazione di P. Giuseppe Ambrosoli mette in evidenza un testimone della missione che più volte ha espresso il desiderio di essere sepolto tra i suoi acholi, dove ha trascorso i 31 anni del suo servizio missionario. Per noi comboniani un tale evento ci riempie di gioia e allo stesso tempo di responsabilità. Anzitutto il luogo dove avverrà l’evento, Kalongo (Nord Uganda) che faceva parte del Vicariato Apostolico dell’Africa Centrale di cui il Comboni fu il primo Vicario Apostolico e inoltre il luogo dove P. Giuseppe Ambrosoli ha espresso il meglio di sé nell’opera dell’ospedale e nella scuola per Ostetriche.

Una continuità significativa dunque dal punto di vista materiale, l’Uganda, estremo lembo del Vicariato dove il Comboni ha invano sognato di arrivare e che ora invece si realizza, attraverso P. Giuseppe, quale primo figlio dell’Istituto a essere beatificato. Significato ancora più pregnante dal punto di vista spirituale, e per una duplice ragione: perché anche P. Ambrosoli, come il nostro santo Fondatore che l’ha preceduto, entra a far parte di quel fondamento nascosto su cui si erge maestosa la Chiesa africana e poi perché riceve ulteriore conferma il metodo inciso indelebilmente nel «Piano»: “Salvare l’Africa con l’Africa”! Molti dunque sono i motivi per ringraziare e continuare con novello slancio missionario per il bene della Chiesa e della società.

SECONDA NOTIZIA

Beatificazione di padre Giuseppe Ambrosoli a Kalongo

Forse può sembrare un annuncio estemporaneo e fuori luogo perché ben altre sono le preoccupazioni del momento. Tuttavia proprio per quello che padre Ambrosoli ha rappresentato in campo sanitario: per le conoscenze e la competenza con cui ha operato e per l’afflato spirituale con cui ha affrontato emergenze e malattie, capiamo quanto la sua figura sia attuale e la sua intercessione necessaria. La beatificazione si farà, sempre coronavirus permettendo, a Kalongo il 22 novembre 2020. Il luogo è altamente significativo: padre Giuseppe, sepolto tra i “suoi”, tra i “suoi” sarà anche glorificato.

Ci sarà la Beatificazione di padre Ambrosoli in Uganda? La domanda ha un senso perché, tenendo presente la situazione di pandemia globale che ha colpito il pianeta, la risposta non può che essere interlocutoria. Si, si terrà a Kalongo il 22 novembre 2020, sempre che il COVID-19 lo permetta. Allo stato dei fatti abbiamo i seguenti documenti a supporto di tale affermazione. La richiesta ufficiale della Postulazione del 28 gennaio 2020 in cui si presenta al Santo Padre la disponibilità del Card. Giovanni Angelo Becciu di recarsi a Kalongo il 22 novembre 2020 a rappresentarlo nella cerimonia di Beatificazione. Di seguito, dietro sollecitazione della Postulazione, la Segreteria di Stato inviava il 16 marzo u.s. una lettera alla Nunziatura di Kampala. In tale documento, per la verità datata 9 marzo 2020, si afferma che il Santo Padre ha deciso che il rito di Beatificazione si farà a Kalongo il 22 novembre 2020 e il suo rappresentante sarà il Card. Giovanni Angelo Becciu, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi. La lettera è confermata dalla Nunziatura che l’ha inviata all’arcivescovo di Gulu, Mons. John Babtist Odama, il 17 u.s.. In una E-mail del 23 marzo il Vicario Generale della Diocesi di Gulu, mons. Matthew Odong, conferma la recezione della lettera: «At this point, it is very clear that the rite of beatification of the Servant of God Father Doctor Giuseppe Ambrosoli will take place “SACRED HEART” KALONGO PARISH». Di fatto poi l’Arcivescovo il 21 e 22 marzo (sabato e domenica) si è recato a Kalongo ed ha annunciato pubblicamente in parrocchia luogo e data dell’evento. “The news has been received with great joy by our people here in the Archidiocese of Gulu». Nel frattempo si sono tenute alcune riunioni con il Consiglio Generale e i provinciali d’Uganda e d’Italia per coinvolgere le rispettive province, compatibilmente ai movimenti condizionati che la situazione del momento permette. A nessuno però sfugge il significato missionario di questa beatificazione che avviene in missione come ultima espressione della missionarietà: lo scambio di doni tra Chiese sorelle e quasi una identificazione in cui credibilmente un missionario, nel nostro caso il prossimo Beato Ambrosoli, è glorificato in mezzo ai “suoi” di Kalongo. Per adesso non cessiamo di invocarlo in un momento così preoccupante dell’umanità, lui che ha affrontato la malattia con illuminata determinazione, ma soprattutto con fede e carità soprannaturali.

