Desidero esprimere la mia gratitudine a Dio per l’impegno con cui in tutta la Chiesa è stato vissuto, lo scorso ottobre, il Mese Missionario Straordinario. Sono convinto che esso ha contribuito a stimolare la conversione missionaria in tante comunità, sulla via indicata dal tema “Battezzati e inviati: la Chiesa di Cristo in missione nel mondo”.
In questo anno, segnato dalle sofferenze e dalle sfide procurate dalla pandemia da covid 19, questo cammino missionario di tutta la Chiesa prosegue alla luce della parola che troviamo nel racconto della vocazione del profeta Isaia: «Eccomi, manda me» (Is 6,8). È la risposta sempre nuova alla domanda del Signore: «Chi manderò?» (ibid.). Questa chiamata proviene dal cuore di Dio, dalla sua misericordia che interpella sia la Chiesa sia l’umanità nell’attuale crisi mondiale. «Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti. Come quei discepoli, che parlano a una sola voce e nell’angoscia dicono: “Siamo perduti” (v. 38), così anche noi ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme» (Meditazione in Piazza San Pietro, 27 marzo 2020). Siamo veramente spaventati, disorientati e impauriti. Il dolore e la morte ci fanno sperimentare la nostra fragilità umana; ma nello stesso tempo ci riconosciamo tutti partecipi di un forte desiderio di vita e di liberazione dal male. In questo contesto, la chiamata alla missione, l’invito ad uscire da sé stessi per amore di Dio e del prossimo si presenta come opportunità di condivisione, di servizio, di intercessione. La missione che Dio affida a ciascuno fa passare dall’io pauroso e chiuso all’io ritrovato e rinnovato dal dono di sé.
Nel sacrificio della croce, dove si compie la missione di Gesù (cfr Gv 19,28-30), Dio rivela che il suo amore è per ognuno e per tutti (cfr Gv 19,26-27). E ci chiede la nostra personale disponibilità ad essere inviati, perché Egli è Amore in perenne movimento di missione, sempre in uscita da sé stesso per dare vita. Per amore degli uomini, Dio Padre ha inviato il Figlio Gesù (cfr Gv 3,16). Gesù è il Missionario del Padre: la sua Persona e la sua opera sono interamente obbedienza alla volontà del Padre (cfr Gv 4,34; 6,38; 8,12-30; Eb 10,5-10). A sua volta Gesù, crocifisso e risorto per noi, ci attrae nel suo movimento di amore, con il suo stesso Spirito, il quale anima la Chiesa, fa di noi dei discepoli di Cristo e ci invia in missione verso il mondo e le genti.
«La missione, la “Chiesa in uscita” non sono un programma, una intenzione da realizzare per sforzo di volontà. È Cristo che fa uscire la Chiesa da se stessa. Nella missione di annunciare il Vangelo, tu ti muovi perché lo Spirito ti spinge e ti porta» (Senza di Lui non possiamo far nulla, LEV-San Paolo, 2019, 16-17). Dio ci ama sempre per primo e con questo amore ci incontra e ci chiama. La nostra vocazione personale proviene dal fatto che siamo figli e figlie di Dio nella Chiesa, sua famiglia, fratelli e sorelle in quella carità che Gesù ci ha testimoniato. Tutti, però, hanno una dignità umana fondata sulla chiamata divina ad essere figli di Dio, a diventare, nel sacramento del Battesimo e nella libertà della fede, ciò che sono da sempre nel cuore di Dio.
Già l’aver ricevuto gratuitamente la vita costituisce un implicito invito ad entrare nella dinamica del dono di sé: un seme che, nei battezzati, prenderà forma matura come risposta d’amore nel matrimonio e nella verginità per il Regno di Dio. La vita umana nasce dall’amore di Dio, cresce nell’amore e tende verso l’amore. Nessuno è escluso dall’amore di Dio, e nel santo sacrificio di Gesù Figlio sulla croce Dio ha vinto il peccato e la morte (cfr Rm 8,31-39). Per Dio, il male – persino il peccato – diventa una sfida ad amare e amare sempre di più (cfr Mt 5,38-48; Lc 23,33-34). Perciò, nel Mistero pasquale, la divina misericordia guarisce la ferita originaria dell’umanità e si riversa sull’universo intero. La Chiesa, sacramento universale dell’amore di Dio per il mondo, continua nella storia la missione di Gesù e ci invia dappertutto affinché, attraverso la nostra testimonianza della fede e l’annuncio del Vangelo, Dio manifesti ancora il suo amore e possa toccare e trasformare cuori, menti, corpi, società e culture in ogni luogo e tempo.
La missione è risposta, libera e consapevole, alla chiamata di Dio. Ma questa chiamata possiamo percepirla solo quando viviamo un rapporto personale di amore con Gesù vivo nella sua Chiesa. Chiediamoci: siamo pronti ad accogliere la presenza dello Spirito Santo nella nostra vita, ad ascoltare la chiamata alla missione, sia nella via del matrimonio, sia in quella della verginità consacrata o del sacerdozio ordinato, e comunque nella vita ordinaria di tutti i giorni? Siamo disposti ad essere inviati ovunque per testimoniare la nostra fede in Dio Padre misericordioso, per proclamare il Vangelo della salvezza di Gesù Cristo, per condividere la vita divina dello Spirito Santo edificando la Chiesa? Come Maria, la madre di Gesù, siamo pronti ad essere senza riserve al servizio della volontà di Dio (cfr Lc 1,38)? Questa disponibilità interiore è molto importante per poter rispondere a Dio: “Eccomi, Signore, manda me” (cfr Is 6,8). E questo non in astratto, ma nell’oggi della Chiesa e della storia.
Capire che cosa Dio ci stia dicendo in questi tempi di pandemia diventa una sfida anche per la missione della Chiesa. La malattia, la sofferenza, la paura, l’isolamento ci interpellano. La povertà di chi muore solo, di chi è abbandonato a sé stesso, di chi perde il lavoro e il salario, di chi non ha casa e cibo ci interroga. Obbligati alla distanza fisica e a rimanere a casa, siamo invitati a riscoprire che abbiamo bisogno delle relazioni sociali, e anche della relazione comunitaria con Dio. Lungi dall’aumentare la diffidenza e l’indifferenza, questa condizione dovrebbe renderci più attenti al nostro modo di relazionarci con gli altri. E la preghiera, in cui Dio tocca e muove il nostro cuore, ci apre ai bisogni di amore, di dignità e di libertà dei nostri fratelli, come pure alla cura per tutto il creato. L’impossibilità di riunirci come Chiesa per celebrare l’Eucaristia ci ha fatto condividere la condizione di tante comunità cristiane che non possono celebrare la Messa ogni domenica. In questo contesto, la domanda che Dio pone: «Chi manderò?», ci viene nuovamente rivolta e attende da noi una risposta generosa e convinta: «Eccomi, manda me!» (Is 6,8). Dio continua a cercare chi inviare al mondo e alle genti per testimoniare il suo amore, la sua salvezza dal peccato e dalla morte, la sua liberazione dal male (cfr Mt 9,35-38; Lc 10,1-12).
Celebrare la Giornata Missionaria Mondiale significa anche riaffermare come la preghiera, la riflessione e l’aiuto materiale delle vostre offerte sono opportunità per partecipare attivamente alla missione di Gesù nella sua Chiesa. La carità espressa nelle collette delle celebrazioni liturgiche della terza domenica di ottobre ha lo scopo di sostenere il lavoro missionario svolto a mio nome dalle Pontificie Opere Missionarie, per andare incontro ai bisogni spirituali e materiali dei popoli e delle Chiese in tutto il mondo per la salvezza di tutti.
La Santissima Vergine Maria, Stella dell’evangelizzazione e Consolatrice degli afflitti, discepola missionaria del proprio Figlio Gesù, continui a intercedere per noi e a sostenerci.
Roma, San Giovanni in Laterano, 31 maggio 2020, Solennità di Pentecoste
La
Beatificazione di P. Giuseppe Ambrosoli mette in evidenza un testimone della
missione tra gli acholi in Uganda, dove ha trascorso i 31 anni del suo servizio
missionario. Per noi comboniani un tale evento ci riempie di gioia e allo
stesso tempo di responsabilità. La Beatificazione si terrà in terra d’Uganda,
Kalongo, il 22 novembre 2020, Solennità di Cristo Re dell’Universo.
