Laici Missionari Comboniani

Vivere il presente con passione

mccj
P. Fernando Domingues

Le riflessioni che seguono vogliono essere semplici commenti al secondo obiettivo proposto da Papa Francesco nella sua Lettera Apostolica a tutti i religiosi in occasione dell’Anno della Vita Consacrata dello scorso novembre 2014, allo scopo di aiutarci a vivere come missionari comboniani il nostro tempo. “La passione per un ideale, nel nostro caso, la missione, è legata all’entusiasmo. La passione non si conquista una volta per sempre. È come una pianta che dobbiamo curare e nutrire ogni giorno. Per questo è necessario trarre profitto da iniziative come quella che ci propone il Papa nell’Anno della Vita Consacrata, per rivedere come stiamo vivendo la nostra consacrazione e qual è il nostro legame con il Vangelo, con l’Istituto e con la missione”, scrive P. Rogelio Bustos Juárez, mccj.

VIVERE IL PRESENTE CON PASSIONE

“Il passato che è memoria e il futuro che è immaginazione li evochiamo dal presente”.
(Sant’Agostino)

  1. La sequela di Cristo, come riferimento primario

Quando si parla di nascita dei carismi, la storia della vita religiosa ci insegna che la prima cosa da cui sono partiti i fondatori e le fondatrici è stato il Vangelo. Dalla lettura attenta della Buona Novella hanno conosciuto Gesù Cristo, hanno ricevuto la Parola e hanno scoperto come potevano seguirlo. Alcuni hanno posto attenzione al Gesù taumaturgo che curava gli infermi, altri al Gesù Maestro che, con autorità, insegnava cose nuove; noi siamo stati colpiti dal Gesù itinerante che deve annunciare il Vangelo a tutti i popoli, poiché per questo è stato inviato.

Sono nate da lì le regole o costituzioni come base teorica per rendere viva l’intuizione carismatica. Nelle Regole del 1971, il nostro Fondatore diceva: Di certo uno spirito umile che ami sinceramente la sua vocazione e voglia essere generoso con il suo Dio, le osserverà di cuore considerandole come il cammino tracciato dalla Provvidenza, ma è importante dire chiaramente che le Costituzioni, la Regola di Vita e le tradizioni di qualsiasi Istituto conserveranno il loro vigore solo se e quando continueranno ad ispirarsi ai valori evangelici.

Per questo il Papa scrive: “La domanda che siamo chiamati a rivolgerci in questo Anno è se e come ci lasciamo interpellare dal Vangelo; se esso è davvero il ‘vademecum’ per la vita di ogni giorno e per le scelte che siamo chiamati ad operare. Esso è esigente e domanda di essere vissuto con radicalità e sincerità. Non basta leggerlo (anche se lettura e studio rimangono di estrema importanza), non basta meditarlo (e lo facciamo con gioia ogni giorno). Gesù ci chiede di metterlo in pratica, di vivere le sue parole.

Non sono sicuro se, dopo aver concluso la nostra formazione di base, tutti abbiamo preso sul serio la nostra formazione permanente. Oggi si parla di società liquida e amore liquido (cfr. Z. Bauman) per alludere a quella rapidità con cui stanno cambiando il mondo, la società, la Chiesa e la vita religiosa.

Il Vangelo è la fonte che, con il suo dinamismo e la sua attualità, può indicarci sentieri sui quali indirizzare i nostri passi. In proposito, uno strumento utile può essere il terzo capitolo della Evangelii gaudium (n. 111-173) nella quale Papa Francesco ci invita a rivedere il modo in cui ci avviciniamo alla Parola e la annunciamo.

Ma non basta essere esperti di teologia biblica o buoni pastoralisti se non siamo capaci di mettere in pratica quello che annunciamo. Siamo invitati a rivedere il posto che la Parola occupa nella nostra vita; se essa è veramente quella guida sicura alla quale ricorriamo quotidianamente e che a poco a poco ci fa assomigliare al Maestro.