IL LUNGO CAMMINO VERSO LA BEATIFICAZIONE

Il cammino della beatificazione di p. Giuseppe è iniziato nel 1999, dodici anni dopo la sua morte, ossia quasi subito dopo che il suo corpo è stato trasportato il 22 agosto 1994 da Lira a Kalongo. Esattamente come accadeva nei primi tempi della Chiesa: ci si è potuti muovere perché la fama di santità e l’ammirazione per p. Giuseppe, il grande dottore dal cuore buono e dalle mani abilissime, ma soprattutto perché l’uomo di Dio, che curava nel corpo e nello spirito, era ancora molto presente nella memoria della gente. La gente del tempo, sia a Kalongo, come a Ronago non aveva dubbi sulla qualità spirituale che p. Giuseppe aveva trasmesso con la sua cura dei sofferenti e l’attenzione riservata alle mamme che dovevano partorire. Padre Giuseppe tutelava sì la vita dei corpi, fin dal loro nascere, ma soprattutto arrivava a guarire l’intimo delle persone.

Così il comboniano, p. Mario Marchetti, poteva sollecitare il vescovo di Gulu, Mons. Martino Luluga, a costituire una Commissione d’investigazione. In seguito, l’Arcivescovo di Gulu che gli era succeduto, Mons. John Baptist Odama, iniziava il processo il 22 agosto 1999 e lo concludeva il 4 febbraio 2001 sul piazzale antistante la chiesa parrocchiale di Kalongo. Allo stesso tempo il vescovo di Como, Mons. Alessandro Maggiolini, il 7 novembre 1999 ascoltava i testimoni che si trovavano a Ronago, e in genere in Italia, chiudendo il processo il 30 giugno 2001.

A quella data si erano potute condurre a termine le sessioni ed ascoltare tutti i 90 testimoni che avevano conosciuto p. Giuseppe. Tra questi 62 laici, 18 missionari e preti diocesani, 10 suore. Tra i laici da notare la folta schiera dei testimoni di Kalongo, di Ronago, paese natale di p. Giuseppe e anche dei 12 medici che con lui avevano operato nell’ospedale della savana. Insomma un’ampia rappresentatività della società civile e religiosa: catechisti, insegnanti, responsabili di comunità, operai, infermieri e infermiere, un capo di polizia e anche un generale, che per un brevissimo tempo era stato Presidente dell’Uganda dopo il secondo Obote. «Per noi – ebbe a dire – la morte del dottor Ambrosoli è come il crollo di un ponte. Ci vorranno molti anni per rimpiazzarlo».

Dai documenti e dalle testimonianze emergeva chiara la vita santa di p. Giuseppe. Riportiamo qui alcune affermazioni significative. All’apertura del Processo, il 22 agosto 1999, Mons. Odama, in una lettera ai vescovi della Provincia Ecclesiastica di Gulu e ai membri della Conferenza Episcopale Ugandese descriveva la figura del Servo di Dio come segue:

«Esempio di eroica carità e di umile servizio alle persone; un grande esempio di zelante missionario dei tempi moderni; modello di prete e di dottore divenuto famoso per la sua intensa spiritualità e per la coscienziosa abilità medica; un attraente e convincente esempio di giovane moderno che ha risposto totalmente alla chiamata di Cristo e alla sua forma di vita». «Dal suo modo di accogliere le persone, di intrattenersi con loro, di consigliarle e di incoraggiarle – depone John Ogaba– si aveva l’impressione di trovarsi davanti a Gesù». Il dottore Luciano Tacconi, che ha lavorato con lui a Kalongo, non ha paura di affermare:«Per me il segreto della “santità” di p. Giuseppe sta nella sua grande semplicità e nell’attaccamento massimo al dovere. Gli altri medici rispettavano e ammiravano molto la professionalità di p. Giuseppe, il quale insisteva anche con me perché, senza fare delle prediche, dessimo il buon esempio come cristiani con l’attaccamento al lavoro e nel rispetto della dignità delle persone»: Allora prezioso è quanto Mons. Gianvittorio Tajana afferma al processo: «Secondo la mentalità, oggi vigente nella Chiesa, se l’Ambrosoli sarà proclamato santo, sarà il santo della vita ordinaria». Certamente non una vita scialba, ma una vita ordinaria, di ogni giorno, in cui ha fatto costantemente delle cose straordinarie. E non può essere che così quando si incontra uno come p. Giuseppe, come lo ricorda in un sermone Mons. Alessandro Maggiolini, vescovo di Como:«Padre Ambrosoli ha dato volto al Vangelo con la sua vita messa radicalmente al servizio di Cristo, dell’evangelizzazione e degli ultimi»