Dopo
aver sentito il parere del Padre Generale e suo Consiglio; consultato la Chiesa
locale di Gulu attraverso il suo Arcivescovo, Mons. John Baptist Odama; la
Chiesa locale di Como nella persona del suo Vescovo, Mons. Oscar Cantoni, e
anche il parere della famiglia Ambrosoli c’è stato un parere unanime che la
Beatificazione avvenga a Kalongo dove P. Giuseppe ha svolto in pienezza e totalmente
il suo servizio missionario. La data più significativa è sembrata il 22
novembre, Solennità di Cristo Re dell’Universo. Ora, trattandosi di un atto
pontificio, doveva essere consultato il prefetto della Congregazione delle
Cause dei Santi, Card. Giovanni Angelo Becciu, il quale ha convintamente
espresso la volontà di presiedere la cerimonia della Beatificazione, proprio
per il significato missionario che essa riveste. Naturalmente tutto dovrà
essere sottoposto all’approvazione della Santa Sede, la quale si esprimerà con
un decreto ufficiale.
La
Beatificazione di P. Giuseppe Ambrosoli mette in evidenza un testimone della
missione che più volte ha espresso il desiderio di essere sepolto tra i suoi
acholi, dove ha trascorso i 31 anni del suo servizio missionario. Per noi
comboniani un tale evento ci riempie di gioia e allo stesso tempo di
responsabilità. Anzitutto il luogo dove avverrà l’evento, Kalongo (Nord Uganda)
che faceva parte del Vicariato Apostolico dell’Africa Centrale di cui il
Comboni fu il primo Vicario Apostolico e inoltre il luogo dove P. Giuseppe
Ambrosoli ha espresso il meglio di sé nell’opera dell’ospedale e nella scuola
per Ostetriche.
Una
continuità significativa dunque dal punto di vista materiale, l’Uganda, estremo
lembo del Vicariato dove il Comboni ha invano sognato di arrivare e che ora
invece si realizza, attraverso P. Giuseppe, quale primo figlio dell’Istituto a
essere beatificato. Significato ancora più pregnante dal punto di vista
spirituale, e per una duplice ragione: perché anche P. Ambrosoli, come il
nostro santo Fondatore che l’ha preceduto, entra a far parte di quel fondamento
nascosto su cui si erge maestosa la Chiesa africana e poi perché riceve
ulteriore conferma il metodo inciso indelebilmente nel «Piano»: “Salvare l’Africa
con l’Africa”! Molti dunque sono i motivi per ringraziare e continuare con
novello slancio missionario per il bene della Chiesa e della società.
Forse
può sembrare un annuncio estemporaneo e fuori luogo perché ben altre sono le
preoccupazioni del momento. Tuttavia proprio per quello che padre Ambrosoli ha
rappresentato in campo sanitario: per le conoscenze e la competenza con cui ha
operato e per l’afflato spirituale con cui ha affrontato emergenze e malattie,
capiamo quanto la sua figura sia attuale e la sua intercessione necessaria. La
beatificazione si farà, sempre coronavirus permettendo, a Kalongo il 22 novembre
2020. Il luogo è altamente significativo: padre Giuseppe, sepolto tra i “suoi”,
tra i “suoi” sarà anche glorificato.
Ci
sarà la Beatificazione di padre Ambrosoli in Uganda? La domanda ha un senso
perché, tenendo presente la situazione di pandemia globale che ha colpito il
pianeta, la risposta non può che essere interlocutoria. Si, si terrà a Kalongo
il 22 novembre 2020, sempre che il COVID-19 lo permetta. Allo stato dei fatti
abbiamo i seguenti documenti a supporto di tale affermazione. La richiesta ufficiale
della Postulazione del 28 gennaio 2020 in cui si presenta al Santo Padre la
disponibilità del Card. Giovanni Angelo Becciu di recarsi a Kalongo il 22
novembre 2020 a rappresentarlo nella cerimonia di Beatificazione. Di seguito,
dietro sollecitazione della Postulazione, la Segreteria di Stato inviava il 16
marzo u.s. una lettera alla Nunziatura di Kampala. In tale documento, per la
verità datata 9 marzo 2020, si afferma che il Santo Padre ha deciso che il rito
di Beatificazione si farà a Kalongo il 22 novembre 2020 e il suo rappresentante
sarà il Card. Giovanni Angelo Becciu, Prefetto della Congregazione delle Cause
dei Santi. La lettera è confermata dalla Nunziatura che l’ha inviata
all’arcivescovo di Gulu, Mons. John Babtist Odama, il 17 u.s.. In una E-mail
del 23 marzo il Vicario Generale della Diocesi di Gulu, mons. Matthew Odong, conferma la recezione della lettera:
«At this point, it is very clear that the rite of beatification of the Servant
of God Father Doctor Giuseppe Ambrosoli will take place “SACRED HEART” KALONGO
PARISH». Di
fatto poi l’Arcivescovo il 21 e 22 marzo (sabato e domenica) si è recato a
Kalongo ed ha annunciato pubblicamente in parrocchia luogo e data dell’evento. “The news has been received with great joy by our
people here in the Archidiocese of Gulu». Nel frattempo si
sono tenute alcune riunioni con il Consiglio Generale e i provinciali d’Uganda
e d’Italia per coinvolgere le rispettive province, compatibilmente ai movimenti
condizionati che la situazione del momento permette. A nessuno però sfugge il
significato missionario di questa beatificazione che avviene in missione come
ultima espressione della missionarietà: lo scambio di doni tra Chiese sorelle e
quasi una identificazione in cui credibilmente un missionario, nel nostro caso
il prossimo Beato Ambrosoli, è glorificato in mezzo ai “suoi” di Kalongo. Per
adesso non cessiamo di invocarlo in un momento così preoccupante dell’umanità,
lui che ha affrontato la malattia con illuminata determinazione, ma soprattutto
con fede e carità soprannaturali.
IL LUNGO CAMMINO VERSO LA BEATIFICAZIONE
Il cammino della beatificazione di p.
Giuseppe è iniziato nel 1999, dodici anni dopo la sua morte, ossia quasi subito
dopo che il suo corpo è stato trasportato il 22 agosto 1994 da Lira a Kalongo.
Esattamente come accadeva nei primi tempi della Chiesa: ci si è potuti muovere
perché la fama di santità e l’ammirazione per p. Giuseppe, il grande dottore
dal cuore buono e dalle mani abilissime, ma soprattutto perché l’uomo di Dio,
che curava nel corpo e nello spirito, era ancora molto presente nella memoria
della gente. La gente del tempo, sia a Kalongo, come a Ronago non aveva dubbi
sulla qualità spirituale che p. Giuseppe aveva trasmesso con la sua cura dei
sofferenti e l’attenzione riservata alle mamme che dovevano partorire. Padre
Giuseppe tutelava sì la vita dei corpi, fin dal loro nascere, ma soprattutto
arrivava a guarire l’intimo delle persone.
Così il comboniano, p. Mario Marchetti, poteva
sollecitare il vescovo di Gulu, Mons. Martino Luluga, a costituire una
Commissione d’investigazione. In seguito, l’Arcivescovo di Gulu che gli era
succeduto, Mons. John Baptist Odama, iniziava il processo il 22 agosto 1999 e
lo concludeva il 4 febbraio 2001 sul piazzale antistante la chiesa parrocchiale
di Kalongo. Allo stesso tempo il vescovo di Como, Mons. Alessandro Maggiolini,
il 7 novembre 1999 ascoltava i testimoni che si trovavano a Ronago, e in genere
in Italia, chiudendo il processo il 30 giugno 2001.
A quella data si erano potute condurre a termine le
sessioni ed ascoltare tutti i 90 testimoni che avevano conosciuto p. Giuseppe.
Tra questi 62 laici, 18 missionari e preti diocesani, 10 suore. Tra i laici da
notare la folta schiera dei testimoni di Kalongo, di Ronago, paese natale di p.
Giuseppe e anche dei 12 medici che con lui avevano operato nell’ospedale della
savana. Insomma un’ampia rappresentatività della società civile e religiosa:
catechisti, insegnanti, responsabili di comunità, operai, infermieri e
infermiere, un capo di polizia e anche un generale, che per un brevissimo tempo
era stato Presidente dell’Uganda dopo il secondo Obote. «Per noi – ebbe a dire – la
morte del dottor Ambrosoli è come il crollo di un ponte. Ci vorranno molti anni
per rimpiazzarlo».
