Laici Missionari Comboniani

Dove soffia lo Spirito

Simone LMC
Simone LMC

Non è più “la stessa persona che è partita” nel 2017, Simone Parimbelli, 38 anni, Laico Missionario Comboniano della diocesi di Bergamo, rientrato nel settembre 2020 da Mongoumba in Repubblica Centrafricana. Perché, come dice lui con la luce negli occhi, “la missione apre il cuore e l’orizzonte e l’essere in uscita ti cambia: dalla concezione dello stile missionario al rapporto con il tempo e lo spazio, con sé stessi e con Dio”. Succede quando sei “a stretto contatto con le sofferenze e le gioie dell’altro” e vivi per tre anni e mezzo nel cuore della foresta tropicale, nella diocesi di Mbaiki, a Mongoumba, dove i padri Comboniani lavorano con i pigmei AKA da più di 30 anni.

“Sembra assurdo, ma questo popolo non è riconosciuto dalle altre etnie e non ha accesso né all’istruzione né alla sanità; schiavizzati dai padroni Bantù e senza un certificato di nascita, sono dei fantasmi in carne e ossa”, racconta Simone, denunciando un Paese che, nonostante tante ricchezze, vive in una condizione di colonialismo e miseria.

“Stando accanto a loro, si diventa una porta a cui bussare”, continua Simone che, da laico, a volte è “riuscito ad entrare nella vita concreta delle persone molto più dei sacerdoti, divisi tra l’amministrazione della parrocchia e le celebrazioni eucaristiche su un territorio vastissimo”. Arrivato a Mongoumba, ha proposto diverse attività di animazione, trasformando per esempio la scuola di Ndobo, vicina agli accampamenti pigmei, in un oratorio, come quello della sua parrocchia di Osio Sopra, dove crescendo, a un certo punto, si è chiesto “a che serve la mia fede?”.

Dalla domanda sulla vocazione alla risposta a una chiamata, il passo è, si fa per dire, breve: sono 7.500 chilometri insieme a tutto il resto. Ma “quando forse hai intuito ciò che puoi essere nel mondo e per il mondo, bisogna provarlo”.

Così, la diocesi di Bergamo, il vescovo mons. Francesco Beschi, il Centro missionario e il movimento internazionale dei Laici Missionari Comboniani gli danno “la possibilità e la grazia di vivere questa esperienza: 1.300 giorni di fragilità e di fratellanza” in una Chiesa giovane “che sa generare figli nella fede e dove la gioia prevale”.

Inviato e accolto: in un ciclo continuo che, in futuro, forse, lo spingerà altrove, dove soffia lo Spirito Santo, che, in sango, la lingua della Repubblica Centrafricana, si dice Yingo-Gbya.

(Di Loredana Brigante, rivista POPOLI e MISSIONE. Febbraio 2021)

Simone LMC

190° Anniversario della nascita di san Daniele Comboni

Daniel Comboni

«Sono venuto a gettare fuoco sulla terra e quanto vorrei che fosse già acceso!» (Lc 12,49)

Tenere Vivo il Fuoco

Daniel Comboni

Introduzione. Con la celebrazione del 190º anniversario della nascita di Daniele Comboni (Limone Sul Garda, 15 marzo 1831) e il 140º anniversario della sua morte (Khartoum, 10 ottobre 1881), siamo invitati a celebrare il nostro memoriale carismatico e ad invocare la forza della presenza dello Spirito che ha illuminato la sua vita, dal nascere al morire. La sua beatificazione (17 marzo 1996), di cui ricorre il 25º anniversario quest’anno, è stato un dono carismatico per tutta la famiglia comboniana. In quel momento[1], i Consigli Generali hanno pubblicato un messaggio e una lettera congiunta per incoraggiare i membri della nostra famiglia missionaria alla gioia e allo sguardo spirituale verso nostro padre, in cerca di ispirazione e fecondità per il servizio missionario. Infine, con la canonizzazione, la Chiesa lo ha inscritto nell’albo dei Santi, riconoscendo la validità e attualità del carisma missionario comboniano e proponendo san Daniele Comboni come modello di vita cristiana e di missione, esempio e paradigma di un impegno missionario universale, che unisce continenti e popoli diversi nella passione per Dio e per l’Umanità. Anche allora, i nostri Consigli Generali ci hanno regalato un messaggio[2] e una lettera[3] invitandoci a guardare a san Daniele come testimone e maestro della santità a cui siamo chiamati e della missione che viviamo. La presente lettera si inserisce in questo movimento di memoria e attualizzazione del dono carismatico affidato a san Daniele e, in lui, a tutti noi: dono di Dio ravvivato in ogni generazione comboniana.

