Laici Missionari Comboniani

I Laici Missionari Comboniani al servizio delle popolazioni in missione

IsabelCiao! Il mio nome è Ma. Isabel Barbosa Buenrostro, ho 39 anni, sono LMC “Laica Missionaria Comboniana” e “Chirurgo e ostetrico.” Sono nata in una piccola città nello Stato di Jalisco in Messico, la mia città è Santa Cruz de las Flores, facente parte del comune di San Martín Hidalgo  a 2 ore da Guadalajara. Ho studiato presso la Facoltà di Medicina dell’Università di Guadalajara.

Verso la fine del 2004 ebbi modo di incontrare le Suore Missionarie Comboniane e nel 2005 entrai a far parte della loro congregazione. Inizialmente fui destinata, come prima esperienza missionaria, in Ecuador, dove mi sono fermata tra febbraio e marzo, per sostenere la famiglia comboniana fra le comunità afro-ecuadoriane e indigene; lì ho iniziato a comprendere la missione e quanto grande sia la sete di Dio fra le nostre nazioni sorelle, dove la popolazione è abbandonata a sé stessa, discriminata e soffre di una grande povertà materiale nonostante sia ricca di valori e tradizioni che ancora conserva. Seguii per un anno il cammino di formazione in postulato, ma nel 2006 decisi di lasciare la Congregazione delle Suore Missionarie Comboniane poiché la disciplina religiosa mi limitava nello svolgimento della mia professione. E fu così che incontrai i Laici Missionari Comboniani. Con loro ho trovato il luogo adatto dove praticare la mia professione di medico fra i poveri e realizzare pienamente la mia vocazione missionaria.

Il mio lavoro con gli ammalati è una delle mie grandi passioni, perché attraverso loro vedo il volto di Cristo e con loro trovo grande realizzazione e crescita umana per essere lo strumento di cui Dio si serve per aiutare a guarire corpi e anime… Sentii la chiamata di Dio quando avevo compiuto 20 anni. Mi trovavo da alcuni anni a fare discernimento presso la Congregazione Religiosa di Vita attiva delle “Ancelle del Sacro Cuore di Gesù”. Ma quando iniziai a lavorare presso i servizi sociali come medico nei villaggi, capii che la mia vocazione era essenzialmente missionaria. Ed eccomi qui, in cammino, coltivando e lottando per la mia vocazione. Poiché ciò è il più grande e meraviglioso dono che Dio mi abbia fatto, mi sento in questo modo pienamente realizzata come essere umano e credo che la missione alla quale sono stata inviata in questo mondo è andare verso il popolo eletto di Dio, specialmente i più poveri e abbandonati della terra. A San Daniele Comboni dedico la mia vita per servire i miei fratelli come missionaria laica e come medico.

Quando ho incontrato la Famiglia Comboniana tutto era molto bello, Dio mi aveva dato l’opportunità di fare missione per brevi periodi, specialmente come volontaria; dopo la mia prima esperienza missionaria in Ecuador nel 2005 e dopo aver lasciato l’esperienza di postulato nel 2006, ho partecipato ad alcuni campi di missione: nel 2006 nella regione Andina sugli altopiani del Perù, ad Huancayoc, nella Regione di Waras fra gli indigeni Quechua; nel 2010 nella foresta dell’Ecuador a Pambilar, nella Provincia di Esmeraldas, fra gli indigeni Awás; in Guatemala nel 2013 nella Parrocchia della clinica comboniana di SanLuis El Peten fra gli indigeni Quec”Chis.

Recentemente ho concluso la mia esperienza comunitaria e di formazione missionaria come LMC, in quanto è prevista nello statuto degli LMC sia la formazione intensiva per una durata di otto mesi sia la preparazione alla missione Ad Gentes per un periodo minimo di 3 anni. La formazione si è svolta con la mia amica Carolina; per i primi 3 mesi nello Stato di Guerrero, in Messico, nelle montagne del Metlatónoc, dove è presente una missione degli LMC e dei Missionari Comboniani; questa è la regione delle comunità indigene Mixtec. Lì ho vissuto un momento forte e molto speciale; abbiamo condiviso la missione fra le comunità di Huexoapa, Atzompa e Cocuilotlazala. Qui svolgiamo una pastolare catechistica e sociale, soprattutto ci prendiamo cura dei malati. Dato che come laici facciamo coincidere la nostra vita professionale, familiare, sociale, spirituale e religiosa, questo è l’aspetto positivo della vocazione laicale. Come LMC siamo in grado di sostenere con la nostra professione le missioni in vari progetti sociali. I rimanenti 5 mesi (da febbraio a luglio) abbiamo studiato a Città del Messico. Siamo stati accolti presso il Seminario dei Missionari Comboniani, dove abbiamo partecipato a diversi workshop. Come una parte dei nostri studi professionali, riceviamo una preparazione religiosa, spirituale e umana per essere bravi missionari.

Ciò che ho imparato in questo periodo è che tutti gli uomini sono famiglia di Dio, che abbiamo un Padre comune e che tutti i popoli di tutte le nazioni e di tutte le culture del mondo sono nostri fratelli e sorelle. Tutti, in base al contesto in cui siamo nati e cresciuti, abbiamo conoscenza ed esperienza di Dio, perché Dio ha piantato i semi della Sua Parola nella storia di tutti i popoli. Ho capito che la nostra Chiesa Cattolica è universale e che dobbiamo essere fratelli rispetto a tutte le religioni e in particolare che dobbiamo rispettare e conservare le culture delle nostre popolazioni indigene: gli afro-americani e gli africani. Come missionari dobbiamo accompagnarli, camminare con loro, per vivere la nostra fede e condividere la vita con loro; lavorare con loro per recuperare la loro dignità di figli di Dio e responsabilità per il loro sviluppo umano.