  1. Conformare la nostra vita al modello del Figlio
mccj
P Manuel Pinheiro. Peru

Se è Gesù Cristo che seguiamo, ci sarà di aiuto riflettere sulla seconda parte del nostro nome, “del Cuore di Gesù”, perché ci permetterà di approfondire la nostra identità. Quando nel 1885, attraverso Mons. Sogaro, la Santa Sede ci concesse di diventare Congregazione religiosa, fummo chiamati: Figli del Sacro Cuore di Gesù. Nel 1979 si giunse alla riunificazione e rinascemmo con il nome di Missionari Comboniani del Cuore di Gesù. È interessante il fatto che si mantenga il riferimento al Cuore di Gesù.

Papa Francesco nella sua lettera sostiene che se il Signore è il nostro primo e unico amore, potremo imparare da lui che cos’è l’amore e sapremo come amare perché avremo il suo stesso cuore, cioè ci identificheremo con Lui. È quanto hanno meditato e condiviso con noi alcuni Padri della Chiesa.

Sant’Ireneo di Lione, ad esempio, parla di “Gesù Cristo che, per la sovrabbondanza del suo amore, è diventato ciò che siamo noi per fare di noi ciò che Lui è” (Contro le eresie, Prefazione del libro V).

San Gregorio Nazianzeno sviluppa un altro aspetto: “Nella mia condizione terrena, sono legato alla vita di quaggiù, ma essendo anche una particella divina, porto in me questo desiderio della vita futura”.

L’uomo non è solo ordinato moralmente, regolato da un decreto sul divino, ma è del ghenos, della stirpe divina, come dice san Paolo, è “stirpe di Dio” (At 17,29).

Sant’Atanasio, nel Trattato sull’incarnazione del Verbo, sostiene che il Logos divino si è fatto carne, diventando come noi, per la nostra salvezza. E, con una frase giustamente divenuta celebre, scrive che il Verbo di Dio “si è fatto uomo perché noi arrivassimo ad essere Dio; si è reso visibile corporalmente perché avessimo un’idea del Padre invisibile, e sopportò la violenza degli uomini perché ereditassimo l’incorruttibilità” (54,3).

Il nostro Fondatore, san Daniele Comboni, facendo sua la spiritualità del suo tempo, seppe rispondere alle sfide della missione ispirandosi alla spiritualità del Sacro Cuore, ampliandone il significato, dandole un’impronta più sociale e missionaria.

Riassumendo, se quelli che hanno approvato il nostro nome hanno giudicato opportuno e necessario includervi il riferimento al Cuore di Gesù, è dunque necessario che ci identifichiamo sempre di più con i suoi sentimenti e li traduciamo in atteggiamenti. Seguiamo Gesù non in qualsiasi modo, ma sforzandoci di essere “cordiali” nel nostro modo di fare, di essere riflesso ed espressione dei sentimenti del Figlio di Dio. Tutto questo ha delle conseguenze nella vita personale e comunitaria. Al punto di farci diventare parabola esistenziale, segno della presenza di Dio stesso nel mondo (cfr. Vita Consecrata n. 22).

3. Fedeli alla missione affidataci

Il terzo punto ci invita a rivedere la nostra fedeltà al mandato che abbiamo ricevuto dai nostri fondatori. Un’intuizione carismatica è, allo stesso tempo, dono e responsabilità. Dono, perché non abbiamo fatto nulla per riceverlo tramite la persona e il lavoro dei nostri fondatori, che però è stato riconosciuto dalla Chiesa, per cui abbiamo la responsabilità di non travisarlo né alterarlo, ma di essere i continuatori di questo regalo che è stato posto nelle nostre mani.

E qui si potranno avere due letture: o aggrapparci al pensiero e all’opera del nostro Padre e Fondatore pretendendo, per fedeltà carismatica, di riprodurre sine glossa quello che lui ha fatto oppure agire in modo tale che tutto quello che facciamo non assomigli affatto a quanto suggerito o proposto dai nostri fondatori e ci muoviamo in totale libertà, interpretando le nuove sfide a nostro piacimento e scarabocchiando l’eredità che abbiamo ricevuto 150 anni fa.

Credo sia bene evitare questi due estremi. È necessario infatti raccogliere la fiaccola dalle mani di quanti ci hanno preceduto conservando la lucidità per scoprire come dobbiamo rispondere alle sfide del presente senza indebolire l’originalità carismatica. È stato questo, mi sembra, l’obiettivo della Ratio missionis e del lavoro di riqualificazione dei nostri impegni su cui l’Istituto ha insistito negli ultimi anni.