Considerare le proprie radici. Fare memoria della nascita di san Daniele Comboni ci invita, innanzitutto, a considerare le sue radici familiari, ecclesiali e sociali, che tanto l’hanno influenzato e alle quali ritornava spesso[4]. La sua nascita avvenne in mezzo a difficoltà e costrizioni. I suoi genitori erano migranti, venuti a Limone in cerca di lavoro. Il padre, Luigi Comboni, all’età di 15 anni, nel dicembre del 1818 era venuto a Limone proveniente da Bogliaco. La madre, Domenica Pace, era nata a Limone (31 marzo 1801) ma la famiglia proveniva da Magasa, sulle montagne. Luigi e Domenica si sposarono il 21 luglio 1826, nella chiesa di San Benedetto ed ebbero, secondo il registro dei battesimi, sei figli; a questi sarebbero da aggiungere due gemelli morti, che non fu possibile battezzare[5].

“Daniele Comboni crebbe nella modesta casa del Tesol con i genitori, vivendo le gioie e i dolori della famiglia. Dei suoi fratelli sopravvissero soltanto Vigilio (1827-1848) e Marianna (1832-1836)”[6]. Egli ebbe grande affetto e stima per sua madre e suo padre. La madre morì il 14 luglio 1858, durante il suo primo viaggio in Africa, e fu col padre Luigi che Daniele mantenne un’intensa corrispondenza, nella quale riconosceva la religiosità dei genitori e l’influenza che ebbero nella sua vita e vocazione missionaria. In queste lettere si riscontrano gli elementi umani e cristiani che hanno costituito l’humus che ha fatto crescere la vocazione e la missione di san Daniele (il richiamo della bellezza del lago e delle montagne, la fierezza della fede e vita cristiana, la devozione alla Croce del Salvatore, la contemplazione del Suo amore e del Cuore trafitto, la passione per Dio e per i più bisognosi): “Coraggio dunque amabile mio padre, io ho sempre il mio cuore rivolto a voi, parlo ogni giorno con voi, sono a parte dei vostri affanni, e pregusto le delizie che Dio vi riserba in cielo. Coraggio adunque: Dio sia il centro di comunicazione tra me e voi. Egli guidi le nostre imprese, i nostri affari, le nostre sorti e godiamo che abbiamo da fare con un buon padrone, con un fedele amico, con un padre amoroso”[7]. La celebrazione del 190º della sua nascita ci offre una nuova opportunità di avvicinarci a lui a alle sue radici familiari ed ecclesiali, rafforzando la coscienza delle nostre proprie radici, come sfondo spirituale che assicura stabilità alle nostre personalità e fecondità spirituale alla nostra vita missionaria. E questa celebrazione ci dà l’opportunità di approfondire, come famiglia comboniana, il ruolo di Limone e di continuare la collaborazione, intrapresa nel luogo natale di san Daniele Comboni.

Fedeltà in mezzo alle avversità. La memoria del 140º della morte di Daniele Comboni ci invita a guardare alla sua vita dal momento supremo del dono di sé per la rigenerazione della nigrizia. Nelle lettere scritte negli ultimi mesi della sua vita, egli appare come missionario accerchiato dalle difficoltà, ma radicato nelle fede: carestia, pestilenza e fame, mancanza d’acqua, scarsità di mezzi materiali per sostenere le iniziative missionarie, malattia e morte dei suoi missionari… Nelle sue parole, sono “tempi di desolazione” in cui “sono sventuratamente troppe le sofferenze da dovere alleviare”[8].