Il materiale raccolto a Gulu e a Como, sia testimonianze che documenti, giungeva a Roma in Congregazione delle Cause dei Santi nel mese di giugno dell’anno 2001 e il 7 maggio 2004 gli si riconosceva la validità giuridica per ricostruire la vita terrena e provare la santità della persona e dell’opera di p. Giuseppe. Dal 2004 al 2014 ci sono voluti poi complessivamente 10 anni di lavoro che hanno coinvolto il Postulatore della Causa, la Congregazione vaticana, ossia i Teologi, i Cardinali e i Vescovi prima del giudizio definitivo di Papa Francesco, l’unico che poteva decretare le virtù eroiche.

Quindi nel 2009 il Postulatore della Causa faceva stampare la Positio, la quale era consegnata ai Consultori Teologi che nel Congresso Peculiare del 4 dicembre 2014 si esprimevano favorevolmente: 9 su 9. Uno di essi afferma:

«La figura di Giuseppe Ambrosoli gode, e per molti aspetti, di una sua attualità specifica. È stato un religioso, comboniano che si è impegnato a vivere i consigli evangelici e la vocazione missionaria in una professione specifica di stile “laicale”, come è quella del medico chirurgo. L’impegno scrupoloso nell’attività professionale nulla ha rubato alla sua vita di preghiera e alle esigenze della comunità: l’Eucaristia, celebrata e adorata, è sempre stato il centro della sua giornata. Può essere perciò valido modello per i comboniani suoi confratelli, come per ogni religioso e religiosa di vita attiva, ed anche per i membri degli Istituti di vita consacrata. Come medico chirurgo ha molto da dire con il suo esempio ai medici e operatori sanitari, ed è anche motivo di speranza per volontari impegnati in organizzazioni sanitarie, spesso “no profit” e di volontari che soccorrono infermi di malattie spesso contagiose e mortali».

I Padri Cardinali e Vescovi nella Sessione Ordinaria del 15 dicembre 2015, presieduta dal Card. Angelo Amato, riconoscevano che il Servo di Dio aveva esercitato in grado eroico le virtù teologali (fede, speranza e carità), le virtù cardinali (prudenza, giustizia, temperanza e fortezza) e quelle annesse (voti di castità, povertà e obbedienza e l’umiltà). Il Cardinale poi riferiva tutto a Papa Francesco il quale, due giorni dopo il 17 dicembre, sempre del 2015, confermava l’eroicità delle virtù e scriveva un decreto con cui riconosceva al Servo di Dio, Giuseppe Ambrosoli, il nuovo titolo di Venerabile con cui poteva venir invocato.

Secondo Papa Francesco la santità di p. Giuseppe poteva essere sintetizzata da due frasi che si leggono in due sue lettere: «Le persone devono sentire l’influsso di Gesù che porto con me; devono sentire che in me c’è una vita soprannaturale espansiva ed irradiantesi per sua natura» infatti « Dio è amore. Io sono il suo servo per quelli che soffrono». Si trattava di una motivazione spirituale che dalla gioventù fino alla morte aveva percorso tutta la sua vita e illuminato la sua riconosciuta professione medica. In fondo questa motivazione spirituale risponde a una domanda che nasce di fronte alla vita missionaria del padre: «Come è stato possibile che un uomo sia riuscito a fare tutto quello che ha fatto e come l’ha fatto, con fedeltà, semplicità, serenità, dono totale di se stesso e gioia fino agli ultimi e drammatici giorni della sua vita?». La risposta andava e va cercata – sembra dire il Papa – nella sua profonda vita spirituale. Padre Giuseppe Ambrosoli è stato una persona che ha vissuto la vita cristiana di ogni giorno in maniera straordinaria, cioè una vita NORMALE assolutamente FUORI DAL NORMALE. Ha esercitato il servizio medico, non semplicemente come conseguenza della sua fede e del suo amore, ma come parte integrante del Vangelo che predicava. Con lui anche il servizio medico era parte imprescindibile dell’evangelizzazione. Ci si poteva arrestare qui. E invece, no.