Dai documenti e dalle testimonianze emergeva chiara la
vita santa di p. Giuseppe. Riportiamo qui alcune affermazioni significative.
All’apertura del Processo, il 22 agosto 1999, Mons. Odama, in una lettera ai
vescovi della Provincia Ecclesiastica di Gulu e ai membri della Conferenza
Episcopale Ugandese descriveva la figura del Servo di Dio come segue:
«Esempio
di eroica carità e di umile servizio alle persone; un grande esempio di zelante
missionario dei tempi moderni; modello di prete e di dottore divenuto famoso
per la sua intensa spiritualità e per la coscienziosa abilità medica; un
attraente e convincente esempio di giovane moderno che ha risposto totalmente
alla chiamata di Cristo e alla sua forma di vita». «Dal suo modo di accogliere
le persone, di intrattenersi con loro, di consigliarle e di incoraggiarle – depone John Ogaba– si aveva l’impressione di trovarsi davanti a Gesù». Il
dottore Luciano Tacconi, che ha lavorato con lui a Kalongo, non ha paura di
affermare:«Per me il
segreto della “santità” di p. Giuseppe sta nella sua grande
semplicità e nell’attaccamento massimo al dovere. Gli altri medici rispettavano
e ammiravano molto la professionalità di p. Giuseppe, il quale insisteva anche
con me perché, senza fare delle prediche, dessimo il buon esempio come
cristiani con l’attaccamento al lavoro e nel rispetto della dignità delle
persone»: Allora prezioso è quanto Mons. Gianvittorio Tajana afferma
al processo: «Secondo la mentalità, oggi
vigente nella Chiesa, se l’Ambrosoli sarà proclamato santo, sarà il
santo della vita ordinaria». Certamente non una vita scialba, ma una
vita ordinaria, di ogni giorno, in cui ha fatto costantemente delle cose
straordinarie. E non può essere che così quando si incontra uno come p.
Giuseppe, come lo ricorda in un sermone Mons. Alessandro Maggiolini, vescovo di
Como:«Padre Ambrosoliha
dato volto al Vangelo con la sua vita messa radicalmente al servizio di Cristo,
dell’evangelizzazione e degli ultimi»
Il materiale raccolto a Gulu e a Como, sia testimonianze
che documenti, giungeva a Roma in Congregazione delle Cause dei Santi nel mese
di giugno dell’anno 2001 e il 7 maggio 2004 gli si riconosceva la validità
giuridica per ricostruire la vita terrena e provare la santità della persona e
dell’opera di p. Giuseppe. Dal 2004 al 2014 ci sono voluti poi complessivamente
10 anni di lavoro che hanno coinvolto il Postulatore della Causa, la
Congregazione vaticana, ossia i Teologi, i Cardinali e i Vescovi prima del
giudizio definitivo di Papa Francesco, l’unico che poteva decretare le virtù
eroiche.
Quindi nel 2009 il Postulatore della Causa faceva
stampare la Positio, la quale era
consegnata ai Consultori Teologi che nel Congresso Peculiare del 4 dicembre
2014 si esprimevano favorevolmente: 9 su 9. Uno di essi afferma:
«La figura di
Giuseppe Ambrosoli gode, e per molti aspetti, di una sua attualità specifica. È
stato un religioso, comboniano che si è impegnato a vivere i consigli
evangelici e la vocazione missionaria in una professione specifica di stile
“laicale”, come è quella del medico chirurgo. L’impegno scrupoloso
nell’attività professionale nulla ha rubato alla sua vita di preghiera e alle
esigenze della comunità: l’Eucaristia, celebrata e adorata, è sempre stato il
centro della sua giornata. Può essere perciò valido modello per i comboniani
suoi confratelli, come per ogni religioso e religiosa di vita attiva, ed anche
per i membri degli Istituti di vita consacrata. Come medico chirurgo ha molto
da dire con il suo esempio ai medici e operatori sanitari, ed è anche motivo di
speranza per volontari impegnati in organizzazioni sanitarie, spesso “no
profit” e di volontari che soccorrono infermi di malattie spesso contagiose e
mortali».
I
Padri Cardinali e Vescovi nella Sessione Ordinaria del 15 dicembre 2015,
presieduta dal Card. Angelo Amato, riconoscevano che il Servo di Dio aveva
esercitato in grado eroico le virtù teologali (fede, speranza e carità), le
virtù cardinali (prudenza, giustizia, temperanza e fortezza) e quelle annesse
(voti di castità, povertà e obbedienza e l’umiltà). Il Cardinale poi riferiva
tutto a Papa Francesco il quale, due giorni dopo il 17 dicembre, sempre del
2015, confermava l’eroicità delle virtù e scriveva un decreto con cui
riconosceva al Servo di Dio, Giuseppe Ambrosoli, il nuovo titolo di Venerabile
con cui poteva venir invocato.
Secondo
Papa Francesco la santità di p. Giuseppe poteva essere sintetizzata da due
frasi che si leggono in due sue lettere: «Le
persone devono sentire l’influsso di Gesù che porto con me;
devono sentire che in me c’è una vita soprannaturale espansiva ed irradiantesi
per sua natura»
infatti « Dio è amore. Io sono il suo
servo per quelli che soffrono». Si trattava di una motivazione spirituale
che dalla gioventù fino alla morte aveva percorso tutta la sua vita e
illuminato la sua riconosciuta professione medica. In fondo questa motivazione
spirituale risponde a una domanda che nasce di fronte alla vita missionaria del
padre: «Come è stato possibile che un uomo sia
riuscito a fare tutto quello che ha fatto e come l’ha fatto, con fedeltà,
semplicità, serenità, dono totale di se stesso e gioia fino agli ultimi e
drammatici giorni della sua vita?». La risposta andava e va cercata – sembra
dire il Papa – nella sua profonda vita spirituale. Padre Giuseppe Ambrosoli è
stato una persona che ha vissuto la vita cristiana di ogni giorno in maniera
straordinaria, cioè una vita NORMALE assolutamente FUORI DAL NORMALE. Ha
esercitato il servizio medico, non semplicemente come conseguenza della sua
fede e del suo amore, ma come parte integrante del Vangelo che predicava. Con
lui anche il servizio medico era parte imprescindibile dell’evangelizzazione.
Ci si poteva arrestare qui. E invece, no.
Per la beatificazione
mancava un ultimo gradino: il miracolo. Il sigillo che la Chiesa affida a Dio
per proporre il suo servo come intercessore ed esempio per il suo Istituto e
per la Chiesa locale, che l’ha visto nascere, e poi quella che l’ha accolto
nello svolgimento della sua missione, l’ha visto morire e ne ha conservato il
suo corpo e la memoria.
Di guarigioni e cure
straordinarie p. Giuseppe ne aveva ottenute già in vita, ma tra tutte brillava
una avvenuta nel 2008 all’ospedale di Matany, all’estremo nord est del Nord
Uganda, in Karamoja. Si trattava di una
mamma karimojong di 20 anni, Lucia Lomokol di Iriir, madre già di un bambino e
arrivata in condizioni disperate all’ospedale per un altro già morto in grembo
che le aveva causato un’infezione mortale. Tant’è che uno dei medici, il dott.
Erik Domini, responsabile del reparto Maternità, il 25 ottobre 2008 al momento
dell’accettazione tentava un’ultima disperata operazione ma senza risultato.
Poi per il progressivo peggioramento la faceva trasferire
dalla corsia generale alla sala travaglio perché pensava che non era
conveniente per le altre pazienti (mamme in attesa di parto e allattanti)
essere testimoni della morte di una giovane mamma. e perciò la faceva
trasferire nella sala travaglio. Alla
sera dello stesso giorno il dott. Erik, constatando un continuo peggioramento,
faceva chiamare il parroco di Matany, p. Marco Canovi, il quale amministrava
l’unzione degli infermi a Lucia. Riportando a casa p. Marco, il dott. Erik si
ricordava di un santino di p. Giuseppe con apposita preghiera che conservava
nel suo appartamento e ritornava in ospedale accanto a Lucia munito di quello
che lui considerava essere stata un’ispirazione inattesa. Dopo aver ricevuto
l’assenso della stessa Lucia, di sua madre e di suo marito collocava il santino
sulla spalliera del letto della moribonda e radunava le infermiere per
l’invocazione. Terminato tutto verso mezzanotte si accomiatava da loro
chiedendo di essere avvisato la mattina seguente per il funerale di Lucia. Alle
cinque del mattino si presentava e, con sua grande sorpresa, trovava Lucia
completamente cosciente e presente a se stessa. Tutti i presenti attribuivano
l’improvvisa cura all’invocazione di P. Giuseppe.