Davanti a queste difficoltà, Comboni rimane ancorato nella fede in Dio e nella visione missionaria che ha ispirato e sostenuto la sua vita. “Io sono felice nella croce, che portata volentieri per amore di Dio genera il trionfo e la vita eterna”: queste parole[9] racchiudono, in un momento cruciale, lo stato d’animo di tutta la sua vita. Questo ritorno ai piedi della Croce, alla contemplazione del Cuore trafitto, dove tutto è cominciato, riempie di luce e di coraggio il tempo del ritorno al Padre e sta all’origine della fiducia e del “coraggio per il presente e, soprattutto, per il futuro”[10] che Comboni instilla nei suoi missionari, nel momento dell’a-Dio: “Io muoio, ma l’opera non morirà!”[11].

Le due date del memoriale che facciamo quest’anno delineano un percorso di vita, nel quale la forza dello Spirito prende forma nella vita di san Daniele e rende percepibile e vivo un piccolo tassello “dell’amore illimitato” di Dio[12]; egli si lascia “formare” dall’Amore che contempla, tenendo lo sguardo fisso in Gesù crocifisso. San Daniele ci lascia una testimonianza che è generatrice di vita per il nostro oggi.

Tra nascere e morire. Celebriamo queste ricorrenze della vita di san Daniele Comboni dopo un anno, il 2020, segnato dalla pandemia del coronavirus. E il nuovo, 2021, è iniziato in tutto il mondo ancora sotto il segno dell’incertezza e della crisi sanitaria ed economica. Nella famiglia comboniana soffriamo per le conseguenze di questa situazione: abbiamo perso missionari e missionarie che, dopo anni di missione, ci arricchivano con la loro testimonianza e che speravano in una vecchiaia serena[13]; il ritmo delle nostre attività ha subito un arresto e i nostri piani e progetti sono rimasti sospesi; le limitazioni agli spostamenti ci hanno messo alla prova, sfidando la creatività per rimanere vicino ai poveri e agli ultimi, a chi soffre maggiormente le conseguenze della pandemia; ci sentiamo incapaci di scorgere una via e un tempo d’uscita e condividiamo il sentimento di smarrimento e di perdita che sta travolgendo tanti nostri fratelli e sorelle.

Guardando a Daniele Comboni, nell’arco della sua vita e vocazione missionaria, tra il nascere e il morire, vediamo come, nel momento della crisi e dell’incertezza, seppe riconoscere e attendere i movimenti dello Spirito, rivedere i suoi piani e rinnovare il suo impegno missionario, abbracciare la Croce e le difficoltà, vedere in esse il segno di una presenza amorosa e di un agire misterioso di Dio, di un’ora divina con la sua promessa di vita rinnovata. In tutte queste situazioni, egli si lascia attrarre dall’Amore di Dio per l’Africa e non si spaventa se è parte di un piccolissimo gruppo; persevera, sogna, assume i rischi ed è in grado di offrire la sua vita, senza misurare gli sforzi. Da lui impariamo gli atteggiamenti di cui abbiamo bisogno per vivere questo nostro tempo, tanto incerto, come un’ora di Dio: la pazienza e la fedeltà alla vocazione missionaria; la capacità di metterci in gioco con creatività, mettendo sempre le persone e Dio al centro; il senso della comunione (essere cenacolo) che ci tiene uniti e rafforza la nostra identità carismatica e la nostra vocazione missionaria nella Chiesa di oggi.