Per la beatificazione mancava un ultimo gradino: il miracolo. Il sigillo che la Chiesa affida a Dio per proporre il suo servo come intercessore ed esempio per il suo Istituto e per la Chiesa locale, che l’ha visto nascere, e poi quella che l’ha accolto nello svolgimento della sua missione, l’ha visto morire e ne ha conservato il suo corpo e la memoria.

Di guarigioni e cure straordinarie p. Giuseppe ne aveva ottenute già in vita, ma tra tutte brillava una avvenuta nel 2008 all’ospedale di Matany, all’estremo nord est del Nord Uganda, in Karamoja. Si trattava di una mamma karimojong di 20 anni, Lucia Lomokol di Iriir, madre già di un bambino e arrivata in condizioni disperate all’ospedale per un altro già morto in grembo che le aveva causato un’infezione mortale. Tant’è che uno dei medici, il dott. Erik Domini, responsabile del reparto Maternità, il 25 ottobre 2008 al momento dell’accettazione tentava un’ultima disperata operazione ma senza risultato. Poi per il progressivo peggioramento la faceva trasferire dalla corsia generale alla sala travaglio perché pensava che non era conveniente per le altre pazienti (mamme in attesa di parto e allattanti) essere testimoni della morte di una giovane mamma. e perciò la faceva trasferire nella sala travaglio. Alla sera dello stesso giorno il dott. Erik, constatando un continuo peggioramento, faceva chiamare il parroco di Matany, p. Marco Canovi, il quale amministrava l’unzione degli infermi a Lucia. Riportando a casa p. Marco, il dott. Erik si ricordava di un santino di p. Giuseppe con apposita preghiera che conservava nel suo appartamento e ritornava in ospedale accanto a Lucia munito di quello che lui considerava essere stata un’ispirazione inattesa. Dopo aver ricevuto l’assenso della stessa Lucia, di sua madre e di suo marito collocava il santino sulla spalliera del letto della moribonda e radunava le infermiere per l’invocazione. Terminato tutto verso mezzanotte si accomiatava da loro chiedendo di essere avvisato la mattina seguente per il funerale di Lucia. Alle cinque del mattino si presentava e, con sua grande sorpresa, trovava Lucia completamente cosciente e presente a se stessa. Tutti i presenti attribuivano l’improvvisa cura all’invocazione di P. Giuseppe.

Il vescovo di Moroto, Mons. Henry Apaloryamam Ssentongo a cui apparteneva la parrocchia di Matany, venuto a conoscenza del fatto, ha voluto che con un processo si raccogliesse tutta la documentazione per sottoporla allo studio delle Cause dei Santi: questa avrebbe detto se si trattava di un evento inspiegabile scientificamente e se c’erano le condizioni da poter attribuire la guarigione alla potenza divina. Così il 17 settembre 2010 iniziava il processo sul presunto miracolo, riunendo anzitutto i testimoni presenti al fatto: il dott. Erik Domini, ostetrico ginecologo, medico curante; il dott. Alphonse Ayepa, medico anestesista; il sig. Daniel Irusi, infermiere; la sig.ra Betty Agan, ostetrica professionale; la sig. ra sanata, Lucia Lomokol, contadina e casalinga; il sig. Akol Lobokokume, membro dell’esercito e marito di Lucia; la sig.ra Sabina Kodet, la mamma della sanata; la sig.ra Mary Annunciata Longole, ostetrica; la sig.ra Lilian Adwar, assistente infermiera; la sig.ra Fotunate Magdalene Alany, ostetrica e p. Marco Canovi, parroco di Matany. In più erano chiamati di dovere, un medico specialista anestesiologo, il dott. Bruno Turchetta e i due periti che dovevano esaminare lo stato reale di Lucia, i dottori: John Bosco Nsubuga e Leo Odong. Raccolta poi anche tutta la documentazione clinica il processo si concludeva a Moroto quasi un anno dopo, il 21 giugno 2011. Portati tutti i documenti a Roma, la Congregazione delle Cause dei Santi un anno dopo, l’11 maggio 2012, riconosceva validità giuridica a tutta la documentazione. Tuttavia si dovevano aspettare ancora 6 anni, dal 2012 fino al 2018, perché il caso di Lucia potesse essere esaminato.