Questo è il carisma comboniano che  il nostro fondatore San Daniele Comboni ci ha indicato. Poiché il messaggio della Buona Novella che Gesù è venuto a portare sulla terra e che stiamo ancora proclamando ogni giorno attraverso la sua Parola, gli eventi del mondo e la bellezza della natura e della vita stessa, è di essere felici su questa terra e poi la felicità troverà il suo compimento nella vita eterna. La preghiera e la vita spirituale sono un importante alimento per noi missionari. Il 6 luglio 2014, la Famiglia Comboniana ha celebrato, come ringraziamento a Dio, la conclusione della nostra esperienza di formazione, nella Cappella del Seminario Comboniano di Città del Messico, dove il  responsabile LMC del Messico (P. Laureano Rojo), Provinciale dei Comboniani del Messico e i Padri insegnanti del Seminario hanno presieduto alla Messa di INVIO MISSIONARIO di Ma Isabel Buenrostro e Carolina Carreon, laiche missionarie comboniane. Possa Dio con la potenza dello Spirito Santo, continuare a donarci la sua pace ed illuminare tutti i suoi figli, in modo che tutti possano diventare missionari e annunciare e rendere “vita” gli insegnamenti di Gesù Cristo.

Con il cuore nella missione

P._Enrique_Sanchez

“Con l’avvicinarsi della festa del Sacro Cuore – venerdì 27 giugno – desidero condividere con voi questa piccola riflessione perché ci aiuti a prepararci a questa celebrazione fissando il nostro sguardo in quel Cuore aperto da cui nasce la nostra vocazione missionaria, per attingere le forze di cui abbiamo bisogno in questo momento del nostro cammino come eredi di san Daniele Comboni”. P. Enrique Sánchez G., mccj.

Con il cuore nella missione

“Io non voglio tacerle qui che, allorché la S. Sede mi ha affidato questa vasta e laboriosa Missione, la mia coscienza era un po’ titubante, perché conoscevo la mia piccolezza di fronte a questo mandato enorme che Dio mi ha affidato tramite il suo augusto Vicario Pio IX. Allora io ho pensato che con le nostre forze non riusciremo mai a fondare il cattolicesimo in queste immense regioni dove la Chiesa, malgrado gli sforzi di tanti secoli, non è giammai riuscita. Allora ho gettato tutta la mia confidenza nel Sacro Cuore di Gesù e ho stabilito di consacrare tutto il Vicariato al Sacro Cuore di Gesù il 14 settembre prossimo. A questo scopo ho inviato una circolare per fare questa grande solennità e ho pregato l’apostolo ammirabile del S. Cuore, il P. Ramière, a redigere l’atto di Consacrazione solenne, ciò che egli ha fatto” (Scritti3318).

Cari confratelli,
Con l’avvicinarsi della festa del Sacro Cuore desidero condividere con voi questa piccola riflessione perché ci aiuti a prepararci a questa celebrazione fissando il nostro sguardo in quel Cuore aperto da cui nasce la nostra vocazione missionaria, per attingere le forze di cui abbiamo bisogno in questo momento del nostro cammino come eredi di san Daniele Comboni.

Il 31 luglio del 1873, san Daniele Comboni scrisse una lettera a Mons. Joseph De Girardin, dalla quale ho preso il testo con cui inizio questa mia riflessione. L’ho scelto perché mi sembra che contenga alcuni elementi che corrispondono alla realtà che ci troviamo ad affrontare in questo momento della nostra vita e della nostra missione e che meritano una riflessione da parte nostra.

Come a quel tempo, anche oggi non è difficile affermare che la missione a noi affidata continua ad essere vasta e laboriosa; spesso essa ci appare molto più esigente e al di là delle nostre forze. E questo – lo dico subito – non è un aiuto a viverla con responsabilità ed efficacia.

Negli ultimi trent’anni, infatti, l’Istituto si è sviluppato considerevolmente e nel suo processo di crescita si è impegnato in tanti settori, su molti fronti e in tante e diverse realtà missionarie la cui vastità è evidente. L’immenso Vicariato dell’Africa centrale è diventato per noi ancora più immenso, con una presenza in quattro continenti e una diversità d’impegni missionari tale da farci credere di essere presenti su tutti i fronti della missione. Questo fatto, per alcuni di noi, è un bene, sembra rispondere al bisogno di affermare un ego, ci fa credere che siamo grandi missionari perché portiamo il Vangelo in tutti gli angoli del pianeta e in tutte le periferie dell’umanità, per usare un’espressione cara a Papa Francesco.

Alla vastità, bisogna poi aggiungere la laboriosità, la complessità di una missione che è esigente, sfidante e in profondo cambiamento per la frenetica trasformazione del mondo e della società. La missione sta cambiando senza darci il tempo di capire in quale direzione orientarci e il grande rischio sembra essere un’incapacità, da parte nostra, a essere in anticipo su questi mutamenti.

Ma la laboriosità che oggi la missione esige diventa sfida alla nostra creatività, alla nostra capacità di metterci in discussione, di sognare per intraprendere sentieri nuovi che possono costringerci a camminare su terreni sconosciuti, inauditi – come ci è stato detto qualche tempo fa – invitandoci a non vivere del lascito che abbiamo ereditato e che può ingannarci con una pretesa di onnipotenza missionaria.

Comboni, in quella lettera del 1873, si diceva titubante perché conosceva la sua piccolezza. Anche noi oggi stiamo diventando più consapevoli della nostra piccolezza, e non solo perché le statistiche ci ricordano la costante diminuzione del personale. Non penso sia solo questione di numeri. Credo che questa piccolezza possa farci capire che le nostre forze non saranno mai sufficienti per rispondere alle esigenze della missione e che il Signore non fa i suoi calcoli usando la matematica.

Sagrado CorazónAllora, come orientare il nostro sguardo, dove attingere le forze e la luce per vivere radicalmente la nostra vocazione missionaria comboniana?

Penso che per noi, oggi, la piccolezza debba essere misurata guardando alla nostra qualità di vita, alla coerenza nel portare avanti i nostri impegni personali e le opzioni di vita che abbiamo fatto, alla capacità di non essere superficiali nel vivere la nostra consacrazione religiosa per la missione, alla nostra totale disponibilità nell’andare a servire i più poveri, alla libertà di non lasciarci confondere dalle facili suggestioni del nostro mondo: consumismo, apparenza, superficialità, ecc.

Senza far riferimento a nessuno in particolare e senza voler rimproverare, penso che ognuno di noi debba riconoscere la propria povertà, la propria fragilità e il proprio limite, la tentazione di far diventare la missione qualcosa che mi serve e non invece quella realtà che mi chiama a donarmi senza condizioni e senza usare pretesti per farla diventare una “missione su misura”.