Daniele Comboni ci sprona a non lasciare che il peso del covid e le ricadute negative del distanziamento fisico, ci chiudano in noi stessi; a superare competizione e conflitto, recuperando lo spirito di collaborazione tra laiche, laici, suore, fratelli, sacerdoti; a far crescere il senso di comunione e la giovialità del vivere insieme che Comboni raccomandava ai suoi; a mantenere viva la speranza anche nel buio, riscoprendo la forza del prendersi cura e della resilienza; ad accettare i cambiamenti in atto e vedere opportunità dove altri vedono fallimento; ad assumere il nascere e morire come porte di passaggio, sfide alla creatività e occasione per sostenerci a vicenda; a considerare le perdite (di vite, posti di lavoro, salute e sicurezza sanitaria ed economica…) come occasione di conversione e di sostegno tra noi, individui, famiglie e comunità. Nella pandemia ci siamo mantenuti in comunione, abbiamo scambiato informazioni e avviato processi come il Forum della Ministerialità Sociale, di cui gli incontri sono fatti via zoom; la presente situazione ci sfida a cercare vie nuove per mantenerci uniti come famiglia comboniana e affrontare insieme momenti difficili e cambiamenti e continuare i processi di collaborazione[14].

La luce della testimonianza di san Daniele Comboni illumina il discernimento che quello che stiamo vivendo ci chiama a fare per il futuro immediato, che non sarà un semplice ritorno al passato che conosciamo. Ci offre i criteri per assumere i valori che ci stanno a cuore, l’amicizia e l’affetto di familiari e amici; per comprendere il destino comune dell’umanità, minacciata dalla pandemia e dalla catastrofe ecologica; per impegnarci nella trasformazione sociale (dal cambiamento climatico alla cura per la casa comune e la salute per ogni persona…) dando il nostro contributo con creatività, rinunciando al superfluo e favorendo la solidarietà.

Questi atteggiamenti hanno le loro radici nella fede, nel “forte sentimento di Dio” e nell’“interesse vivo per la Sua Gloria e il bene delle persone”, soprattutto degli impoveriti e marginalizzati, che sono l’antidoto che san Daniele suggerisce per contrastare lo stress della pandemia e l’incertezza dei tempi che viviamo. Egli ci ispira a guardare il mondo e gli avvenimenti che viviamo col “puro raggio della fede”[15] e ci avverte che il missionario (la missionaria) che non avesse questo sguardo “finirebbe per trovarsi in una specie di vuoto e d’intollerabile isolamento”[16]. E ci indica la strada per rimanere nella fedeltà: “… tener sempre gli occhi fissi in Gesù Cristo, amandolo teneramente e procurando d’intendere ogni ora meglio cosa vuol dire un Dio morto in croce…”[17]. Comboni parla di “una vampa di fuoco divino” che esce dal Cuore trafitto e che il missionario/la missionaria raccoglie ai piedi della croce per portare ovunque, quale fuoco che alimenta il proprio impegno per la rigenerazione delle persone e la trasformazione delle società in cui vive[18].

Tenere vivo questo Fuoco. La memoria della nascita e della morte di san Daniele Comboni ci ricorda che la sfida maggiore che viviamo in questo momento è precisamente questa, di mantenere vivo il fuoco, accesa questa vampa divina nei nostri cuori e “sentire la bellezza della paternità spirituale di san Daniele, che aveva il cuore ardente e (…) ha saputo accendere profeticamente il fuoco del Vangelo attraversando confini (…), incomprensioni, visioni limitanti, concretizzando una visione missionaria innovativa”. La fedeltà a Daniele Comboni si gioca nel “rimanere nel cammino da lui inaugurato” e “credere nella forza del fuoco, dello Spirito (…) che scende su di noi per farci diventare coraggiosi frequentatori del futuro”[19].

Consigli Generali delle SMC, MSC e dei MCCJ e il Comitato Internazionale dei LMC


[1] Lettera del 23 febbraio del 1996, per la Giornata di Riconciliazione. Il messaggio Guardando alla Roccia dalla quale siamo stati tagliati è del 6 aprile 1995.

[2] Dono da Accogliere e Approfondire, del 15 marzo del 2003.

[3] Daniele Comboni, Testimone di Santità e Maestro di Missione, del 1º settembre 2003.

[4] Sia con le visite alla casa natale a Limone come, soprattutto, con le lettere ai genitori, al padre una volta scomparsa la madre, ai cugini, ai parroci e ai cittadini di Limone. L’epistolario di Daniele Comboni col padre ci riporta 31 lettere. La prima è scritta dal Cairo il 19 ottobre 1857, l’ultima il 6 settembre 1881, un mese prima della morte.