Il
vescovo di Moroto, Mons. Henry Apaloryamam
Ssentongo a cui apparteneva la parrocchia di Matany,
venuto a conoscenza del fatto, ha voluto che con un processo si raccogliesse
tutta la documentazione per sottoporla allo studio delle Cause dei Santi:
questa avrebbe detto se si trattava di un evento inspiegabile scientificamente
e se c’erano le condizioni da poter attribuire la guarigione alla potenza
divina. Così il 17 settembre 2010 iniziava il processo sul presunto miracolo,
riunendo anzitutto i testimoni presenti al fatto: il
dott. Erik Domini, ostetrico ginecologo, medico curante; il dott. Alphonse
Ayepa, medico anestesista; il sig. Daniel Irusi, infermiere; la sig.ra Betty
Agan, ostetrica professionale; la sig. ra sanata, Lucia Lomokol, contadina e
casalinga; il sig. Akol Lobokokume, membro dell’esercito e marito di Lucia; la
sig.ra Sabina Kodet, la mamma della sanata; la sig.ra Mary Annunciata Longole,
ostetrica; la sig.ra Lilian Adwar, assistente infermiera; la sig.ra Fotunate
Magdalene Alany, ostetrica e p. Marco Canovi, parroco di Matany. In più erano
chiamati di dovere, un medico specialista anestesiologo, il dott. Bruno
Turchetta e i due periti che
dovevano esaminare lo stato reale di Lucia, i
dottori: John Bosco Nsubuga e Leo Odong. Raccolta poi anche tutta la
documentazione clinica il processo si concludeva a Moroto quasi un anno dopo,
il 21 giugno 2011. Portati tutti i documenti a Roma, la Congregazione delle Cause dei Santi un anno dopo, l’11
maggio 2012, riconosceva validità giuridica a tutta la documentazione. Tuttavia si dovevano aspettare
ancora 6 anni, dal 2012 fino al 2018, perché il caso di Lucia potesse essere
esaminato.
La situazione Ambrosoli si sbloccava il 28
novembre 2018 con la Consulta Medica
costituita da 7 professori che riconoscevano, per maggioranza qualificata
(5/2), il fatto della cura da shock settico (setticemia irreversibile)
che si era risolta in maniera
assolutamente inaspettata, rapida,
completa, duratura e inspiegabile alla luce delle
attuali conoscenze mediche. Cioè
Lucia si trovava curata in maniera inspiegabile scientificamente, sia
perché la terapia chirurgica effettuata era stata incompleta non essendo stato
asportato l’utero, primaria causa e focolaio di infezione, sia perché era stato
sospeso il farmaco considerato salvavita, la dopamina, non essendocene più in
ospedale. Nel loro linguaggio specialistico i
professori avevano fatto scrivere: «Shock settico secondario dacorioamnionite
purulenta putrefattiva ((taglio cesareo ed estrazione del feto morto e
putrefatto).
Tromboflebite pelvica e tromboflebite profonda della grande safena dell’arto
inferiore sn. con dermatite gangrenosa della metà inferiore della gamba”. Questo era il passaggio decisivo che permetteva di
procedere oltre.
Ora bisognava dimostrare che
l’invocazione era avvenuta nel momento del peggioramento fatale dello stato di
Lucia; che in quel momento si era invocato p. Giuseppe Ambrosoli e che dopo
tale invocazione si era verificato un cambiamento repentino positivo. C’erano
10 testimoni oculari a testimoniare che per iniziativa del dott. Erik Domini
era stato invocato p. Ambrosoli e altrettanti che avevano assistito quella
notte al viraggio dello stato di salute di Lucia. Chi conosce la materia può
ragionevolmente affermare che da mezzanotte alle cinque, come è il nostro caso,
un tale cambiamento può essere definito rapido. Infatti 7 mesi dopo
l’inspiegabilità della cura, affermata dai medici, il 13 giugno 2019 il Congresso Peculiare dei Consultori
teologi ha potuto appurare l’evento della preghiera rivolta a p. Ambrosoli e il
miglioramento repentino dello stato di salute di Lucia Lomokol.
Con questi dati, cinque mesi dopo, il 19
novembre 2019 i Cardinali e i Vescovi nella loroSessione Ordinariapresieduta dal Card. Giovanni Angelo
Becciu decidevano di portare il caso al Santo Padre. Questi, 9 giorni dopo, il
28 novembre 2019 riconosceva il carattere soprannaturale della cura di Lucia,
quindi il miracolo e comandava di preparare un Decreto con valore giuridico e
da inserire negli Atti della Congregazione dei Santi: Ecco le testuali parole:
«Constare de miraculo a Deo patrato per
intercessionem Ven. Servi Dei Iosephi Ambrosoli, Sacerdotis professi
Missionariorum Combonianorum Cordis Iesu, videlicet de celeri, perfecta ac
constanti sanatione cuiusdam mulieris a (Si tratta di un miracolo compiuto
da Dio per intercessione del Venerabile Servo di Dio Giuseppe Ambrosoli,
sacerdote professo dei Missionari Comboniani del Cuore di Gesù, vale a dire di
una cura rapida, perfetta e duratura di
una signora) da Shock settico secondario da corioamnionite purulenta putrefattiva.
Tromboflebite pelvica e tromboflebite profonda della grande safena dell’arto
inferiore sn. con dermatite gangrenosa della metà inferiore della gamba».
Se si sta bene attenti, in tutto questo lungo
percorso fino alla Beatificazione, il Santo Padre si è lasciato guidare dalla
presenza di due principi spirituali: l’eroicità
delle virtù e la preghiera di intercessione. Ora l’evento del miracolo e
della beatificazione possono porre due domande: perché questa grazia a una
karimojong e a una mamma e perché l’evento della celebrazione proprio a
Kalongo? Secondo logiche umane tutto
avrebbe dovuto sconsigliare tale coincidenza: spesso tra etnie diverse non
corre buon sangue e la condizione femminile è l’anello più sottoposto a
sfruttamento nella società e inoltre Kalongo è un luogo al di fuori dei
circuiti che contano. Eppure è proprio qui che la maniera di vivere la missione
di p. Giuseppe Ambrosoli ha dato esempi che non potranno mai più essere dimenticati:
qui ha accolto e difeso sempre tutti; qui si è messo a servizio della vita
nascente e qui ha esercitato la sua straordinaria professionalità medica nella
semplicità e nell’umiltà.
L’evento della Beatificazione di p. Giuseppe
Ambrosoli non potrà dunque essere vissuto, nell’oggi della vita cristiana, che
come evento di fede, di comunione e di gioia.
Alcuni membri della famiglia comboniana (un sacerdote, un fratello, una sorella e alcuni laici del gruppo di spiritualità comboniana), molti dei quali originari della diocesi di Balsas, hanno tenuto una settimana di animazione missionaria e vocacionale a Balsas (MA) nelle parrocchie di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso e di Sant’Antonio. Ci sono state diverse celebrazioni con bellissime testimonianze, momenti vissuti in un’atmosfera familiare e passione missionaria. L’attività si è svolta anche in vista della Grande Settimana Missionaria della Parrocchia che si svolgerà a novembre nella stessa città e ha anche celebrato i 25 anni di vita consacrata di suor Maria do Socorro Ribeiro, Missionaria comboniana di Balsas, celebrata nella festa dell’Assunta di Maria e giorno della vita religiosa e consacrata in Brasile. La settimana missionaria e professionale è stata un’iniziativa della Parrocchia di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso ed è stata realizzata con l’impegno e la partecipazione del Gruppo di Spiritualità Comboniana e di alcuni religiosi e missionari invitati.
I rappresentanti dei
gruppi dei laici dei vari istituti missionari [Suam – Segretariato unitario
dell’animazione missionaria] e fidei
donum della diocesi di Roma si sono radunati dal 14 al 16 giugno 2019
presso la Casa generalizia dei Missionari Comboniani a Roma. Erano in tutto una
trentina di persone: missionari di Villaregia, Saveriani, Consolata, PIME,
Francescani, Comboniani/e, e altri istituti. Tra questi, due coppie di laici hanno
condiviso le loro esperienze, una a Palermo (Laici Missionari Comboniani) e l’altra a Padova (Comunità Malbes, con
le missionarie comboniane).