Ho una profonda ammirazione per tanti confratelli che vivono con enorme entusiasmo, dedizione e spirito di sacrificio in situazioni di indicibile violenza e pericolo. Sono quelle pietre nascoste di cui – ci ricorda Comboni – c’è bisogno per costruire la missione. È alla luce di queste testimonianze che dobbiamo misurare la nostra risposta alla chiamata che abbiamo ricevuto e riusciremo a scoprire quanto grandi, forti e capaci potremo essere per abbracciare la missione che ci viene affidata oggi.

Comboni dice con molta umiltà: “ho pensato che con le nostre forze non riusciremo mai”. Non è un’espressione di scoraggiamento, è anzi la convinzione di portare con sé una missione che non dipende da noi. “Allora ho gettato tutta la mia confidenza nel Sacro Cuore di Gesù”. Forse, e senza il forse, penso sia il momento per noi di fare quest’esperienza di abbandono e di fiducia, di fede e di apertura all’azione di Dio nella nostra vita, che non vuol dire rifugiarsi in una spiritualità che ci porta fuori dalla realtà o dalla responsabilità di impegnarsi nella costruzione del Regno.

Confidare nel Sacro Cuore di Gesù è, anche per noi oggi, la sfida che ci obbliga a sporcarci le mani nella trasformazione della nostra umanità, attraverso il nostro servizio missionario, senza dimenticare che l’unico e vero protagonista della missione è e sarà sempre il Signore.

Se Comboni ha voluto consacrare il suo Vicariato a questo Cuore, che non è altro che l’amore senza limiti di Dio per ognuno di noi e per tutti quelli ai quali ci manda come suoi missionari, penso che valga la pena vivere questa festa rinnovando la nostra disponibilità perché il Signore realizzi i suoi piani su di noi, riconoscendo che la missione che nasce dal suo Cuore ha un bel futuro. Per questo dobbiamo viverla nella fiducia che il Signore non ci deluderà.
Buona festa a tutti.
P. Enrique Sánchez G. mccj

La nuova evangelizzazione alla luce di Evangelii Gaudium

Ir EnzoI responsabili delle pubblicazioni comboniane europee – Germania (DSP), Spagna, Italia, Polonia, Portogallo e Regno Unito (LP) – si sono riuniti dal 26 al 30 maggio a Londra. Il tema scelto per la riflessione di quest’anno, “La nuova evangelizzazione e i mezzi di comunicazione sociale comboniani”, è stato presentato da Fr. Enzo Biemmi (nella foto), religioso della Congregazione dei Fratelli della Sacra Famiglia. Pubblichiamo qui di seguito il testo del suo intervento.

La nuova evangelizzazione alla luce di Evangelii Gaudium

In questo mio intervento cerco di indicarvi alcune linee importanti sulla nuova evangelizzazione così come le percepisco partendo dalla mia sensibilità e dai miei punti di osservazione. Ho partecipato nel 2012 al Sinodo sulla nuova evangelizzazione. Tengo conto ancora di più della forte novità costituita da Papa Francesco e in particolare dalla Evangelii Gaudium.

Divido in cinque parti il mio intervento. Segnalo prima di tutto il contesto nel quale ci troviamo, contesto che segna la fine di un certo cristianesimo. Preciso poi l’orizzonte, che è quello missionario. In terzo luogo indico le condizioni che rendono possibile l’annuncio del vangelo nel cuore delle donne e degli uomini di oggi. Ricupero alcuni aspetti di contenuto, che permettono di introdurre e chiarire la nozione di primo e secondo annuncio. Infine delineo alcuni tratti di stile, in modo che sia un secondo annuncio evangelico.

1. Il contesto

Vorrei delineare il contesto attuale attraverso un’immagine. In un incontro di formazione che ho avuto il 24 giugno scorso con il clero della diocesi di Rovigo, nel Triveneto, don Luigi, parroco della parrocchia di Ramodipalo di Lendinara mi raccontava che proprio quel giorno, 20 anni prima, la sua chiesa aveva subito una vera catastrofe. I fedeli se ne erano già andati e lui aveva appena chiuso la porta. Improvvisamente tutto diventò nero, poi un grande boato e una nuvola di polvere. Quando la polvere si fu diradata don Luigi rimase senza fiato. Non c’era più il campanile! Una tromba d’aria lo aveva sradicato e lasciato cadere rovinosamente sul tetto della chiesa. Gli chiesi se avevano ricostruito il campanile. Mi disse che avevano ristrutturato la chiesa, riaperta 12 anni dopo, ma il campanile no, per mancanza di soldi. Ho iniziato il mio intervento con i parroci della diocesi di Rovigo con quel ricordo. La chiesa ha conosciuto in questi ultimi anni un vero e proprio tornado. Quel campanile, simbolicamente al centro di ogni paese, segnava una coincidenza tra il civile e il religioso e faceva della chiesa il centro della vita della gente. Quel campanile crollato è una realtà di ogni comunità ecclesiale nella cultura annuale, sicuramente in quella europea. Ho terminato il mio incontro con i preti di Rovigo invitando a trasformare una disgrazia in una scelta e a ristrutturare la pastorale non ricostruendo più il campanile, e non per mancanza di risorse economiche e umane, ma per scelta, per quella che possiamo chiamare una nuova figura di comunità ecclesiale tra le case della gente.

Questa immagine esprime bene dal mio punto di vista sia la situazione attuale rispetto alla fede, sia l’approccio di Evangelii Gaudium.

Siamo a pochi passi dalla fine del cristianesimo sociologico. Di quel cristianesimo, cioè, nel quale cristiano e cittadino coincidevano e nel quale non si poteva essere altro che cristiani: la fede ereditata, e di conseguenza dovuta, scontata, obbligata. È terminato il tempo del «catecumenato sociologico» (Joseph Colomb). Siamo in un tempo nel quale le persone, immerse in un pluralismo culturale e religioso, scelgono se essere cristiani o meno, perché la cultura attuale non trasmette più la fede, ma la libertà religiosa. La risposta inadeguata a questa situazione è quella della nostalgia, che pastoralmente si traduce nel moltiplicare l’impegno pastorale per riportare le cose riguardanti la fede a come erano prima, quando tutti e tutte si riferivano alla chiesa. Si tratta di una generosità pastorale mal orientata. Se la Chiesa continua a rimanere fissata su ciò che le sta alle spalle, sarà trasformata ben presto in una statua di sale (Gn 19,26).

La direzione giusta è invece quella di una pastorale della proposta, di una comunità che nel suo insieme, in tutte le sue espressioni e dimensioni, si fa testimone del Vangelo dentro e non contro il proprio contesto culturale.