Papa Francesco ci esorta a domandarci, in questo Anno della Vita Consacrata, se i nostri ministeri, le nostre opere e presenze rispondono a quelli che lo Spirito Santo ha chiesto ai nostri fondatori. In poche parole, ci invita a vivere in un’attitudine di discernimento costante per non sbagliare e per essere così riflesso ed espressione di quel carisma ecclesiale che abbiamo ricevuto.

4. Diventare esperti di comunione

mccj
P Gino Pastore. Moçambique

Stando così le cose e considerando il valore che ha per noi la vita fraterna, sarebbe opportuno che ci interrogassimo sulla qualità della nostra vita in comune. In proposito, il nostro Fondatore è stato molto chiaro nel descrivere le caratteristiche del suo Istituto: “Questo Istituto perciò diventa come un piccolo Cenacolo di Apostoli per l’Africa, un punto luminoso che manda fino al centro della Nigrizia altrettanti raggi quanto sono i zelanti e virtuosi Missionari che escono dal suo seno: e questi raggi che splendono insieme e riscaldano, necessariamente rivelano la natura del Centro da cui emanano” (Scritti 2648).

È interessante l’immagine che san Daniele utilizza: “cenacolo di apostoli”. Il cenacolo è la stanza del piano superiore, dove il Maestro affidò ai suoi discepoli ciò che portava nel cuore alla vigilia del più alto gesto di donazione. Lo stare insieme è quella realtà che ci trascende e ci avvicina a Dio quando viviamo in comunione con i fratelli. È anche spazio d’intimità, dove possiamo aprire il nostro cuore ai compagni di cammino e mostrarci così come siamo. Lì dove condividiamo ciò che siamo, scoprendo i nostri doni e limiti e quelli di quanti vivono con noi. Teologicamente, la Trinità è il nostro modello: tre persone distinte ma un solo Dio. Vivere assieme ci aiuta a condividere i nostri doni e ad accogliere la ricchezza di quanti vivono accanto a noi. Siamo diversi, ma coltiviamo e promuoviamo l’unità, attraverso il rispetto e la tolleranza. In un istituto internazionale come il nostro, la sfida è maggiore ma non impossibile.

Nell’immagine utilizzata si fa riferimento anche all’apostolicità. Da questo “cenacolo di apostoli” usciranno come “raggi” missionari solleciti e virtuosi per illuminare situazioni di oscurità: il Papa parla di scontro, di difficile convivenza fra culture diverse, di sopraffazione sui più deboli, di disuguaglianza e potremmo continuare con un elenco di situazioni che conosciamo e che ci siamo trovati davanti nel nostro servizio nelle diverse parti del mondo, dove lavoriamo. A tutte queste, siamo chiamati a portare una parola di speranza e d’incoraggiamento, illuminando le oscurità e condividendo un’esperienza di fraternità, frutto della comunione che abbiamo sperimentato. E non baseremo la forza e l’efficacia della nostra vocazione missionaria sulle risorse materiali che potremmo portare alla missione, ma sulla disponibilità a condividere l’esperienza autentica di Dio che abbiamo e sulla dose di umanità che possiamo trasmettere. La qualità della vita missionaria dipenderà dal tempo che siamo disposti a dedicare alle persone emarginate dalla società. Il nostro posto, come missionari – e questo ce lo riconoscono la maggior parte delle Chiese locali – è là dove ci sono tensioni e differenze, dove ci sono situazioni che sono contrarie alla condizione umana. È lì che dobbiamo portare la presenza dello Spirito, cercando di dare testimonianza di unità (Gv 17,21), come ci ricorda il Papa.

Tutto questo si traduce in uno stile proprio che deve essere di ascolto, di dialogo e di collaborazione con le persone con cui veniamo a contatto. Potremo anche essere persone dinamiche e capaci, ma se non sapremo lavorare in gruppo, difficilmente daremo testimonianza dell’amore trinitario sul quale si fonda la vita comunitaria. Le differenze non devono impedirci di dare testimonianza di unità davanti alla Chiesa e al mondo.