La situazione Ambrosoli si sbloccava il 28 novembre 2018 con la Consulta Medica costituita da 7 professori che riconoscevano, per maggioranza qualificata (5/2), il fatto della cura da shock settico (setticemia irreversibile) che si era risolta in maniera assolutamente inaspettata, rapida, completa, duratura e inspiegabile alla luce delle attuali conoscenze mediche. Cioè Lucia si trovava curata in maniera inspiegabile scientificamente, sia perché la terapia chirurgica effettuata era stata incompleta non essendo stato asportato l’utero, primaria causa e focolaio di infezione, sia perché era stato sospeso il farmaco considerato salvavita, la dopamina, non essendocene più in ospedale. Nel loro linguaggio specialistico i professori avevano fatto scrivere: «Shock settico secondario da corioamnionite purulenta putrefattiva ((taglio cesareo ed estrazione del feto morto e putrefatto). Tromboflebite pelvica e tromboflebite profonda della grande safena dell’arto inferiore sn. con dermatite gangrenosa della metà inferiore della gamba”. Questo era il passaggio decisivo che permetteva di procedere oltre.

Ora bisognava dimostrare che l’invocazione era avvenuta nel momento del peggioramento fatale dello stato di Lucia; che in quel momento si era invocato p. Giuseppe Ambrosoli e che dopo tale invocazione si era verificato un cambiamento repentino positivo. C’erano 10 testimoni oculari a testimoniare che per iniziativa del dott. Erik Domini era stato invocato p. Ambrosoli e altrettanti che avevano assistito quella notte al viraggio dello stato di salute di Lucia. Chi conosce la materia può ragionevolmente affermare che da mezzanotte alle cinque, come è il nostro caso, un tale cambiamento può essere definito rapido. Infatti 7 mesi dopo l’inspiegabilità della cura, affermata dai medici, il 13 giugno 2019 il Congresso Peculiare dei Consultori teologi ha potuto appurare l’evento della preghiera rivolta a p. Ambrosoli e il miglioramento repentino dello stato di salute di Lucia Lomokol.

Con questi dati, cinque mesi dopo, il 19 novembre 2019 i Cardinali e i Vescovi nella loroSessione Ordinariapresieduta dal Card. Giovanni Angelo Becciu decidevano di portare il caso al Santo Padre. Questi, 9 giorni dopo, il 28 novembre 2019 riconosceva il carattere soprannaturale della cura di Lucia, quindi il miracolo e comandava di preparare un Decreto con valore giuridico e da inserire negli Atti della Congregazione dei Santi: Ecco le testuali parole:

«Constare de miraculo a Deo patrato per intercessionem Ven. Servi Dei Iosephi Ambrosoli, Sacerdotis professi Missionariorum Combonianorum Cordis Iesu, videlicet de celeri, perfecta ac constanti sanatione cuiusdam mulieris a (Si tratta di un miracolo compiuto da Dio per intercessione del Venerabile Servo di Dio Giuseppe Ambrosoli, sacerdote professo dei Missionari Comboniani del Cuore di Gesù, vale a dire di una cura  rapida, perfetta e duratura di una signora) da Shock settico secondario da corioamnionite purulenta putrefattiva. Tromboflebite pelvica e tromboflebite profonda della grande safena dell’arto inferiore sn. con dermatite gangrenosa della metà inferiore della gamba».

Se si sta bene attenti, in tutto questo lungo percorso fino alla Beatificazione, il Santo Padre si è lasciato guidare dalla presenza di due principi spirituali: l’eroicità delle virtù e la preghiera di intercessione. Ora l’evento del miracolo e della beatificazione possono porre due domande: perché questa grazia a una karimojong e a una mamma e perché l’evento della celebrazione proprio a Kalongo? Secondo logiche umane tutto avrebbe dovuto sconsigliare tale coincidenza: spesso tra etnie diverse non corre buon sangue e la condizione femminile è l’anello più sottoposto a sfruttamento nella società e inoltre Kalongo è un luogo al di fuori dei circuiti che contano. Eppure è proprio qui che la maniera di vivere la missione di p. Giuseppe Ambrosoli ha dato esempi che non potranno mai più essere dimenticati: qui ha accolto e difeso sempre tutti; qui si è messo a servizio della vita nascente e qui ha esercitato la sua straordinaria professionalità medica nella semplicità e nell’umiltà.

L’evento della Beatificazione di p. Giuseppe Ambrosoli non potrà dunque essere vissuto, nell’oggi della vita cristiana, che come evento di fede, di comunione e di gioia.