L’incontro aveva come obiettivo mettere a confronto le esperienze di
missione all’estero e nel territorio di appartenenza per migliorare la presenza
missionaria nella Chiesa locale, nei gruppi e nella società civile. Sono stati
due giorni di confronto, ascolto, riflessione e programmazione.
È stata un’occasione in cui le diverse realtà, al di là delle proprie
identità, hanno avuto la possibilità di condividere e scambiarsi percorsi,
desideri e preoccupazioni missionarie.
In particolare, i partecipanti sono stati arricchiti dalla riflessione di
Marco Vergottini (teologo laico, stretto collaboratore del cardinale Martini e
Vice-Presidente dell’Associazione Teologica Italiana) il quale, attraverso la sua
relazione dal titolo “Il cristiano testimone. Identità e missione”, li ha guidati
in una rilettura critica di alcuni documenti conciliari, invitandoli a superare
la categoria di “laico”, a favore dell’espressione “testimone cristiano”,
nell’intento di ribaltare distanze gerarchiche che nei secoli hanno determinato
sistemi di potere e incomprensioni.
Testimonianze missionarie ad gentes e in Italia
Ci sono state le testimonianze di una laica dell’Alp (Associazione laici
del PIME), sulle esperienze missionarie nel sud del mondo, e di una coppia,
Fulvio ed Elisa, del CDM (centro missionario diocesano di Roma), che hanno descritto la loro
affascinante esperienza missionaria in Mozambico e il loro ritorno alla Chiesa romana,
con le difficoltà incontrate nell’essere accolti e valorizzati dalla Chiesa
capitolina.
Domenica, infine, due coppie hanno raccontato le esperienze comboniane – di
comunità e condivisione – di Malbes e della Zattera: “esperienze missionarie a
Km0 (kilometro zero)”, hanno detto.
Malbes è la comunità comboniana di Padova, dove vivono una famiglia (Carla
e Mario e le loro figlie) insieme a due suore comboniane (Carmela e Marina) che
da quattro anni fanno un servizio di animazione missionaria a partire dalla
canonica, arricchiti dall’esperienza di accoglienza di due donne africane e dei
loro figli.
Di seguito, è stata raccontata l’esperienza della Zattera, una comunità di
laici missionari comboniani, nella quale la coppia Dorotea e Tony Scardamaglia
e Maria (singola) da più di dieci anni vivono la condivisione e l’interazione tra
di loro e con tanti immigrati/e che giungono dall’Africa, desiderosi di trovare
un futuro migliore.
Alla fine, si sono tracciate alcune linee programmatiche future… “Il tutto –
ha detto Tony Scardamaglia – nel desiderio di poter continuare un percorso che ci
aiuti a “meticciarci”, a scambiarci percorsi e cammini per un mondo più giusto
e umano”.
IL CRISTIANO
TESTIMONE. IDENTITÀ E MISSIONE
Marco Vergottini
1. Il messaggio del Concilio Vaticano II: dal
laicus al christifidelis
Molto si potrebbe
dire in merito alla riflessione teologica sui fedeli laici. Ma tutto ciò che
supremamente conta è risalire alla lezione del Vaticano II, che con enfasi
forse eccessiva è stato chiamato il «Concilio dei laici», a motivo del fatto
che su 16 documenti promulgati nelle quattro sessioni conciliari, ben 14 fanno
espressamente riferimento al lemma ‘laico’,
‘laicato’.
Certo i tre
luoghi principali su cui ricostruire la questione dei laici sono Lumen Gentium (= LG), il decreto
sull’apostolato dei laici, Apostolicam
Actuositatem (= AA), senza dimenticare Gaudium
et Spes (= GS), che parla poco di laici, ma nella seconda parte affronta i
temi della cultura, del matrimonio e della famiglia, della pace, dell’impegno
in politica.
Occorre però
risalire a un antefatto che risale alla prima metà del secolo scorso, vale a
dire al riscatto dei laici dalla plurisecolare condizione di sudditanza e di
marginalità nell’ambito ecclesiale, grazie all’attività del laicato cattolico
in forma associata (soprattutto nella forma dell’Azione cattolica), e alla
nascita della cosiddetta ‘teologia del laicato’ in area francese. Quest’ultima
ha il suo apice nell’opera di Yves Congar, che nel 1953 scrisse un ponderoso
volume Jalons pour une théologie du laïcat, in cui veniva specificata
l’indole propria dei laici. Ecco una celebre citazione contenuta nel testo:
Il laico sarà
dunque colui per il quale, nell’opera stessa che Dio gli ha affidato, la
sostanza delle cose in se stesse esiste ed è interessante. Il chierico, e più
ancora il monaco, è un uomo per il quale le cose non sono interessanti in se
stesse, ma in relazione ad altro, cioè nel rapporto che le lega a Dio, che
esse fanno conoscere e possono aiutare a servire [Y. Congar,
Per una teologia del laicato, Morcelliana, Brescia 1966, p. 39].
La formulazione «per il laico le cose esistono in se stesse»
è certamente suggestiva e accattivante; non a caso è una delle espressioni più
gettonate del libro di Congar. Quindi la soluzione proposta dalla teologia del
laicato al fine di restituire credibilità e rilievo alla figura dei cristiani
laici non è altro che l’esito di una concezione assai schematica del binomio
Chiesa-mondo, che poggia sul presupposto di uno schema convenzionale che divide
due ordini, l’ordine soprannaturale e l’ordine naturale. Se i chierici e i
religiosi, secondo questo schema, santificherebbero la loro esistenza nella
dedizione al polo soprannaturale (tanto che si parlava di ‘vocazione di speciale consacrazione’) che si interessa
direttamente dell’annuncio del Vangelo, viceversa ai laici, di cui si dice «attendono alle realtà temporali», è dato
realizzare la loro vocazione cristiana nel quadro dell’opera della creazione.
Essi vivono nel mondo: questo il tratto qualificante dello stato di vita
laicale; col risultato che si cercava di definire la figura dei laici per
differenza rispetto alla vocazione clericale-religiosa, nella linea di una
specializzazione che finiva per sottovalutare l’elemento comune di ogni
vocazione cristiana, l’identità cristiana, che non può essere affatto
considerata alla stregua di una determinazione generica. Un tale (pre)giudizio
trascina con sé l’idea di dover correggere quella deriva clericale che ha fatto
del prete il dominus sulla scena
ecclesiale. Ecco allora per qual motivo Congar ha inteso assegnare ai laici il
compito di testimoniare con la loro opera l’intuizione che la Chiesa, per
giungere alla pienezza della sua missione secondo il piano divino, non può esonerarsi
dall’impegno nelle strutture del mondo e nell’opera temporale. La precarietà
dello schema di Congar non sfuggì a un recensore contemporaneo, che lucidamente
argomentò: «il clero di padre Congar è
platonico, il laicato è aristotelico; il mondo non esiste abbastanza per questo
clero ed esiste troppo per questo laicato» (É. Borne). Una pennellata molto
felice. Del resto lo stesso Congar agli inizi degli anni ’70 fece
un’autocritica, ricordando che «l’inconveniente
della mia posizione era forse di distinguere troppo bene». Però distinguere ‘troppo bene’
significa distinguere ‘male’.
Nella redazione
della LG, si registrò una svolta decisiva allorché nel primitivo schema de Ecclesia il III capitolo (dopo quello
sulla Chiesa-mistero e quello sull’episcopato) si intitolava «Il popolo di Dio e specialmente i laici».
Fu il cardinale Suenens a obiettare che tale successione implicava che dalla
nozione di popolo di Dio fossero esclusi (!) i ministri ordinati, secondo un
ordine piramidale e gerarcologico. Invece sono tutti i battezzati a far parte
del popolo di Dio, così che l’ordine fu così ristabilito: la Chiesa-mistero (I
cap.), la Chiesa-popolo di Dio (II cap.), l’episcopato (III cap.), i laici (IV
cap.), l’universale chiamata alla santità (V cap.), i religiosi (VI cap.) ecc.