5. Appassionati al Regno

Un’ultima considerazione: seguire Gesù, desiderare di assomigliare al suo cuore, rimanere innamorati della missione ed essere costruttori – e non meri consumatori – di comunità, sarà possibile nella misura in cui manterremo sempre viva la passione per il Regno. Se guardiamo bene, molti di noi dimostrano una certa dose di irresponsabilità per il modo in cui amministriamo il tempo e i beni che arrivano nelle nostre mani. Se perdiamo il contatto con le persone, sarà difficile immaginare le mancanze che vive la maggior parte della nostra gente. Nella Lettera, citando Giovanni Paolo II, Papa Francesco afferma: “La stessa generosità e abnegazione che spinsero i Fondatori devono muovere voi, loro figli spirituali, a mantenere vivi i carismi che, con la stessa forza dello Spirito che li ha suscitati, continuano ad arricchirsi e ad adattarsi, senza perdere il loro carattere genuino, per porsi al servizio della Chiesa e portare a pienezza l’instaurazione del suo Regno”.

Perché alcuni dei nostri candidati perdono l’entusiasmo iniziale quando poi fanno parte dell’Istituto? Perché per molti di noi è così facile smettere di essere comboniani, quando compaiono difficoltà o disaccordi? Perché ci è sempre più difficile obbedire e rispondere alle sfide che ci si presentano? Perché è diminuita la nostra passione per il Vangelo e per tutto quello che riguarda la missione? Perché tanti vivono da pensionati prima del tempo? Non sarà forse perché abbiamo trascurato alcuni riferimenti fondamentali legati alla nostra identità, per cui usciamo di strada e perdiamo la rotta?

La passione per un ideale, nel nostro caso, la missione, è legata all’entusiasmo. La passione non si conquista una volta per sempre. È come una pianta che dobbiamo curare e nutrire ogni giorno. Per questo è necessario trarre profitto da iniziative come quella che ci propone il Papa nell’Anno della Vita Consacrata, per rivedere come stiamo vivendo la nostra consacrazione e qual è il nostro legame con il Vangelo, con l’Istituto e con la missione.
P. Rogelio Bustos Juárez, mccj

 

La vite, i tralci e la potatura

Commentario a Gv  15, 1-8: Quinta Domenica di Pasqua, maggio 2015

Se nella domenica scorsa Gesù usava un’immagine sorta del mondo culturale dei allevatori di bestiame (per costruire l’allegoria del Buon Pastore), quest’oggi l’immagine scelta è quella della vite, legata alla vita degli agricoltori della riva orientale del Mediterraneo, dove è cresciuto Gesù stesso. Oggi il vino è molto conosciuto e consumato ovunque e penso che, anche se molti no conoscono direttamente la pianta che produce questa deliziosa bevanda, l’immagine usata da Gesù diventa significativa per tutti noi, di qualunque cultura. Vediamo di usarla per approfondire il nostro discepolato:

P1010251

  1. La vite, la pianta capace di trasformare gli elementi chimici in nuova vita

Gesù compara se stesso con la vite, che viene piantata e coltivata dal Padre perché dia buoni grappoli ‘uva. Gesù Cristo, con la sua personalità radicata nel Amore del Padre, passa ai suoi amici, comparati con i  “rami” di un albero,  la sua stessa vita ricevuta dal Padre, in modo che anche noi possano dare frutti abbondanti. Ci sono alcuni oggi che sembrano pensare che la vita può crescere e svilupparsi “autonomamente”, come se la vite potesse crescere e dare frutto senza una terra o senza un “coltivatore”. I discepoli di Gesù, invece, sappiamo molto bene che, senza l’amore fondante del Padre e senza la “vite” Gesù Cristo, noi non diamo frutto o i nostri frutti diventano acervi.