Noi siamo nati come lievito; nel tempo siamo diventati pasta; diventando pasta (cristianesimo sociologico) abbiamo perduto la nostra forza lievitante. Il Signore sta riconducendo la sua Chiesa a vivere come una minoranza. La tentazione ecclesiale può essere quella di ripiegarci in una “minoranza setta”, cioè “a parte” della storia e della cultura, o, peggio, una minoranza “contro”. Come essere minoranza lievito e non minoranza setta o minoranza contro? Questa è la posta in gioco. È su questo punto che si gioca il futuro della fede cristiana. L’appello, di cui il papa si fa autorevole eco, è di divenire una minoranza “per”, a favore della pasta. Ricuperiamo allora lo spirito della lettera a Diogneto, che così si esprimeva: «i cristiani sono, nel mondo, ciò che è l’anima nel corpo»[1] (Lettera a Diogneto, 6).

C’è da rammaricarsi di fronte all’attuale scenario non più cristiano? Per Evangelii Gaudium c’è da gioire, perché quello che ci aspetta è potenzialmente meglio di quello che stiamo perdendo. Usciamo dal cristianesimo dell’abitudine e dell’obbligo, andiamo verso una adesione alla fede segnata da libertà e gratuità. Mi sembra questo un primo elemento decisivo da accogliere da Evangelii Gaudium: esprime fin dal titolo la gioia, una gioia che manifesta la disponibilità ad abitare questa cultura senza più campanili come situazione favorevole per l’annuncio del Vangelo.

Occorre però riconoscere, per una corretta lettura pastorale, che non siamo ancora del tutto in una situazione di fine della cristianità, almeno in una parte dell’Europa. Noi dobbiamo ancora gestire, nel bene e nel male, i riflessi condizionati del cristianesimo sociologico, che in alcuni paesi europei e come strato presente in molte persone porta ancora a riferirsi alla sfera del religioso come elemento di tradizione. Considerare questo come negativo sarebbe un errore di valutazione. È piuttosto un dato ambivalente. Questa ambivalenza tra il permanere di alcune abitudini religiose e la secolarizzazione delle mentalità è, al contempo, risorsa e fatica nella pastorale ecclesiale. Di fronte a tale situazione dobbiamo, da una parte, valorizzare quanto ancora permane di tradizione (ad esempio, non disprezzando la domanda di riti, che «permangono credibili e incidono più a lungo di tutti i nostri discorsi teologici»[2]); d’altra parte eviteremo di lasciarci ingannare dall’effetto polverone (del campanile caduto) o dall’“effetto miraggio”.

Ciò che resta di « cristianità » nelle abitudini sociali deve essere valorizzato per il passaggio da una fede frutto di convenzione ad una fede di convinzione. Fin d’ora lavoriamo per un cristianesimo che verrà. Questo atteggiamento esige coraggio e saggezza pastorale.

2. La svolta missionaria

Evangelii gaudium assume questa prospettiva e invita a una svolta: da una pastorale di conservazione a una pastorale della proposta.

«… è necessario passare « da una pastorale di semplice conservazione a una pastorale decisamente missionaria » (EG 15).

«Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. La riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie, che la pastorale ordinaria in tutte le sue istanze sia più espansiva e aperta, che ponga gli agenti pastorali in costante atteggiamento di “uscita” e favorisca così la risposta positiva di tutti coloro ai quali Gesù offre la sua amicizia. Come diceva Giovanni Paolo II ai Vescovi dell’Oceania, « ogni rinnovamento nella Chiesa deve avere la missione come suo scopo per non cadere preda di una specie d’introversione ecclesiale ». (EG 27).

Si colloca su questo punto la differenza forte tra il Sinodo sulla nuova evangelizzazione e Evangelii gaudium. Il Sinodo aveva dato una risposta spirituale alla sfida: perché l’evangelizzazione sia nuova occorre che diventino “nuovi” gli evangelizzatori. L’invito alla conversione è stato la parola d’ordine (si veda il Messaggio al popolo di Dio). I motivi sono noti: la celebrazione del Sinodo ha coinciso con una grave crisi interna alla Chiesa: pedofilia, lotte di potere in Vaticano, scandalo dello IOR. Ma il Sinodo aveva fatto metà strada. Papa Francesco va oltre e propone l’altra metà: la conversione personale chiede la conversione istituzionale, cioè la riforma.

È la ripresa di quanto affermato nell’Enciclica di Giovanni Paolo II Ut unum sint del 1995: «Nel magistero del Concilio vi è un chiaro nesso tra rinnovamento, conversione e riforma. Esso afferma: “La Chiesa peregrinante è chiamata da Cristo a questa continua riforma di cui essa stessa, in quanto istituzione umana e terrena, ha sempre bisogno…”» (9). Il nesso rinnovamento – conversione – riforma risulta determinante perché la Chiesa sia “sacramento”, cioè segno e strumento. Nel nostro caso, il rinnovamento dell’evangelizzazione (“nuova”) richiede innanzitutto la conversione dei singoli credenti (auto evangelizzazione) e prende corpo come riforma della figura di Chiesa, affinché tutto in essa parli del Vangelo, affinché le parole siano visibili nella forma di vita e il modo di vivere sia esplicitato nelle parole. Non è altro che la conseguenza per la Chiesa dello stesso stile di Dio: «eventi e parole intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, mentre le parole proclamano le opere e illustrano il mistero in esse contenuto» (Dei Verbum, 2).

È questo un punto decisivo e la sfida più importante dell’evangelizzazione ed è anche la sfida di Papa Francesco.

3. La visione di fede e di evangelizzazione

Ma c’è un secondo aspetto di novità notevole nell’approccio di Papa Francesco. Rigurada ciò che motiva la Chiesa al compito dell’annuncio. Delineo quindi l’orizzonte nel quale si colloca Evangelii gaudium.

A)– La condizione fondamentale: Lo Spirito è stato diffuso in tutti i cuori

L’orizzonte corretto per ogni azione di evangelizzazione è la consapevolezza che la Chiesa in senso proprio non dona la fede, ma la testimonianza della fede. È lo Spirito Santo che genera la fede, in quanto è il solo che può aprire la libertà delle persone e renderle disponibili alla grazia della Pasqua. Quindi, se noi possiamo con tranquillità testimoniare la fede è perché siamo consapevoli che lo Spirito è stato effuso in tutti i cuori, e che quindi la “grazia prima” della Pasqua ha già misteriosamente raggiunto tutti e lo Spirito agisce in tutti. Su questa realtà poggia ogni atto di evangelizzazione. Noi non facciamo che rendere possibile quello che già è in atto.