Il XVIII Capitolo Generale e la ministerialità

Hno. Alberto Parise
Hno. Alberto Parise

Nella visione dell’Evangelii gaudium (EG), la missione della Chiesa e tutti i ministeri al suo interno sono orientati a costruire il Regno di Dio, sforzandosi di creare spazi nel nostro mondo in cui tutte le persone, specialmente gli impoveriti e gli esclusi, possano sperimentare la salvezza di Gesù Risorto. I ministeri, dunque, assumono un’importanza cruciale in quanto luogo di incontro tra umanità, Parola e Spirito nella storia. (Fr. Alberto Parise, nella foto)

IL XVIII CAPITOLO GENERALE E LA MINISTERIALITÀ

Fr. Alberto Parise

Ci sono momenti nella storia che segnano dei passaggi epocali o delle transizioni da un sistema socioculturale ad un altro, che è inedito, segnando un’importante discontinuità. Il tempo in cui Comboni ha vissuto è stato certamente uno di questi momenti storici. Era il tempo della rivoluzione industriale, frutto del grande balzo che scienza e tecnologia stavano operando, anche sul piano economico e politico. La Chiesa si ritrovava sulla difensiva, davanti al cosiddetto “modernismo” che percepiva come una minaccia. Era una Chiesa assediata, politicamente e culturalmente; e nella sua resistenza, correva il rischio dell’autoreferenzialità. Eppure, proprio in quel tempo così difficile, conobbe una grande rinascita: tra le contraddizioni e i mali sociali che emergevano con il nuovo sistema economico capitalistico industriale, emerse uno slancio verso l’apostolato sociale, attraverso il servizio di laici e di un gran numero di nuovi istituti religiosi. Il movimento coloniale – che rispondeva a logiche politico-economiche e all’ideologia degli stati nazionali in competizione – d’altro canto, si accompagnava a un grande interesse culturale per le esplorazioni, l’esotico, lo spirito d’avventura. Ma ci fu anche la nascita di un nuovo movimento missionario verso terre e popoli lontani. La Chiesa entrava così in una nuova epoca, con un forte rinnovamento spirituale – come testimonia la spiritualità del Sacro Cuore, che caratterizzò quel tempo – facendo emergere un nuovo modello missionario.

Il XVIII Capitolo Generale è stato celebrato in una svolta epocale analoga per la Chiesa. Il discernimento del Capitolo si è sintonizzato sulla lettura di tale svolta che papa Francesco aveva fatto nella Evangelii gaudium (EG): una lettura teologica della nuova epoca che apre, nella pratica pastorale, ad un nuovo slancio missionario. Nuovo, nel senso di superamento del paradigma a cui siamo abituati: una missione basata sul modello geografico, in cui i protagonisti sono dei “corpi speciali” missionari, veri e propri pionieri, il cui ruolo è fondare delle Chiese locali. La realtà della globalizzazione e la devastante crisi socio-ambientale del nostro tempo – conseguenza del prevalente modello di sviluppo che è insostenibile e ci ha portati vicino al punto di non ritorno – richiedono un rinnovato approccio di evangelizzazione. Del resto, guardando anche solo alla nostra realtà comboniana, ci rendiamo conto che il modello del passato è già superato nei fatti. Ad esempio, lo schema di province (del nord del mondo) che inviano e province (del sud) che ricevono missionari non corrisponde più a ciò che sta in effetti avvenendo. Come anche l’idea che nei paesi del sud si faccia “evangelizzazione” e in quelli del nord “animazione missionaria”. Si vede l’urgenza dell’animazione missionaria, ad esempio, in Africa e – come ha poi indicato il Capitolo – della missione in Europa.