Altri, alcuni cristiani inclusi, sembrano confondere la Chiesa con una associazione politica, un’organizzazione umanitaria o un club di filosofi. Ma la Chiesa è, in primo luogo e soprattutto, la comunità di coloro, la cui vita è legata a Dio per mezzo di Gesù Cristo. Certamente, la Chiesa è e fa molte cose: La Chiesa possiede, per esempio, molte scuole e ospedali, e porta avanti molte altre attività con effetti sociali, economici, culturale or anche politici… Ma non confondiamo le cose: La Chiesa è, in primo luogo, un spazio di fede e di relazione con il Padre per mezzo di Gesù Cristo. Se venisse a mancare questa fede, subito mancherebbe anche la Chiesa e i suoi frutti sociali.

gesu-e-vite

2.- I tralci, che sorgendo dalla pianta e danno frutto

Gesù ci dice, che se Lui è la vite, noi siamo i tralci. San Paolo, usando un’altra immagine, dice che noi siamo i membri del suo corpo. Le due immagini sono molto efficaci per farci capire che senza Gesù noi non abbiamo vita né siamo capaci di dare frutto. Per questo dobbiamo evitare due pericoli:

-Rompersi, separarsi dalla pianta: Mi ricordo di quando ero giovane e accompagnavo mio padre a lavorare nella vigna. Quanta attenzione facevamo a non rompere y tralci, specialmente quelli molto carichi! Era tanto facile strapparli e perdere il promissorio frutto che portavano nella loro fragilità. La stesa cosa succede con noi, quando per incoscienza or orgoglio, arriviamo a pensare che possiamo arrangiarci fare da soli e ci separiamo da Gesù. Se cadiamo in questa tentazione, molto presto diventiamo secchi e sterili, incapaci di dare frutto o di maturare quelli che abbiamo già prodotto. E’ fondamentale rimanere uniti a Gesù nell’amore personale, nell’obbedienza ai suoi comandamenti, nella comunione ecclesiale, nella apertura allo Spirito Santo.

-Dimenticarsi la potatura: Gli agricoltori sanno molto bene che una vigna non potata diventa subito una vigna invecchiata e incapace di fare uve. Io stesso ricordo una vite che avevamo in una delle nostre comunità. Per qualche anno, nessuno si è preoccupato di potarla, con il risultato che, non solo non dava più uve, ma la vite stessa stava morendo. Quando abbiamo deciso di potarla, in molto poco tempo la vite si riprese vigorosamente e diede già al primo anno frutto abbondante. Il significato di questa allegoria per la nostra vita è molto chiaro, se vogliamo ascoltarlo: una vita che si “abbandona”, che non viene “potata”  mediante la preghiera, l’ascolto della parola, il discepolato continuo… è una vita che diventa sterile e muore.

La vita e la missione del discepolo trovano la sua forza nella unione con Gesù; questa vita non darà frutto e muore, se non viene continuamente coltivata con l’ascolto della Parola, l’apertura allo Spirito, l’obbedienza ai comandamenti, la fedeltà alla comunità…

IMG_0147

3.- Il frutto: l’uva che produce il vino, capace di trasformare la vita in un banchetto di festa

Tutti noi vogliamo dare frutto, essere portatori di vita per noi e per gli altri. Ma bisogna ricordare che il frutto non è qualcosa di artificiale che si può “appicciare “dal esterno sui rami degli alberi. Il frutto non viene dall’esterno ma dall’interno. Soltanto la vita interiore della pianta può portare la pianta a dare frutto. Lo stesso succede con il discepolo/discepola: darà frutto soltanto se ha una vita interiore, una relazione profonda con Gesù Cristo, e se si fa potare dal Padre continuamente. Se così  fa, la sua vita darà molti frutti, come dice S. Paolo, frutti di bontà e generosità, di gioia e di pace, di umiltà  e di servizio… frutti di vita nuova, la cui radice sta in Gesù Cristo, e i cui rami sono continuamente potati e coltivati dal Padre mediante il suo Spirito.

P. Antonio Villarino

Roma

 

Animazione missionaria a Lijó – Barcelos

BarcelosUna settimana dopo la Pasqua, con le parole di Cristo Risorto: “Come il Padre ha mandato me, anche io mando Voi (Giovanni 20: 21), la comunità di vita di Porto si è recata presso la parrocchia di St. Mary di Lijò (Barcelos) per condividere un’esperienza di vita missionaria.