«Cristo, infatti, è morto per tutti e la vocazione ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella divina, e perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire a contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale» (GS 22).

B)– La fede “non necessaria”

Per questo motivo, se noi partiamo dalla consapevolezza che la “grazia prima” (secondo l’espressione di André Fossion) o fede elementare (secondo l’espressione di Christophe Theobald) è diffusa in tutti i cuori, dobbiamo anche concludere che si può essere umani, si può vivere la vita senza un riferimento esplicito al Signore Gesù, in quanto è il Dio stesso di Gesù Cristo a essersi reso “non necessario” (questo è appunto il senso profondo del dono dello Spirito a Pentecoste: Il Risorto sottrae la sua vicinanza fisica perché sia possibile la sua “presenza”, una presenza nella forma della discrezione assoluta, della disponibilità senza necessità). Questa affermazione, per chi ha incontrato il Signore Gesù, non significa affatto che Gesù Cristo non sia necessario, ma che l’adesione esplicita a lui non ne condiziona l’amore, la disponibilità e la salvezza. Fuori di Lui non c’è salvezza, fuori dalla Chiesa sì[3]. Gli uomini e le donne di oggi perseguono la loro felicità spesso fuori dalla mediazione della Chiesa e della fede esplicita nel Signore Gesù. Dentro le loro traversate umane (le stesse incrociate dal secondo annuncio) possono trovare un senso anche senza la fede.

C)– La fede determinante e l’evangelizzazione necessaria

La fede in Cristo sarebbe dunque secondaria? E l’annuncio sarebbe facoltativo? Non necessario? Chi ha incontrato il Signore Gesù è vincolato al suo comando: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15); «Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt 28,19). Tale comando sembra in contrasto con quanto detto sopra sulla fede “non necessaria”. Qual è dunque il senso di questo comando del Risorto?

Paolo VI si esprimeva così:

«Non sarà inutile che ciascun cristiano e ciascun evangelizzatore approfondisca nella preghiera questo pensiero: gli uomini potranno salvarsi anche per altri sentieri, grazie alla misericordia di Dio, benché noi non annunziamo loro il Vangelo; ma potremo noi salvarci se, per negligenza, per paura, per vergogna – ciò che s. Paolo chiamava “arrossire del Vangelo” – o in conseguenza di idee false, trascuriamo di annunziarlo?» (EN 80).

Il senso di questo testo è il seguente: Dio può salvare e salva al di là del nostro annuncio; ma se noi non annunciamo, potremo essere salvi? Non nel senso che non evangelizzando manchiamo a un dovere, ma nel senso che noi, oggetto grazioso della grazia seconda, non l’abbiamo fatta nostra, non ci ha raggiunto. E allora è legittima la domanda sulla nostra salvezza. Se l’incontro con il Signore Gesù ha raggiunto la nostra vita, questo non può essere tenuto per se stessi. Se è tenuto per noi stessi, allora non ci ha raggiunto, e quindi è legittima la domanda sulla nostra salvezza.

«L’entusiasmo nell’evangelizzazione si fonda su questa convinzione. Abbiamo a disposizione un tesoro di vita e di amore che non può ingannare, il messaggio che non può manipolare né illudere. È una risposta che scende nel più profondo dell’essere umano e che può sostenerlo ed elevarlo. È la verità che non passa di moda perché è in grado di penetrare là dove nient’altro può arrivare … non è la stessa cosa aver conosciuto Gesù o non conoscerlo, non è la stessa cosa camminare con Lui o camminare a tentoni, non è la stessa cosa poterlo ascoltare o ignorare la sua Parola, non è lo stessa cosa poterlo contemplare, adorare, riposare in Lui, o non poterlo fare. Non è la stessa cosa cercare di costruire il mondo con il suo Vangelo piuttosto che farlo unicamente con la propria ragione. Sappiamo bene che la vita con Gesù diventa molto più piena e che con Lui è più facile trovare il senso ad ogni cosa. E’ per questo che evangelizziamo» (Evangelii Gaudium, 264-266).

D)– La motivazione: la gioia

La motivazione dell’annuncio è duplice: la gioia di quanto ci è stato dato gratuitamente e la carità, vale a dire il desiderio di donare agli altri quanto di più prezioso abbiamo senza merito nostro:

«perché la nostra gioia sia piena» (1 Gv1,1-4).

Questo è l’orizzonte dell’evangelizzazione secondo Evangelii gaudium. Il testo infatti ècaratterizzata da un’inclusione: inizia con la gioia del Vangelo, termina con lo Spirito Santo: evangelizzatori con Spirito. Inizia dicendo che tutto parte dalla gioia della scoperta di Gesù Cristo, finisce dicendo che l’evangelizzazione è l’azione misteriosa dello Spirito e che l’annuncio da parte della comunità ecclesiale è una “diaconia dello Spirito”, un servizio di mediazione alla sua opera.

Veniamo così sganciati da ogni “necessità” nel campo della fede (sia ricevuta che donata) e ci poniamo nella linea della gratuità. Consideriamo la fede come supplemento di grazia, paradossalmente “non necessaria ma determinante” (André Fossion). Questa esperienza di un gratis determinante (“non è la stessa cosa…”) è fonte della nostra gioia e della necessità intrinseca di comunicarla.

4. Le condizioni

A)– C’è un tempo per…

Se guardiamo alle condizioni perché l’annuncio raggiunga gli uomini e le donne di oggi dobbiamo tornare a quanto dice la parabola del seminatore (Mc 4). La libertà è condizionata da molti aspetti (l’amore avuto o non avuto, l’educazione, il carattere, le situazioni concrete…) e i ritmi sono per ognuno diversi. Il tempo opportuno non può essere programmato. Per questo la parabola del seminatore sceglie la logica dello spreco, distribuendo con ampi gesti il seme della parola su ogni terreno, senza distinzioni (lettura cristologica della parabola del seminatore, Mc 4, 3-9).