[5] Positio, Roma 1988, vol. I, p. 14.

[6] Mario Trebeschi e Domenico Fava, San Daniele Comboni e Limone, Limone sul Garda 2011, p. 39.

[7] Daniele Comboni, Gli Scritti 188.

[8] Daniele Comboni, Gli Scritti 6631.

[9] Lettera a Sembianti, Gli Scritti 7246.

[10] In Annali del Buon Pastore 27 gennaio del 1882.

[11] Giovanni Dichtl, lettera al Cardinale Simeoni del 29.9.1889.

[12] Daniele Comboni, Omelia di Khartum, Gli Scritti 3158.

[13] Nella prima ondata della pandemia sono morte 13 Suore Missionarie Comboniane, a Bergamo. Nella seconda, tra l’8 novembre 2020 e il 10 gennaio 2021, sono morti 20 Missionari Comboniani a Castel D’Azzano; e poi altri a Milano, a Ellwangen (Germania), a Guadalajara (Messico) e in Uganda; per un totale di 35. In tutto, alla fine di gennaio 2021, sono 48 i missionari e missionarie comboniani vittime del covid-19.

[14] I membri della commissione della famiglia comboniana, durante la preparazione del Forum della Ministerialità Sociale, hanno riflettuto insieme su questo tempo come una grande opportunità per nuove modalità di incontro, in attesa di momenti migliori per trovarsi di persona. Per mantenere vivo il processo, sono stati programmati due webinar. Nel primo, a dicembre, si sono iscritte 279 persone, rappresentanti di tutta la famiglia comboniana sparsa nel mondo.

[15] Daniele Comboni, Omelia a Khartoum, Gli Scritti 2745.

[16] Daniele Comboni, Regole del 1871, Capitolo X.

[17] Daniele Comboni, Regole del 1871, Capitolo X.

[18] Daniele Comboni, Piano per la Rigenerazione dell’Africa, IV Edizione, Verona 1871, Scritti 2742. “… Trasportato egli dall’impeto di quella carità accesa con divina vampa sulla pendice del Golgota, ed uscita dal costato del Crocifisso per abbracciare tutta l’umana famiglia…”.

[19] Cardinale José Tolentino de Mendonça, Omelia nella memoria di san Daniele Comboni, Roma 10 ottobre 2020.

Messaggio del santo padre Francesco per la quaresima 2021

Papa Francisco

“Ecco, noi saliamo a Gerusalemme…” (Mt 20,18).
Quaresima: tempo per rinnovare fede, speranza e carità.

Papa Francisco

Cari fratelli e sorelle,

annunciando ai suoi discepoli la sua passione, morte e risurrezione, a compimento della volontà del Padre, Gesù svela loro il senso profondo della sua missione e li chiama ad associarsi ad essa, per la salvezza del mondo.

Nel percorrere il cammino quaresimale, che ci conduce verso le celebrazioni pasquali, ricordiamo Colui che «umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2,8). In questo tempo di conversione rinnoviamo la nostra fede, attingiamo l’“acqua viva” della speranza e riceviamo a cuore aperto l’amore di Dio che ci trasforma in fratelli e sorelle in Cristo. Nella notte di Pasqua rinnoveremo le promesse del nostro Battesimo, per rinascere uomini e donne nuovi, grazie all’opera dello Spirito Santo. Ma già l’itinerario della Quaresima, come l’intero cammino cristiano, sta tutto sotto la luce della Risurrezione, che anima i sentimenti, gli atteggiamenti e le scelte di chi vuole seguire Cristo.

Il digiuno, la preghiera e l’elemosina, come vengono presentati da Gesù nella sua predicazione (cfr Mt 6,1-18), sono le condizioni e l’espressione della nostra conversione. La via della povertà e della privazione (il digiuno), lo sguardo e i gesti d’amore per l’uomo ferito (l’elemosina) e il dialogo filiale con il Padre (la preghiera) ci permettono di incarnare una fede sincera, una speranza viva e una carità operosa.

1. La fede ci chiama ad accogliere la Verità e a diventarne testimoni, davanti a Dio e davanti a tutti i nostri fratelli e sorelle.