L’avventura è iniziata venerdi notte con il gruppo giovanile “Gaudium”, con il quale abbiamo trascorso un vivace pomeriggio, colmo di spirito missionario. Il sabato, dopo aver dedicato la mattinata alla condivisione, alla riflessione liturgica e alla riflessione sull’identità degli LMC (secondo le sfide dell’ultima assemblea Internazionale di Maia), abbiamo trascorso il pomeriggio con i giovani del 7°, 8°, 9° e 10° anno di catechismo. Una serata piena di vita e condivisione missionaria che è culminata con la celebrazione dell’Eucarestia assieme all’intera comunità parrocchiale.

Il centro della nostra domenica è stata la celebrazione eucarística; sempre l’annuncio missionario era sostenuto non solo dalla gioia, ma anche dal benevenuto e dalla generosa disponibilità dell’intera comunità parrocchiale. La giornata e le attività si sono concluse con un “grazie” che veniva dal cuore. Un “grazie” esteso all’intera comunità parrocchiale, in particolare ai giovani e ai catecumeni che hanno modificato i loro programmi e impegni per stare con noi e un grazie speciale anche al sacerdote P. João Granja che non ha risparmiato gli sforzi unendosi a noi per tutto il weekend. Veramente “la mano del Signore ha fatto meraviglie, la mano del Signore è stata grande” [Salmo 117 (118)].

LMC Portugal

Mangiare insieme, aprire la mente, diventare testimoni

Commentario a Lc 24, 35-48, Terza Domenica di Pasqua, 19 aprile 2015
Leggiamo oggi l’ultima parte del capitolo 24 di Luca. Dopo l’episodio dei due discepoli di Emmaus, che riconoscono Gesù nel “partire il pane” e che tornano a Gerusalemme per condividere quello che hanno vissuto, Luca ci racconta come Gesù si manifesta a tutto il gruppo, nel cenacolo, dove la comunità è radunata, anche se piuttosto triste, confusa e piena de dubbi. Nel testo che leggiamo oggi possiamo trovare molti spunti di meditazione. Io mi trattengo soltanto in tre:

MinoCenaEcologica1) L’importanza di mangiare assieme: “Mangiò davanti a loro”.
Luca ci racconta che, visto che i discepoli erano rimasti sotto shock e stentavano a credere quello che vedevano, Gesù domandò un po’ di cibo e si mise a mangiare davanti a loro. Mangiare con qualcuno è sempre stato un gesto di grande significato sociale. Mangiare assieme unisce le famiglie, accresce le amicizie, stabilisci vincoli sociali… e perfino favorisce gli affari.
Per quello che ci dicono i vangeli, Gesù andava frequentemente a mangiare nelle case delle persone più diverse: per festeggiare un matrimonio (Cana), per celebrare una nuova amicizia (con Levi), per trovare dirigenti sociali (farisei)… Gesù comparava anche il Regno di Dio con un banchetto a cui ci invita Dio. Mangiare assieme è un segno della nuova fraternità umana che Gesù ha annunciato nel nome del suo Padre celeste; e di questa fraternità, sigillata con il suo corpo e sangue consegnati sulla croce, è anticipazione l’ultima cena.
Gesù ha fatto della cena comunitaria un segno della sua presenza tra i discepoli, compagni nella lotta in favore del Regno di Dio in un mondo frequentemente ostile. Certo che tutto può essere falsato, come succede con certe cene ipocrite, che non sono quello che appaiono. E questo può capitare anche con il grande sacramento della presenza viva di Gesù in mezzo a noi: l’Eucarestia. Possiamo falsarla, e di fatto lo facciamo. Ma, se la viviamo onestamente, l’Eucarestia diventa il grande segno di una umanità rinnovata, di una Chiesa che ascolta la Parola a condivide il pane. Se viviamo l’Eucarestia sinceramente, Gesù è presente tra di noi, la comunità cresce nella comunione (inclusa la condivisione dei beni necessari per la vita) e l’umanità trova nel suo seno questo fermento di vita nuova, capace di farla crescere in giustizia, pace, riconciliazione e amore.
2) Menti aperte: “Le aprì le menti per capire le Scritture”
Gesù apre loro l’intelligenza per capire le Scritture a partire da quello che stanno vivendo, e per capire quello che vivono a partire dalle Scritture. Questo capitava già quando Gesù camminava sulle strade della Galilea e della Giudea. Precisamente per questo Gesù era il Maestro: aveva parole luminose, chiare, rilevanti, che erano come delle lampade che illuminavano la realtà. Ascoltandolo era facile capire come, per esempio, guarire un paralitico era più importante che seguire alcune norme religiose; che il Padre si rallegra tanto quando un suo figlio pentito torna a casa dopo una brutta esperienza; che aiutare un sconosciuto ferito ci fa diventare veri figli del Padre… che la sua propria morte trovava un senso nella fiducia assoluta e nell’amore definitivo di un Dio che non ha paura di “perdere” la propria vita per amore.
Per tutto questo, fino a oggi, e per secoli futuri, i discepoli ci raduniamo regolarmente: per ascoltare la parola di Gesù, per farci illuminare da essa in un dialogo fecondo tra vita e parola. A partire della vita cappiamo meglio la parola e, leggendo la parola, cappiamo la vita. E in tutto questo esperimentiamo che Gesù vive in mezzo a noi e ci accompagna nel nostro camminare.