B)– Il tempo opportuno: le crepe

Sappiamo però con sufficiente certezza (partendo ciascuno dalla nostra esperienza) che il tempo opportuno sono normalmente le “crepe” che si aprono dentro le esperienze umane che come adulti e adulte viviamo nell’arco della nostra vita. Non è di solito nei periodi di stabilità (culturale, affettiva, economica, fisica…) che l’annuncio può farsi sentire in noi, ma quando gli equilibri raggiunti vengono sconvolti. A queste rotture noi diamo il nome di “crisi”, intese come l’intervenire di una discontinuità nella propria vita, una discontinuità per eccesso o per difetto. Per eccesso: l’apparire di un di più gratis che sorprende (come un amore che si affaccia improvviso, un figlio che nasce, una causa che appassiona, una cosa bella che sorprende). Per difetto: l’affacciarsi di una minaccia di morte (una perdita, una situazione di solitudine, una ferita, un fallimento, una malattia, un lutto). Le sorprese sono delle possibili aperture, le ferite possono diventare feritoie. Le “crisi” intese come interruzione dell’ordinario sono possibili “soglie di accesso alla fede”[4]. Dentro queste esperienze ci viene incontro il mistero umano nelle sue due facce: quello della vita e quello della morte. In ognuno di questi passaggi è in gioco un’esperienza pasquale: il desiderio di vita e la minaccia della morte: vale per un innamoramento, la nascita di un figlio, una crisi affettiva, una malattia, ecc[5].

Si colloca in questi passaggi il tempo favorevole per l’annuncio. Esso presuppone dei testimoni e una comunità che in queste pasque umane proclamino la pasqua del Signore: «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato. Ora, come potranno invocarlo senza aver prima creduto in lui? E come potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi?» (Rom 10,13-14).

5. Il contenuto

È utile a questo punto introdurre due nozioni che ci aiutino a comprendere meglio in cosa consiste l’evangelizzazione secondo Evangelii Gaudium: sono le espressioni di primo e secondo annuncio.

A)– Il primo annuncio

Papa Francesco si esprime così:
«Abbiamo riscoperto che anche nella catechesi ha un ruolo fondamentale il primo annuncio o “kerygma”, che deve occupare il centro dell’attività evangelizzatrice e di ogni intento di rinnovamento ecclesiale… Sulla bocca del catechista torna sempre a risuonare il primo annuncio: “Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti, e adesso è vivo al tuo fianco ogni giorno, per illuminarti, per rafforzarti, per liberarti”». (Evangelii gaudium, 164).

Attraverso una semplicità disarmante, Evangelii Gaudium riconduce all’essenziale: in un contesto missionario occorre tornare all’essenziale, al fondamento della fede, che non è la dottrina, ma un evento testimoniato nel kerigma.

B)– Il secondo annuncio

Papa Francesco prosegue così:
«Quando diciamo che questo annuncio è “il primo”, ciò non significa che sta all’inizio e dopo si dimentica o si sostituisce con altri contenuti che lo superano. È il primo in senso qualitativo, perché è l’annuncio principale, quello che si deve sempre tornare ad ascoltare in modi diversi e che si deve sempre tornare ad annunciare durante la catechesi in una forma o nell’altra, in tutte le sue tappe e i suoi momenti….

Tutta la formazione cristiana è prima di tutto l’approfondimento del kerygma che va facendosi carne sempre più e sempre meglio, che mai smette di illuminare l’impegno catechistico, e che permette di comprendere adeguatamente il significato di qualunque tema che si sviluppa nella catechesi» (Evangelii gaudium, 164-165).

Da questi testi possiamo trarre tre connotazioni:

a)– Il primo annuncio è tale non solo in senso cronologico ma prima di tutto in senso genetico. Evangelii gaudium parla di primo qualitativo, i Vescovi italiani nella nota sul primo annuncio parlano di primo in senso genetico o fondativo: « La “priorità” del primo annuncio – scrivono – va intesa soprattutto in senso genetico o fondativo: alla base di tutto l’edificio della fede sta il «fondamento… che è Gesù Cristo» (1Cor 3,11) (CEI, Questa è la nostra fede, 6).

b)– Il secondo annuncio è il primo che “si fa carne sempre più e sempre meglio” nelle differenti traversate e situazioni della vita umana. Come c’è un primo sì ma quello decisivo è speso il secondo, così ci sono primi annunci ma quelli decisivi sono spesso i secondi, che quindi per molti sono i primi effettivi. Possiamo allora parlare di “secondo primo annuncio”.

c)– Per questi motivi diventa chiaro che il primo annuncio e il secondo primo annuncio mirano a una totalità intensiva, che è di tipo relazionale: l’affidamento della propria vita al Signore Salvatore. Annunciano la bella notizia della pasqua del Signore Gesù dentro l’esistenza umana.

« Una pastorale in chiave missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine che si tenta di imporre a forza di insistere. Quando si assume un obiettivo pastorale e uno stile missionario, che realmente arrivi a tutti senza eccezioni né esclusioni, l’annuncio si concentra sull’essenziale, su ciò che è più bello, più grande, più attraente e allo stesso tempo più necessario. La proposta si semplifica, senza perdere per questo profondità e verità, e così diventa più convincente e radiosa» (Evangelii gaudium 35).

Di conseguenza vengono riviste tutte le priorità dell’evangelizzazione: l’annuncio dell’amore di Dio precede la richiesta morale; la gioia del dono precede l’impegno della risposta; l’ascolto e la prossimità precedono la parola e la proposta.

«La centralità del kerygma richiede alcune caratteristiche dell’annuncio che oggi sono necessarie in ogni luogo: che esprima l’amore salvifico di Dio previo all’obbligazione morale e religiosa, che non imponga la verità e che faccia appello alla libertà, che possieda qualche nota di gioia, stimolo, vitalità, ed un’armoniosa completezza che non riduca la predicazione a poche dottrine a volte più filosofiche che evangeliche. Questo esige dall’evangelizzatore alcune disposizioni che aiutano ad accogliere meglio l’annuncio: vicinanza, apertura al dialogo, pazienza, accoglienza cordiale che non condanna» (Evangelii gaudium 165).

C)– “Soccorso simbolico” e annuncio di salvezza

Ma di fatto, quale contenuto hanno il primo annuncio e il secondo primo annuncio? Che apporto danno alla vita delle persone?

Daniele Loro (docente di pedagogia degli adulti all’Università di Verona) con molta pertinenza definisce l’apporto dell’annuncio cristiano come “proposta interpretativa”, come offerta di significato religioso nei passaggi della vita.