In questo tempo di Quaresima, accogliere e vivere la Verità manifestatasi in Cristo significa prima di tutto lasciarci raggiungere dalla Parola di Dio, che ci viene trasmessa, di generazione in generazione, dalla Chiesa. Questa Verità non è una costruzione dell’intelletto, riservata a poche menti elette, superiori o distinte, ma è un messaggio che riceviamo e possiamo comprendere grazie all’intelligenza del cuore, aperto alla grandezza di Dio che ci ama prima che noi stessi ne prendiamo coscienza. Questa Verità è Cristo stesso, che assumendo fino in fondo la nostra umanità si è fatto Via – esigente ma aperta a tutti – che conduce alla pienezza della Vita.

Il digiuno vissuto come esperienza di privazione porta quanti lo vivono in semplicità di cuore a riscoprire il dono di Dio e a comprendere la nostra realtà di creature a sua immagine e somiglianza, che in Lui trovano compimento. Facendo esperienza di una povertà accettata, chi digiuna si fa povero con i poveri e “accumula” la ricchezza dell’amore ricevuto e condiviso. Così inteso e praticato, il digiuno aiuta ad amare Dio e il prossimo in quanto, come insegna San Tommaso d’Aquino, l’amore è un movimento che pone l’attenzione sull’altro considerandolo come un’unica cosa con sé stessi (cfr Enc. Fratelli tutti, 93).

La Quaresima è un tempo per credere, ovvero per ricevere Dio nella nostra vita e consentirgli di “prendere dimora” presso di noi (cfr Gv 14,23). Digiunare vuol dire liberare la nostra esistenza da quanto la ingombra, anche dalla saturazione di informazioni – vere o false – e prodotti di consumo, per aprire le porte del nostro cuore a Colui che viene a noi povero di tutto, ma «pieno di grazia e di verità» (Gv 1,14): il Figlio del Dio Salvatore.

2. La speranza come “acqua viva” che ci consente di continuare il nostro cammino

La samaritana, alla quale Gesù chiede da bere presso il pozzo, non comprende quando Lui le dice che potrebbe offrirle un’“acqua viva” (Gv 4,10). All’inizio lei pensa naturalmente all’acqua materiale, Gesù invece intende lo Spirito Santo, quello che Lui darà in abbondanza nel Mistero pasquale e che infonde in noi la speranza che non delude. Già nell’annunciare la sua passione e morte Gesù annuncia la speranza, quando dice: «e il terzo giorno risorgerà» (Mt 20,19). Gesù ci parla del futuro spalancato dalla misericordia del Padre. Sperare con Lui e grazie a Lui vuol dire credere che la storia non si chiude sui nostri errori, sulle nostre violenze e ingiustizie e sul peccato che crocifigge l’Amore. Significa attingere dal suo Cuore aperto il perdono del Padre.

Nell’attuale contesto di preoccupazione in cui viviamo e in cui tutto sembra fragile e incerto, parlare di speranza potrebbe sembrare una provocazione. Il tempo di Quaresima è fatto per sperare, per tornare a rivolgere lo sguardo alla pazienza di Dio, che continua a prendersi cura della sua Creazione, mentre noi l’abbiamo spesso maltrattata (cfr Enc. Laudato si’, 32-33.43-44). È speranza nella riconciliazione, alla quale ci esorta con passione San Paolo: «Lasciatevi riconciliare con Dio» (2 Cor 5,20). Ricevendo il perdono, nel Sacramento che è al cuore del nostro processo di conversione, diventiamo a nostra volta diffusori del perdono: avendolo noi stessi ricevuto, possiamo offrirlo attraverso la capacità di vivere un dialogo premuroso e adottando un comportamento che conforta chi è ferito. Il perdono di Dio, anche attraverso le nostre parole e i nostri gesti, permette di vivere una Pasqua di fraternità.