P10009163) Diventare testimoni “Il suo nome sarà predicato a tutti i popoli”
Ascoltare la parola luminosa di Gesù, mangiare con Lui e con la comunità dei discepoli, esperimentare la presenza dello Spirito nella mia vita e nel mondo, è il più grande dono che ho mai potuto ricevere. Questo ha trasformato la mia vita, facendomi sentire figlio amato e fratello tra fratelli. Per questo, come Pietro e Paolo, come Luca e tantissimi altri discepoli, anche io sono un testimone, un missionario, qualcuno che vuole condividere con il mondo il dono ricevuto. Diventare testimoni di Gesù nel mondo è la più fascinante missione che una persona può avere.
La missione non è una carriera orgogliosa per fare proseliti di una setta, neanche propaganda di una ideologia o diffusione di un sistema religioso… La missione ci fa umili testimoni di un dono ricevuto: una Parola che da senso alla nostra vita nel mondo, anche in mezzo a contradizioni, nostre ed altrui; una fraternità che impariamo a costruire giorno dopo giorno, non perché noi siamo migliori degli altri, ma perché siamo discepoli, disposti a imparare, anche se questo grandioso progetto del Regno ci supera grandemente; una esperienza dello Spirito che, secondo la promessa di Gesù, ci guida, nella libertà e nell’amore, in mezzo a difficoltà, contradizioni e peccati.
Grazie, Gesù per la tua Parola; grazie per la tua cena di fraternità; grazie per il tuo Spirito che ci accompagna e ci guida in questa dolce missione di diventare tuoi testimoni, “per la vita del mondo”.
Antonio Villarino
Roma

Pace, gioia, perdono, missione

Commentario a Gv 20, 19-31: Seconda Domenica di Pasqua, 12 aprile 2015

vigo-hermanitas++++In questa seconda domenica di Pasqua, leggiamo ancora il capitolo 20 di Giovanni, che ci parla di quanto è accaduto in quel “primo giorno della settimana”, cioè, al’inizio della “nuova creazione”, della nuova epoca storica che stiamo vivendo come comunità di discepoli missionari di Gesù. La presenza di Gesù vivo in mezzo alla comunità si ripete di nuovo otto giorno dopo, per toccare il cuore di Tomasso, esattamente come succede con noi ogni domenica, quando la comunità cristiana si raduna (ogni otto giorni) per celebrare la presenza del Signore.
Il vangelo ci dice che Tomaso non credette fin che non vide il costato ferito di Gesù. Precisamente da quel costato ferito, da quel cuore che amò sino alla fine, sorge lo Spirito che fa vivere la Chiesa come corpo di Cristo. Con lo Spirito la comunità-chiesa riceve i suoi doni: pace, gioia, perdono, missione. Vediamo brevemente:

P10009071) “Pace a voi”
Gesù usa la formula tradizionale del saluto tra gli ebrei, una formula che alcune culture usano ancora oggi in un modo o un altro. Nel nostro linguaggio di oggi potremmo dire: “Ciao, come stai, ti voglio bene, sono il tuo amico, voglio essere in pace con te”. Vi pare poco? A me pare moltissimo. Ricordo quando Papa Francesco, appena eletto, si presentò alla logia della Basilica di S. Pietro e semplicemente disse: “Buona sera”. E’ bastato questo piccolo saluto per che la moltitudine saltassi di gioia. Non c’era bisogno de una profonda riflessione né di una dichiarazione speciale; soltanto quello: una semplice parola di riconoscimento dell’altro con un atteggiamento di apertura e amicizia.
In questo senso, penso all’importanza e bellezza di un saluto cordiale e affettuoso tra i membri di una famiglia, riaffermando ogni giorno la vicinanza vicendevole, che riempie la vita di gioia; penso al saluto rispettoso e positivo tra i colleghi di lavoro, che fa la vita più leggera e produttiva; penso a quella mano che ci diamo durante la Messa riconoscendo nell’altro un fratello, anche se non ci conosciamo; penso al gesto di comprensione e appoggio allo straniero… Penso alla pace mondiale di cui tanto bisogno né abbiamo in questi tempi di violenza generalizzata. In tutte queste situazioni, Gesù risorto è il primo a dirmi: “Ciao, pace a te”. Così anch’io posso diventare strumento di pace.
In oltre, è interessante notare che, salutando, Gesù mostra le sue mani e il suo costato, con i segni della tortura cui era stato sottomesso. Questo vuol dire che la pace di Gesù non à una pace “buon mercato”, superficiale; è una pace a caro prezzo, pagata con la propria vita. Ci fa ricordare che salutare con la pace non sempre è facile… anzi tante volte è molto difficile. Ma Gesù –e noi con lui– è un “guerriero” della pace, una persona coraggiosa, che non ha paura della sofferenza. La pace è frutto del coraggio, non della debolezza.

2) Gioia: “I discepoli gioirono vedendo il Signore”.
L’arrivo di Gesù, con il suo saluto di pace, produce gioia. Come produce gioia, l’arrivo di un amico; come c’è gioia in una famiglia o in una comunità, quando c’è accettazione mutua. Non si tratta di una gioia “superficiale”, che nasconde le difficoltà, i problemi o i peccati; non è la gioia di chi falsa la realtà, di chi si droga con il vino, i piaceri di ogni tipo o l’orgoglio insensato.
E’ la gioia di chi si sente rispettato e rispetta; la gioia di chi si sente riconosciuto e riconosce; la gioia di chi si sa amato e ama gratuitamente; la gioia di chi crede di essere figlio del Padre. E’ la gioia di chi ha trovato un senso per la sua vita, una missione per la quale spendere il suo tempo e le sue energie, anche se questo implica lotta e sofferenza. E’ la gioia di chi ha trovato in Gesù un amico fedele, un maestro affidabile, un Signore che vince il male con il bene.

3) Perdono: “A chi rimetterete i peccati saranno rimessi”.
La gioia del discepolo non è quella di una persona incosciente o di chi si crede “perfetto” e capace di fare tutto bene. E’ la gioia di chi si sente perdonato e disposto a seminare perdono. Gesù risorto donò alla sua Chiesa lo Spirito del perdono, della misericordia e della riconciliazione. Papa Francesco ha ricuperato per il nostro tempo il chiamato “principio misericordia”. La Chiesa non à il luogo della Legge e della condanna, ma uno spazio dove è sempre possibile ricominciare da capo. Senza misericordia, l’umanità diventa un luogo dove non è possibile la vita, perché, alla fine, non è possibile vivere di sola legge. Noi tutti abbiamo bisogno di misericordia, pace, riconciliazione, fraternità… E tutto questo è un dono che riceve chi si avvicina nella fede al Cristo risorto.

4) Missione: “Come il Padre ha inviato me, così io invio voi.
La comunità dei discepoli, pacificata, perdonata, divenuta spazio di misericordia, si fa comunità missionaria, inviata nel mondo, per diventare precisamente questo: spazio di misericordia, di riconciliazione e di pace; quanto bisogno ne ha il mono di questo spazio! Quanto è necessario diffondere nel mondo queste comunità di discepoli di discepole che umilmente credenti diventano luoghi di saluto pacifico, di perdono e di gioia profonda!
P. Antonio Villarino
Roma