Egli afferma che la condizione per vivere una transizione come opportunità di crescita e come secondo annuncio è che la persona acceda ad una lettura simbolica di quello che vive. Non basta vivere delle transizioni, bisogna poterne interpretare il senso, afferma Loro. Potremmo allora dire che l’apporto del secondo primo annuncio è un “soccorso simbolico”.

Alla luce delle Scritture noi possiamo dire che il primo annuncio è certamente un soccorso interpretativo. I racconti postpasquali lo certificano. Si veda ad es. il “soccorso simbolico” del risorto ai due di Emmaus, soccorso che avviene aiutandoli ad interpretare i fatti recenti di Gerusalemme aprendo loro le Scritture. Ma questa prospettiva è solo un aspetto del dono del kerigma. C’è un di più determinante: è l’annuncio che dentro le morti umane il Signore morto e Risorto si presenta come il Salvatore, colui che libera dalla morte. Il kerigma non aiuta solo a trovare un senso nei passaggi della vita, annuncia una Presenza che tira fuori e salva. Afferma che nel Crocifisso Risorto la morte non ha più l’ultima parola. Questo è il di più del kerigma della fede rispetto ad una prospettiva di accompagnamento pedagogico delle persone, un di più non in contrasto con tale accompagnamento umano, ma in un rapporto di continuità e di eccedenza con esso. La differenza è che Gesù Cristo non è solo il compagno di viaggio dell’uomo (colui che si fa vicino e spiega), è soprattutto il suo Salvatore (colui che assume e salva).

È chiaro che questo è anche il salto della fede: l’affidamento o meno di se stessi a tale annuncio.

5. Lo stile missionario

Possiamo ora accennare, ma solo come promemoria, alcuni tratti conseguenti dello stile dell’annuncio nella prospettiva di Evangelii Gaudium.

È il contenuto stesso del primo annuncio e l’orizzonte sopra indicato che dettano lo stile della missione, ciò che André Fossion definisce “evangelizzare in maniera evangelica”. Questo stile può essere indicato con tante sfaccettature. Ne sottolineo tre.

A)– La sospensione del giudizio: speranza

Il primo tratto dello stile dell’evangelizzazione è la sospensione del giudizio. Ogni persona è adatta al vangelo a partire dalla situazione nella quale si trova. È amata da Dio a prescindere. L’annuncio parte dalla partenza e non dal traguardo. E punta sulla speranza intesa come scommessa affidabile.

B)– Fuori da ogni contratto: gratuità

L’annuncio non chiede condizioni preliminari. È unilaterale. È donato in atteggiamento di assoluta gratuità. A monte, l’annuncio chiede di uscire da ogni prospettiva di cristianità, nella quale si esigevano alcune condizioni morali per essere cristiani. A valle non calcola risultati, non fa censimenti. Lascia che la parola donata porti il suo frutto nella misura della possibilità della libertà umana e dell’azione dello Spirito Santo. Per questi motivi il vangelo rende l’evangelizzatore totalmente libero.

C)– La testimonianza: santità (corrispondenza)

Il terzo tratto dello stile dell’evangelizzazione che mi piace ricordare è sicuramente la santità (personale, ecclesiale) intesa come corrispondenza tra forma e contenuto (Christophe Theobald). La Chiesa e ogni singolo testimone sono nella loro vita la visibilità (e dunque la prova della verità) del contenuto che annunciano. Tale esigenza è insita alla fede, perché il Gesù Cristo annunciato è l’icona stessa della santità di Dio, in quanto nella sua vita c’è stata perfetta autenticità, perfetta corrispondenza tra contenuto e forma del suo annuncio[6].

Riportata alla Chiesa (e a ogni singolo credente) tale santità resta una “corrispondenza salvata”, quindi mai compiuta. In questo senso possiamo dire che la debolezza di chi annuncia è a sua volta testimonianza della gratuità dell’annuncio.

Questa “corrispondenza salvata” a mio parere è un punto decisivo di Evangelii Gaudium e segna la differenza dell’approccio di Papa Francesco al tema dell’evangelizzazione rispetto al Sinodo sulla nuova evangelizzazione. Io posso testimoniare che Evangelii Gaudium è andata molto oltre il Sinodo sulla nuova evangelizzazione, a cui ho partecipato come esperto, e ha spazzato via ogni forma di equilibrismo ecclesiastico e di compromesso, cosa che spesso avviene nella composizione dei documenti ecclesiali. Il Sinodo aveva detto che l’evangelizzazione richiede la conversione personale. Evangelii Gaudium dice che la conversione esige la riforma, perché le parole della fede personale siano confermate dalle parole della fede inscritte nelle strutture ecclesiali. Papa Francesco parla di consuetudini, stili, orari, linguaggio e strutture. Si tratta di una ripresa decisa di quanto affermava Evangelii Nuntiandi: la Chiesa evangelizza non solo con le parole, ma con la forma che essa si dà dentro la storia. La sua organizzazione esprime la sua missione. Evangelii Gaudium appare molto più che una esortazione apostolica postsinodale (termine che è stato volutamente omesso nel documento). È piuttosto una dichiarazione della forma che la Chiesa è chiamata ad assumere in tutte le sue dimensioni e quindi di una vera ri-forma. La missione diventa così la chiave di ripensamento della figura del cristianesimo, della Chiesa, della sua pastorale.

D)– Implicito e esplicito

Infine vale la pena ricordare che un tratto decisivo dell’annuncio sta nell’assumere volentieri il rapporto tra implicito e esplicito, vale a dire tra le parole esplicite quando è possibile dirle e quelle implicite. “Annunciate sempre il Vangelo, se necessario anche con le parole” (Papa Francesco ai catechisti, settembre 2013, riprendendo un’espressione di san Francesco). Le parole sono importanti, lo sappiamo per esperienza. Quando è il momento non devono mancare, perché hanno una forza sacramentale. Ma spesso la parola più profonda e l’unica possibile è quella di una presenza che custodisce per l’altro la speranza. L’annuncio implicito che si esprime nella prossimità ci fa custodi di speranza per coloro che in quel momento, in quel passaggio di vita non sono in grado di sperare. Questa custodia è il kerigma.

È per questo che la carità è la parola ultima dell’evangelizzazione, non un passaggio per arrivare ad essa. La carità è la forma che l’evangelizzazione prende quando essa parte dalle periferie e non dal centro.