Nel II e decisivo
capitolo, LG afferma che le categorie di Gesù Cristo, re, sacerdote e profeta sono da attribuire all’intera Chiesa, così
che ogni christifidelis è re, sacerdote e profeta. Ogni cristiano
è sacerdote (anche le donne!). C’è un sacerdozio universale che è fondamentale,
sul quale poi si innesta il sacerdozio gerarchico. «Partecipando al sacrificio eucaristico, fonte e apice di tutta la vita
cristiana, i credenti offrono a Dio la vittima divina e se stessi con essa»
(LG 11) Quindi a partire dal sacerdozio comune dei fedeli noi possiamo
affermare che la vittima, l’ostia, è principalmente Gesù Cristo, ma è anche la
vita di ogni credente. Dovremmo al riguardo rinviare a Sacrosanctum concilium, dove si dice che a celebrare l’eucaristia è
l’assemblea dei fedeli, non soltanto chi la presiede.
LG 12 è poi un
testo capitale, uno dei germi del Concilio che ancora deve maturare, ma con
papa Francesco siamo autorizzati a sperare nell’idea di una Chiesa sinodale: «La totalità dei fedeli, avendo l’unzione che
viene dal Santo, non può sbagliarsi nel credere». A chi era abituato a
pensare un po’ semplicisticamente che solo il Papa è infallibile, si ricorda
che l’infallibilità riguarda l’intero corpo dei fedeli, che non possono
sbagliarsi nel credere. È questa la dottrina del sensus fidei. E ancora, LG 13 afferma: «Tutti gli uomini sono chiamati a formare il popolo di Dio».
Nel cap. IV di LG
il discorso riprende invece la trattazione tradizionale, laddove si dice:
il carattere
secolare è proprio e peculiare dei laici […] Per loro vocazione è proprio dei
laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo
Dio. Vivono nel secolo, cioè implicati in tutti i diversi doveri e lavori del
mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale, di cui la
loro esistenza è come intessuta (LG 31).
Non sono poche le
difficoltà racchiuse in questo testo, a partire dalla indeterminatezza di
alcune categorie utilizzate. Che cosa sono le «cose temporali»? Ad esempio, il
matrimonio e la famiglia sono realtà temporali? E che cosa significa «ordinare
secondo Dio»? L’edificazione della Chiesa può essere affidata soltanto ai
sacerdoti? O ancora i consigli evangelici (riservati ai religiosi nel cap. VI
di LG) – vale a dire, la povertà, la castità e l’obbedienza – non fanno parte
di quella santità e perfezione di vita evangelica che riguarda tutti? Resta poi
da chiedersi in che senso i compiti affidati ai laici non meritino di essere
riferiti alla responsabilità e alla competenza della Chiesa tutta. Da un lato,
si sostiene che i soli laici sono «implicati
in tutti i diversi doveri e lavori del mondo e nelle ordinarie condizioni della
vita familiare e sociale, di cui la loro esistenza è come intessuta»;
dall’altro, non passa giorno che il papa, i vescovi, i nostri sacerdoti, nella
loro predicazione e nel loro insegnamento esorbitino rispetto alla sfera
strettamente spirituale, mandando dei messaggi per la pace nel mondo, per la
custodia del creato, per l’attenzione, per la responsabilità sul lavoro, per
l’apertura nei confronti dei fratelli immigrati… Dovremmo dire che questi sono
temi che riguardano solo i laici? No, perché è tutta la Chiesa che ha il
compito di vivere la testimonianza cristiana nella storia.
Per concludere.
Nei testi conciliari (e il discorso può essere puntualmente illustrato alla
luce di GS, più ancora nel decreto
AA), è dato riscontrare un duplice movimento, una duplice tensione irrisolta:
da un lato, si focalizza l’attenzione sulla figura del cristiano (christifidelis), quindi in un certo
senso si relativizza e si supera il discorso riguardo alla specificità
dell’essere laico. D’altro lato, il Concilio muove invece nella scia della
tradizionale “teologia del laicato”, mettendo in luce la fisionomia peculiare
del laico (secolarità), riconoscendolo come quel credente che testimonia la
fede cristiana sulla scena del mondo, anche se poi ci si preoccupa di
recuperare il carattere propriamente ecclesiale della sua missione.
2. In vista di un’autentica consapevolezza
della vocazione cristiana
A nessuno sfugge che il discorso non è affatto concluso, allorché si è
pervenuti sul piano dei principi a recuperare la prospettiva che ultimamente
contrassegna l’esistenza dei credenti in Cristo. Se è vero infatti che
sussistono tuttora non poche resistenze nell’assimilare e interiorizzare questa
esigenza della chiamata universale alla radicalità evangelica, occorre
realisticamente interrogarsi sulle ragioni che hanno concorso a relegare in una
condizione passiva e gregaria la maggioranza dei credenti, al fine poi di
promuovere tutte quelle dinamiche ed energie che possono contribuire a fare sì
che tutti i battezzati divengano sempre più consapevoli delle responsabilità
spirituali, ecclesiali ed etiche connesse all’opzione cristiana.
Nella congiuntura odierna della Chiesa, l’istanza di una fattiva
abilitazione dei fedeli laici alla missione e alle responsabilità che competono
loro in quanto credenti nel Signore suggerisce di affrontare alcune questioni
irrisolte sul fronte dell’appartenenzaecclesiastica, della
qualità dell’agire morale, e della vita
secondo lo Spirito.
2.1 Appartenenza ecclesiastica
Riguardo al primo aspetto, il discorso deve procedere dalle condizioni di
obiettivo disagio vissuto dalla maggioranza dei credenti, i laici, in ordine al
problema dell’appartenenza alla comunità cristiana e dei rapporti con le altre
componenti. In chiave di ricognizione fenomenologica occorre impegnarsi in una puntuale
diagnosi dei molti effetti distiorti che si riproducono nella vita
ecclesiastica (per es. basti solo accennare a questioni quali la scarsa
valorizzazione delle donne, la divaricazione che disingue i cosiddetti laici
“impegnati” dai cristiani “solo praticanti”, il persistere dello scoglio del
clericalismo, la tensione istituzione/movimenti, ecc.). Se il traguardo da raggiungere è di restituire
piena responsabilità e competenza ecclesialea ogni credente, i problemi
nascono precisamente quando ci si chiede a quali condizioni, attraverso quali
itinerari formativi e alla luce di quale pedagogia ecclesiastica è possibile
realizzare, o almeno favorire il più possibile, un tale modello di partecipazione
corresponsabile nella Chiesa.
2.2 La qualità dell’agire morale
Sul secondo aspetto, quello tradizionalmente assegnato ai laici in virtù
della loro più diretta immersione nelle vicende civili, il discorso dovrà
muovere dal diffuso senso di estraneità patito oggi dalla coscienza credente
nei confronti delle dinamiche del vivere sociale e politico. Nell’attuale
contesto epocale, contrassegnato dalla conflittualità-complessità del sistema
sociale e della vicenda storico-civile, per il cristiano il vero nodo sotto il
profilo etico va rinvenuto nella possibilità di individuare, oltre la
prospettiva di un “impossibile” radicalismo evangelico, come pure di un troppo accomodante
spirito di adattamento o di
compromesso una terza via, la via buona, praticabile dell’esistenza
morale. Anche qui, si tratta del compito ecclesiale di formare nei cristiani
una coscienza retta e matura,
istruita nell’esercizio del discernimento e capace
di rendere testimonianza alla sequela di Gesù
2.3 La vita secondo lo Spirito
In terzo luogo, una volta dissipato l’equivoco di una via minore o
maggiore alla chiamata del Signore, si deve riconoscere come l’unica spiritualità
evangelica è quella di chi si dispone a seguire Gesù nella declinazione
concreta della propria esistenza. La possibilità di questa figura spirituale –
ma che poi è la stessa possibilità della fede in quanto tale – è legata
precisamente alla formazione del cristiano, anche sotto il profilo
teologico. Si tratta dunque di rendere possibile, praticabile, plausibile ciò
che è doverosamente richiesto dall’Evangelo. Ora questa possibilità dev’essere
reclamata e promossa non già per qualche vocazione cristiana o per qualche élite,
ma per ogni cristiano: al di là di questo niente infatti dev’essere richiesto
di più, ma niente dovrebbe essere richiesto di meno.
Parlare di
“vocazione universale alla santità nella Chiesa” richiede, per un verso, di
porre l’accento sul carattere di universalità di tale chiamata, escludendo,
dunque, ogni prospettiva elitaria, come pure qualsiasi interpretazione di tipo
individualistico della vita spirituale: se è un popolo ad essere chiamato alla
santità, dev’essere rimarcato il carattere di effettiva possibilità e
praticabilità della risposta, di tutti e di ciascuno, alla elezione del
Signore; il Signore chiama tutti, nessuno escluso.