L’Evangelii gaudium indica allora un nuovo paradigma di missione. Non più semplicemente geografico, ma esistenziale. La Chiesa è chiamata a superare la propria autoreferenzialità e ad uscire verso tutte le periferie umane, dove si soffre l’esclusione e si vivono tutte le contraddizioni dovute alle disuguaglianze economiche, all’ingiustizia sociale e all’impoverimento. Tutto ciò non è più un aspetto disfunzionale del sistema economico, ma un requisito su cui questo stesso sistema prospera e si perpetua. La missione diventa il paradigma di ogni azione pastorale e la Chiesa locale ne è il soggetto. Qual è allora il ruolo degli istituti missionari? È quello di animare le Chiese locali perché vivano il loro mandato di essere missionarie, Chiese in uscita verso le periferie esistenziali. Si tratta di cammini di comunione, all’interno di realtà connotate da diversità e pluralismo, costruendo assieme una prospettiva comune, che valorizzi le differenze e le “superi”, senza annullarle, costruendo un’unità ad un livello superiore. Sono dei cammini caratterizzati dalla vicinanza agli ultimi, dal servizio, dalla capacità di annunciare il Vangelo nell’essenzialità del kerygma con le parole e con la vita. Francesco rilancia la visione di Chiesa del Concilio Vaticano II, come “il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano”. Nel nuovo mondo plasmato dalla rivoluzione digitale e dalla globalizzazione dei mercati del capitalismo finanziario, la Chiesa è chiamata a convocare un “popolo” che superi i confini di appartenenza e cammini verso il Regno di Dio. Allora la testimonianza cristiana del Risorto sarà generativa e anche la Chiesa crescerà: per attrazione, non per proselitismo.

Come lo fu per Comboni al tempo della rivoluzione industriale, così per noi oggi l’epoca della rivoluzione digitale è una grande opportunità missionaria. Trattandosi di un nuovo paradigma, la sfida è quella di pensare, strutturarci e formarci di conseguenza. Il primo passo è riconoscere la grazia del carisma comboniano, attualissimo e tagliato su misura per il nuovo paradigma di missione. Anzitutto l’idea centrale della “rigenerazione dell’Africa con l’Africa”, un’immagine sintetica che racconta una storia molto complessa e articolata: c’è l’idea della generazione di un “popolo”, capace di costruire una società alternativa, in sintonia con l’azione dello Spirito. L’annuncio del Vangelo aiuta a portare a compimento quei “semi del Verbo” già presenti nelle culture e nella spiritualità della gente. Comboni sottolineava anche l’importanza che questa opera dovesse essere “cattolica”, cioè universale: lontano dall’autoreferenzialità, si vedeva come parte integrante di un movimento missionario molto più grande, molto più articolato, con varietà di doni e carismi. Comprendeva il suo ruolo come quello di un animatore che “manifestò in modo particolare attraverso instancabili sforzi per smuovere la coscienza dei pastori della Chiesa riguardo alle loro responsabilità missionarie, affinché l’ora dell’Africa non passasse invano” (RV 9). Nella visione dell’EG, la missione della Chiesa e tutti i ministeri al suo interno sono orientati a costruire il Regno di Dio, sforzandosi di creare spazi nel nostro mondo in cui tutte le persone, specialmente gli impoveriti e gli esclusi, possano sperimentare la salvezza di Gesù Risorto.

I ministeri, dunque, assumono un’importanza cruciale in quanto luogo di incontro tra umanità, Parola e Spirito nella storia. Un incontro rigenerativo, come aveva ben compreso Comboni. Per questo aveva pensato nel suo Piano a tutta una serie di piccole università teologiche e scientifiche lungo le coste del continente africano, per preparare ministri in diversi campi che si sarebbero poi irradiati verso l’interno, per far crescere comunità dallo spirito evangelico, capaci di trasformazione sociale, come ci testimonia il modello di Malbes e di Gezira.

Nello spirito del Capitolo, la riqualificazione su linee ministeriali del nostro servizio missionario richiede, come aveva intuito Comboni, una nuova “architettura” della missione, che sostenga e promuova:

  • – una riqualificazione ministeriale del nostro impegno, sviluppando partecipativamente e in comunione delle pastorali specifiche, secondo le priorità continentali. Nel Capitolo, infatti, è emerso che se, da un lato, siamo presenti in queste “frontiere” della missione, dall’altro, spesso manchiamo di approcci contestuali ai gruppi umani che accompagniamo;
  • – il ministero collaborativo, lungo cammini di comunione. Siamo ancora soggetti di pratiche e modi di operare troppo individualistici e frammentati;
  • – il ripensare le nostre strutture, alla ricerca di maggiore semplicità, condivisione e capacità di accoglienza, per essere più vicini alla gente, più umani e più felici;
  • – il riassetto delle circoscrizioni. Il discorso sugli accorpamenti non ha meramente una giustificazione nell’insufficienza del personale, ma soprattutto ha un valore in relazione al passaggio da un modello geografico ad uno ministeriale, che necessita di collegamento, lavoro in rete, condivisione di risorse e percorsi;
  • – il riassetto della formazione, per sviluppare le competenze necessarie nelle varie pastorali specifiche.