Nella Quaresima, stiamo più attenti a «dire parole di incoraggiamento, che confortano, che danno forza, che consolano, che stimolano, invece di parole che umiliano, che rattristano, che irritano, che disprezzano» (Enc. Fratelli tutti [FT], 223). A volte, per dare speranza, basta essere «una persona gentile, che mette da parte le sue preoccupazioni e le sue urgenze per prestare attenzione, per regalare un sorriso, per dire una parola di stimolo, per rendere possibile uno spazio di ascolto in mezzo a tanta indifferenza» (ibid., 224).

Nel raccoglimento e nella preghiera silenziosa, la speranza ci viene donata come ispirazione e luce interiore, che illumina sfide e scelte della nostra missione: ecco perché è fondamentale raccogliersi per pregare (cfr Mt 6,6) e incontrare, nel segreto, il Padre della tenerezza.

Vivere una Quaresima con speranza vuol dire sentire di essere, in Gesù Cristo, testimoni del tempo nuovo, in cui Dio “fa nuove tutte le cose” (cfr Ap 21,1-6). Significa ricevere la speranza di Cristo che dà la sua vita sulla croce e che Dio risuscita il terzo giorno, «pronti sempre a rispondere a chiunque [ci] domandi ragione della speranza che è in [noi]» (1Pt 3,15).

3. La carità, vissuta sulle orme di Cristo, nell’attenzione e nella compassione verso ciascuno, è la più alta espressione della nostra fede e della nostra speranza.

La carità si rallegra nel veder crescere l’altro. Ecco perché soffre quando l’altro si trova nell’angoscia: solo, malato, senzatetto, disprezzato, nel bisogno… La carità è lo slancio del cuore che ci fa uscire da noi stessi e che genera il vincolo della condivisione e della comunione.

«A partire dall’amore sociale è possibile progredire verso una civiltà dell’amore alla quale tutti possiamo sentirci chiamati. La carità, col suo dinamismo universale, può costruire un mondo nuovo, perché non è un sentimento sterile, bensì il modo migliore di raggiungere strade efficaci di sviluppo per tutti» (FT, 183).

La carità è dono che dà senso alla nostra vita e grazie al quale consideriamo chi versa nella privazione quale membro della nostra stessa famiglia, amico, fratello. Il poco, se condiviso con amore, non finisce mai, ma si trasforma in riserva di vita e di felicità. Così avvenne per la farina e l’olio della vedova di Sarepta, che offre la focaccia al profeta Elia (cfr 1 Re 17,7-16); e per i pani che Gesù benedice, spezza e dà ai discepoli da distribuire alla folla (cfr Mc 6,30-44). Così avviene per la nostra elemosina, piccola o grande che sia, offerta con gioia e semplicità.

Vivere una Quaresima di carità vuol dire prendersi cura di chi si trova in condizioni di sofferenza, abbandono o angoscia a causa della pandemia di Covid-19. Nel contesto di grande incertezza sul domani, ricordandoci della parola rivolta da Dio al suo Servo: «Non temere, perché ti ho riscattato» (Is 43,1), offriamo con la nostra carità una parola di fiducia, e facciamo sentire all’altro che Dio lo ama come un figlio.

«Solo con uno sguardo il cui orizzonte sia trasformato dalla carità, che lo porta a cogliere la dignità dell’altro, i poveri sono riconosciuti e apprezzati nella loro immensa dignità, rispettati nel loro stile proprio e nella loro cultura, e pertanto veramente integrati nella società» (FT, 187).

Cari fratelli e sorelle,ogni tappa della vita è un tempo per credere, sperare e amare. Questo appello a vivere la Quaresima come percorso di conversione, preghiera e condivisione dei nostri beni, ci aiuti a rivisitare, nella nostra memoria comunitaria e personale, la fede che viene da Cristo vivo, la speranza animata dal soffio dello Spirito e l’amore la cui fonte inesauribile è il cuore misericordioso del Padre.

Maria, Madre del Salvatore, fedele ai piedi della croce e nel cuore della Chiesa, ci sostenga con la sua premurosa presenza, e la benedizione del Risorto ci accompagni nel cammino verso la luce pasquale.

Roma, San Giovanni in Laterano, 11 novembre 2020, memoria di San Martino di Tours

Francesco