3. La lezione dell’A Diogneto
Con un’efficacia insuperata nella Lettera A Diogneto – scritta da un autore
cristiano anonimo del II secolo – è messo a fuoco il carattere originale,
“paradossale”, dell’identità e della prassi dei cristiani, sollecitati da una
fedeltà alla cittadinanza celeste e, insieme, da una lealtà nei confronti della
“città dell’uomo”. In primo luogo, la coscienza credente invoca l’esistenza di
un «luogo» – vale a dire il territorio, ma anche la lingua, l’ethos – per vivere e praticare i
comandamenti di Dio; in questo senso i cristiani non rivendicano paese, lingua
e costume propri. In secondo luogo, però, essi professano la trascendenza del
comandamento di Dio rispetto a qualsiasi norma sancita dalla tradizione civile;
al punto che, riconoscendosi ultimamente estranei rispetto a ogni patria, i
cristiani sperimentano nei loro confronti una consistente ragione di ostilità
da parte dei pagani.
Mettiamoci in ascolto di questa straordinaria
pagina della tradizione della Chiesa apostolica:
V. Il mistero cristiano
1. I cristiani né per regione, né
per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini.
2. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si
differenzia, né conducono un genere di vita speciale.
3. La loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini
multiformi, né essi aderiscono ad una corrente filosofica umana, come fanno gli
altri.
4. Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e
adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto,
testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale.
5. Vivono nella loro patria, ma
come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati
come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera.
6. Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati.
7. Mettono in comune la mensa, ma non il letto.
8. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne.
9. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo.
10. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le
leggi.
11. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati.
12. Non sono conosciuti, e vengono condannati. Sono uccisi, e riprendono
a vivere.
13. Sono poveri, e fanno ricchi molti; mancano di tutto, e di tutto
abbondano.
14. Sono disprezzati, e nei disprezzi hanno gloria. Sono oltraggiati e
proclamati giusti.
15. Sono ingiuriati e benedicono; sono maltrattati ed onorano.
16. Facendo del bene vengono puniti come malfattori; condannati gioiscono
come se ricevessero la vita.
17. Dai giudei sono combattuti come stranieri, e dai greci perseguitati,
e coloro che li odiano non saprebbero dire il motivo dell’odio.
VI. L’anima del mondo
A
dirla in breve, come è l’anima nel corpo,
così nel mondo sono i cristiani.
4. Retta ermeneutica del Decretum Gratiani e
svolta tridentina
Una rivisitazione
critica della «storia del laicato» suggerisce di prendere le distanze da quel
procedimento che si prefigge di descrivere tale vicenda come un continuum
dalla fase post-apostolica fino ad oggi.
In prima battuta,
è importante disinnescare il celebre topos
del duo sunt genera christianorum, come ritorna icasticamente nel Decretum Gratiani (1140), divenuto un
vero locus theologicus della
storiografia sul laicato:
Due sono i generi dei cristiani. C’è infatti
un genere che, riservato per il divino ufficio e dedito alla contemplazione e
all’orazione, conviene che si sottragga da ogni tumulto delle cose temporali:
sono i chierici e i votati a Dio, cioè coloro che hanno mutato radicalmente
vita convertendosi. Κλῆρος infatti in greco è sors in latino. Perciò gli uomini di questo tipo sono chiamati
chierici, cioè scelti per sorte; tutti questi, infatti, Dio scelse come suoi
[…] Invece c’è un altro genere di cristiani, come sono i laici. Λαός infatti è
popolo. A costoro è lecito possedere i beni temporali, ma soltanto in uso. Non
vi è nulla infatti di più meschino che disprezzare Dio per denaro. Ad essi è
concesso prender moglie, coltivare la terra, giudicare le controversie fra uomo
e uomo, intraprendere azioni legali, deporre sull’altare le oblazioni, pagare
le decime; e così potranno salvarsi, se eviteranno tuttavia i vizi facendo il
bene [Decretum Magistri Gratiani,
Secunda Pars, XII, q. I, c. VII].
Ora l’ambiente originario del celebre passo non avvalora la pretesa
avanzata da Congar – e dalla storiografia teologica che da lui dipende – di
ritrovare qui il teorema della strutturale bipartizione del popolo cristiano,
poiché il contesto immediato del cap. XII del Decretum Gratiani non
sarebbe affatto da collocare sul piano ecclesiologico, bensì su quello piano delle azioni lecite e del diritto puramente patrimoniale. Si
potrebbe persino azzardare che il vero interesse del ragionamento di Graziano
verta non soprattutto sui laici, ma
sui chierici che come tali non possono possedere beni temporali, né disporre a loro riguardo. Di conseguenza, la
distinzione tra laici e chierici obbedisce a una logica puramente
funzionale: ai primi è consentito possedere e, se del caso, difendere anche
legalmente i beni materiali di loro proprietà; ai secondi, invece, non è lecito
possedere alcunché, dovendo essere del tutto distaccati, anche giuridicamente,
dai beni secolari. L’estrapolazione dal contesto originario della
formula duo sunt genera christianorum disattende non soltanto l’intentio auctoris, ma opera
un’indebita forzatura concettuale in ordine all’identità dei laici che
si trascinerà per secoli.
Una nuova pista
interpretativa sostiene che il costituirsi della nozione laico/laicato
(nell’uso invalso ancor oggi) è da individuare con l’ingresso nell’età moderna,
rispettivamente con la vicenda della Riforma protestante, nonché con l’imporsi
del nuovo clima spirituale della modernità. La fisionomia dei laici nasce con la Riforma cattolica,
nel senso che l’investimento di energie a favore di una formazione liturgica,
dottrinale e spirituale del clero comportò un processo di gerarchizzazione
della Chiesa cattolica, col risultato di confinare i comuni fedeli in un ruolo
subordinato e passivo. In un senso, col risultato di far ‘nascere’ il laicato.
Infatti, quanto più rispetto al passato il ministro ordinato divenne il
rappresentante ideale e consapevole dell’identità cristiana, tanto più la
condizione laicale venne connotandosi per sottrazione dal modello clericale (e
religioso).
5. La teologia che «serve» alla spiritualità
e alla pastorale
Quanto alla
teologia, il suo esercizio di sapere
critico non può affatto concludersi con la ricostruzione analitica e l’ascolto
fedele dei pronunciamenti conciliari, ma deve puntare in chiave critica a coglierne
la portata e la logica intrinseca, senza sottrarsi alla fatica di avallare le
acquisizioni obiettive, di indagare eventuali inconseguenze e, soprattutto, di
esplorare nuovi sviluppi e auspicabili incrementi.
Il discorso non può essere liquidato in poche
battute. Nel quadro della svolta
ecclesiologica di LG, una corretta ermeneutica dell’apporto conciliare
suggerisce di mettere fine alla ricerca di una definizione dottrinale e
normativa di laico, invitando a
ricentrare l’attenzione sulla figura del christifideles.
In questa linea la questione laicale dovrebbe essere ricollocata non più
all’interno della trattazione sistematica,
bensì nel quadro della riflessione teologico-pratica,
cioè a partire dalle condizioni obiettive dell’esistenza cristiana ed
ecclesiale e dalla qualità dell’agire credente (ecclesiologia pratica,
spiritualità e riflessione morale).
Un’ulteriore
possibilità è di intraprendere un itinerario
teologico-fondamentale, che punti a mettere in luce l’impensato che resta
sottotraccia alla trattazione tradizionale del capitolo dei laici. Dopo aver esaminato le
potenzialità offerte (e, in un senso, esaurite) dalle cifre dell’apostolato
e dell’impegno (engagement), v’è merito di accordare
credito alla nozione giovannea di testimonianza nel quadro di una teoria
della coscienza credente. Nel suo dinamismo tale categoria dischiude in modo
promettente il profilo dell’annuncio dell’evangelo come attestazione ad altri
(appunto, testimonianza) dell’evento Gesù Cristo (il testimoniato),
scoprendosi autorizzata e legittimata come atto della libertà che si affida
all’incondizionato rivelarsi di Dio.
Si avverte
l’esigenza di tracciare una mappa delle diverse vocazioni particolari che
nascono all’interno della Chiesa in un’epoca contrassegnata da grandi
rivolgimenti culturali e spirituali, rispetto a stagioni della storia in cui la
divisione dei ruoli e il rapporto fra gli «stati di vita» erano sostanzialmente
assodati. Non ha però più senso distinguere fra coloro che ricoprirebbero il
ruolo di occuparsi delle cose di questo mondo e coloro che sarebbero gli
specialisti della vita eterna: sulle questioni essenziali della vita, tutti i
credenti si trovano nella medesima situazione.