In sintesi, come attestano gli Atti Capitolari, “cresce la consapevolezza di un nuovo paradigma di missione che ci spinge a riflettere e a riorganizzare le attività su linee ministeriali” (AC 2015, n. 12). Riprendendo l’invito di Francesco (EG 33), il Capitolo ha indicato la strada di una conversione pastorale, abbandonando il criterio del “si è fatto sempre così” e avviando dei percorsi di azione-riflessione per ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi di evangelizzazione (AC 2015, n. 44.2-3). (Fr. Alberto Parise)

Visita ufficiale di P. Tesfaye Tadesse e P. Pietro Ciuciulla all’Uganda

LMC Uganda
LMC Uganda

Dal 6 gennaio al 7 febbraio, la Provincia comboniana dell’Uganda ha ricevuto la visita ufficiale del Superiore Generale, P. Tesfaye Tadesse, e dell’Assistente Generale, P. Pietro Ciuciulla. Durante la visita, P. Tesfaye e P. Pietro si sono incontrati anche con i Laici Missionari Comboniani ugandesi (nella foto).   Il Superiore Provinciale, P. Achilles Kiwanuka Kasozi, mettendosi in comunicazione con le varie comunità della Provincia, ha fatto sì che P. Tesfaye e P. Pietro potessero visitare tutte le comunità e incontrare tutti i confratelli. Così, quasi in tutte le comunità hanno potuto avere incontri personali con ognuno dei confratelli e incontri con tutti i membri della comunità assieme, con un riscontro delle loro osservazioni sulla situazione delle comunità. Il Padre Generale, nei suoi messaggi ai confratelli, ha sottolineato la necessità della riconciliazione per una vita comunitaria proficua e, per lo stesso motivo, ha suggerito ai confratelli di tenere regolari incontri comunitari e pastorali. In particolare, ha sottolineato la vita di preghiera, sia a livello personale che comunitario, dicendo che una comunità che prega insieme, rimane unita. La Provincia è molto grata per questa visita che è un segno di comunione con tutto l’Istituto e un incoraggiamento ai confratelli nei diversi contesti missionari della Provincia.  

Messa di invio Emma Chiolini

Emma Brazil
Emma Brazil

Il tredici giugno alle 20.30 nella chiesa di S. Lorenzo, a Bologna, è stata celebrata la mia messa di invio con il vescovo Zuppi, la Diocesi di Bologna mi invia in missione come fidei donum. Questo mio secondo mandato Ad Gentes, nasce all’interno del centro missionario diocesano, di cui faccio parte nell’ equipe, che ha deciso di creare una collaborazione con la diocesi di Salvador, aprendo nuove strade di partecipazione e cooperazione tra le due diocesi. Questo mi fa molto piacere perché permetterebbe di aprire una finestra alla realtà latino americana, nello specifico con il Brasile, per il centro missionario, impegnato attualmente solo in Tanzania, con la diocesi di Mapanda. E’ anche una partenza “insolita” all’interno dei lmc, perché in questo caso non è un progetto dei Padri o dei laici Comboniani, ma frutto di una collaborazione esterna e forse possibile apripista per il futuro. Continuerò a rimanere all’interno della famiglia Comboniana come lmc, tenendo i contatti e le relazioni con il coordinamento, i vari gruppi lmc e con il comitato centrale che ha approvato la mia scelta citando che la “missione è di Dio e non degli uomini”.

Emma Brazil

Farò vita comunitaria nella Comunità Trindade, che accoglie persone di strada e mi dedicherò all’accoglienza e all’ascolto delle persone che sono accolte, oltre ai laboratori e i servizi, tra cui un giornale di strada che la Comunità offre. Sarà un esperienza completamente nuova, concreta e forte, dura e autentica, come il dormire per terra, condividere i problemi legati alla strada, fatti di marginalità, dipendenza e resurrezione, ma come dice il Comboni audacia e tenacia nel cammino e aggiungo: con piedi ben saldi per terra e con occhi sempre rivolti al cielo. “Vi auguro di vestirvi con un vestito che non seguirà mai la moda. Vi auguro robuste speranze ai piedi. Pantaloni fatti di impegno, le maglie che abbiano due colori: quello della libertà e della corresponsabilità. E portate un bel cappello, quello della conoscenza e dello spirito critico. Dobbiamo vestirci di tutto questo sempre.” (Don Luigi Ciotti)

Emma Brazil


Emma Chiolini, lmc