All’origine della
pluralità delle forme di esperienza credente stanno l’iniziativa imprevedibile
di Dio e l’agire degli uomini, che risente dell’influsso biografico e della
congiuntura storica. La ricognizione dell’esperienza credente lungo l’asse
delle diverse vocazioni e forme di vita cristiana suggerisce che se la fede si
dà in figura, non può darsi un’unica e omnicomprensiva figura della fede, dato che il carattere figurale della fede
chiama in causa una pluralità di figure
della fede, fra loro diverse e complementari. In questa prospettiva, il
ripensamento di una teologia delle vocazioni, dei ministeri e dei carismi è
questione decisiva per rilanciare con creatività le diverse figure e vissuti di
fede che trovano il loro grembo nella Chiesa. Nella vita di coppia e nella
famiglia si dischiudono forme specifiche di ministerialità: il legame
coniugale, l’educazione dei figli, la cura delle relazioni, la solidarietà
verso poveri e anziani, costituiscono luoghi e momenti in cui la Chiesa si
rigenera e scopre la sua vocazione di «famiglia di Dio». La fede cristiana è
per sua natura esperienza personale e originale del legame con il Signore Gesù,
ma insieme è esperienza condivisa, ecclesiale se è vero che ogni vocazione
cristiana deve lasciarsi plasmare dal legame decisivo con il Signore nella
comunità dei discepoli. In tale ottica, occorre ripensare il nesso fra
esistenza del singolo e legame comunitario, nonché fra appartenenza ecclesiale
e ministero apostolico, per mostrare la circolarità di istanza soggettiva e
mediazione oggettiva che istituisce la coscienza ecclesiale e l’agire di ogni
credente.
L’illustrazione
di tale dialettica può essere esplorata con qualche guadagno a partire dal
dinamismo che sta alla base della coppia rappresentazione/i e
rappresentanza. Il primo termine rappresentazione/i restituisce il
carattere di oggettività dell’evento cristiano proprio quando ne realizza
l’universalità, allorché ogni credente (per la parte che gli spetta) è
convocato e abilitato a professare, a ‘dar forma’, appunto a ‘rappresentare’ il
messaggio della salvezza in tutti gli spazi e i momenti della sua esistenza nel
mondo. D’altra parte, la struttura dell’identità cristiana prende sempre forma
storicamente in un profilo specifico e si presenta con i tratti singolari del
vissuto storico; tale per cui esiste di necessità una pluralità di
interpretazioni e raffigurazioni (rappresentazioni)
che con tonalità diverse tutte dicono
e attuano l’unica figura cristiana.
Il secondo polo, rappresentanza,
rinvia al carattere normativo dell’esercizio della memoria Jesu,
conseguente al mandato apostolico di cura per l’oggettività e di fedeltà
all’evento della salvezza, onde salvaguardare il carattere indisponibile e
gratuito del Dio di Gesù e garantire le condizioni di un’esperienza
autenticamente cristiana. Ora, l’ipotesi di una rappresentazione senza rappresentanza
si espone al rischio di un’affermazione di sé autoreferenziale e irrelata,
carica magari di autenticità a livello di vissuto biografico, ma priva di
rilevanza simbolica e di legame ecclesiale con altre necessarie
rappresentazioni; rispettivamente, l’eventualità di una rappresentanza
priva di rappresentazione/i rischia a sua volta di sequestrare la verità
indisponibile entro una logica monistica, che fonda un formale principio di
legittimità, ma dimentica di essere istituita in un’ottica di comunione e di
servizio per custodire l’assolutezza e la ricchezza della rivelazione, proprio
assicurandone la sua plurale e universale destinazione (nella forma delle
inesauribili e complementari rappresentazioni del discepolato nella
storia della Chiesa e del mondo).
Entrambe le
dinamiche della «rappresentazione non senza rappresentanza» e della
«rappresentanza non senza (plurali) rappresentazioni» sono possibili solo come
operazione dello Spirito, nella forma del discernimento storico della referenza
all’inesauribilità del mistero di Cristo. Questo è propriamente ciò che
significa il topos kierkegaardiano la «contemporaneità» di Cristo ai credenti e
dei credenti a Cristo, che come tale è continuamente da ri-comprendere nella
storia della fede e del discepolato nello snodarsi della vicenda del
cristianesimo lungo i secoli.
Una tale
dialettica nel suo dinamismo interno costituisce la grammatica che sta alla
base di una varietà infinita di figure e di pratiche di vita cristiana in cui
risplende e si manifesta la partecipazione dei credenti al mistero di Cristo.
Se ripensata come attitudine del cristianesimo a divenire l’anima del processo
storico-sociale, dunque come sfida per la fede cristiana di dire oggi come
sempre la verità dell’umano, una siffatta dialettica è in grado di intercettare
l’interrogativo sul futuro stesso dell’agire credente nella Chiesa e nella
storia. Sotto tale profilo, l’archiviazione della teologia del laicato diviene
un congedo inevitabile, perché inverato in una teologia della testimonianza
credente nella storia.
6. Tre citazioni fulminanti
La cosa più importante da dire è che non c’è definizione
del cristiano che non sia in rapporto a Cristo: non ci sarà mai una definizione
esaustiva del cristiano che riguardi soltanto la sua diversificazione o il suo comportamento
rispetto all’ambiente che lo circonda. Da questa affermazione tutto il resto
viene condizionato. Ogni tentativo di definire la nostra posizione deve partire
dalla persuasione che noi siamo sostanzialmente ‒ e quasi unicamente ‒ delle
persone che sono afferrate da Cristo, che aspettano la manifestazione della sua
gloria, che attendono la trasformazione di ogni cosa nel Regno di Cristo. [C.M.
Martini, Che cosa significa
essere cristiani (1969)].
Nella sua accezione
originaria, senza distinzione obbligatoria tra chierico e laico, l’ecclesiastico, è l’uomo di Chiesa,
l’uomo nella Chiesa: egli è l’uomo della
Chiesa, l’uomo della comunità cristiana. [H. de Lubac, Meditation sur l’Église (1953)].
Celestino V. Io non posso trattare i cristiani come oggetti, come
pietre, come sedie, come utensili, e neanche come sudditi… Posso ammettere che
questo modo di vedere sia scomodo dal punto di vista della rapidità e
disinvoltura nel comandare, ma mi pare che anche in questo debba esserci una
differenza tra i cristiani e i pagani. Per i cristiani il valore supremo sono
le coscienze: esse meritano dunque il massimo rispetto. [I. Silone, L’avventura
di un povero cristiano (1968)].
Questi tre tratti
– l’appartenenza a Cristo, la titolarità di tutti i battezzati a essere
riconosciuti senza discriminazioni come uomini e donne di Chiesa, la logica
sinodale che deve improntare il vissuto della comunità dei credenti nel
riconoscimento della dignità inviolabile di ciascuno – costituiscono
altrettante acquisizioni a cui non è dato rinunciare nel quadro di una communio
che è originata dalla grazia dello Spirito Santo. Una communio che non livella
tutte le possibili diverse vocazioni e ministerialità ecclesiali, bensì
assicura a tutti la sua presenza nella pluralità dei doni personali per
l’edificazione della Chiesa in un’ottica di condivisione sinodale della logica
e delle dinamiche dell’unica missione.
E così ci ricorda
papa Francesco nella sua esortazione apostolica programmatica del pontificato:
Lo Spirito Santo
arricchisce tutta la Chiesa che evangelizza anche con diversi carismi. Essi
sono doni per rinnovare ed edificare la Chiesa. Non sono un patrimonio chiuso,
consegnato ad un gruppo perché lo custodisca; piuttosto si tratta di regali
dello Spirito integrati nel corpo ecclesiale, attratti verso il centro che è
Cristo, da dove si incanalano in una spinta evangelizzatrice […] Quanto più un
carisma volgerà il suo sguardo al cuore del Vangelo, tanto più il suo esercizio
sarà ecclesiale. È nella comunione, anche se costa fatica, che un carisma si
rivela autenticamente e misteriosamente fecondo. Se vive questa sfida, la
Chiesa può essere un modello per la pace nel mondo [Evangelii gaudium, 130].
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