Conclusione

Evangelii Gaudium segna una forte discontinuità con la concezione di evangelizzazione diffusa nella Chiesa, soprattutto occidentale. Tale discontinuità è basata prima di tutto su uno sguardo di speranza sull’attuale cultura, cioè sulle donne e sugli uomini di oggi. Eravamo ormai assuefatti dai lunghi elenchi degli “ismi”, stanchi delle continue denunce contro la cultura attuale da parte di una Chiesa che si riteneva indenne dalla storia. Lo sguardo di Francesco non è ingenuo, ma punta su quanto lo Spirito può fare nei cuori, a partire dai nostri cuori, dalle persone che sono nella chiesa e che in essa svolgono un servizio di diaconia o di profezia. Dentro una situazione ecclesiale depressa egli parte dall’annuncio della gioia, la gioia di avere scoperto il tesoro e la perla rara, e di non poterli tenere per se stessi. È a questa esigenza intrinseca che egli dà il nome di “missione”, chiedendo che ogni aspetto renda visibile e possibile per tutti di essere raggiunti dall’amore di Dio. A partire da questo orizzonte è in grado di riportare ogni espressione ecclesiale al suo giusto posto, distinguendo l’essenziale dal consequenziale, ristabilendo la gerarchia delle verità della fede.

Evangelii Gaudium ha una falcata di vantaggio rispetto alla concezione di evangelizzazione e di pastorale diffusa nelle nostre chiese. Papa Francesco sta provocando la Chiesa con un testo magisteriale carico di profezia. Era da tempo che non avevamo insieme queste due dimensioni: quella magisteriale e quella profetica. Ora, che la profezia diventi un atto di magistero è veramente una novità. Evangelii Gaudium ci obbliga ad allungare il passo.

 

 

[1] Lettera a Diogneto, 6.

[2] S. Tremblay, Le dialogue pastoral, Bruxelles, Lumen Vitae – Montréal, Novalis 2005, p. 40.

[3] «Dio ha legato la salvezza al sacramento del battesimo, tuttavia egli non è legato ai suoi sacramenti» (Catechismo chiesa cattolica, n. 1257).

[4] VESCOVI DELLE DIOCESI LOMBARDE, La sfida della fede: il primo annuncio, EDB 2009, 11-26.

[5] Sto personalmente coordinando un progetto di raccolta e interpretazioni di pratiche di evangelizzazione detto “progetto secondo annuncio” (www.secondoannuncio.it) . Abbiamo selezionato cinque esperienze “soglia”:
* generare e lasciar partire (l’esperienza della genitorialità nelle sue varie fasi)
* errare (nel significato di esplorare e di sbagliare)
* legarsi, lasciarsi, essere lasciati (l’esperienza degli affetti)
* appassionarsi e compatire (il lavoro e la festa, la politica, il volontariato…)
* sperimentare la fragilità e vivere il proprio morire.

[6] Theobald parla di tre aspetti della credibilità assoluta di Gesù e del suo messaggio. Il primo è «l’ “autorità” (Mc 1,21.27, ecc. e parall.) di colui che brilla con la sua semplice presenza, perché in lui pensieri, parole ed azioni sono assolutamente coerenti in una sorta di semplicità di coscienza immediatamente accessibile agli altri: Gesù dice quello che pensa e fa quello che dice, niente di più, niente di meno»; il secondo è che « egli è anche in grado di imparare da un altro ciò che egli stesso è e ciò che “può” fare (cfr. ad esempio Mc 1,40ss; 5,30; 6,34; 7, 29; ecc., e parall.)»; il terzo indice di credibilità è che «Gesù non si attribuisce mai la capacità di convincere dall’esterno i suoi interlocutori della fondatezza della notizia di bontà. Al contrario, egli risveglia ciò che già vive nel loro cuore o nella loro coscienza, la “fede”, della quale egli così riconosce che ha la sua origine “altrove”», cioè dal Padre («Figlia, la tua fede ti ha salvata» (Mc 5,34; Lc 8,43; Mt 9,22). Theobald chiama tutto questo “santità”, corrispondenza perfetta tra contenuto e forma. Si veda: Theobald C., L’annuncio del Vangelo in un contesto secolarizzato, relazione tenuta a Verona, 12 marzo 2014.

Ci servono missionari

MozambiqueDurante questo periodo dove ho avuto la fortuna di poter servire in seno all’organizzazione internazionale degli LMC, ho avuto modo di incontrare e interagire con numerosi missionari in tutto il mondo.

Abbiamo letto molte lettere di missionari provenienti da ogni luogo. Molti comunicano la gioia di una vita al servizio degli altri e come nel loro impegno si sono resi conto di vivere una vita piena e sono ora più felici. Molti ci parlano dei loro sogni e delle difficoltà incontrate nel loro lavoro, delle periferie delle grandi città, delle difficoltà nell’insegnare in scuole con poche risorse ma a studenti straordinari. Alla ricerca di una buona formazione professionale per gli studenti e le famiglie delle comunità in cui vivono, nella cura dei malati negli ospedali e nei centri sanitari dove si trovano.

Essi condividono anche la loro esperienza di fede nelle comunità dove vivono; la responsabilità di ogni membro della comunità nel portare la Parola di Dio, in luoghi remoti a piedi, in bici, con la jeep o in canoa.

Si trova inoltre in queste lettere una miriade di esperienze, di gioia e di difficoltà condivise con la gente.

Ma ho anche molte richieste di personale. I missionari sono necessari! In molti luoghi la chiamata si ripete. Ci sono persone disponibili a venire nella nostra comunità?

I progetti di cooperazione sono importanti, le scuole, gli ospedali, le cooperative, la denuncia delle ingiustizie… tutto è importante e servono persone per continuare ad incoraggiare e ad essere ponti. Qualcuno però mi ha ricordato che “i mattoni non abbracciano.” Ed è vero, se c’è qualcosa che di solito sento dalla gente semplice è un ringraziamento nei confronti della società che offre missionari per essere con loro, per sostenerli nei momenti difficili, per celebrare le gioie insieme… per ricevere questro stretto abbraccio. Rendere presente l’amore di Dio attraverso le loro mani per sostenerli ed accompagnarli nel loro cammino.

Quindi, in questa celebrazione della solennità di Pentecoste, lasciamo che lo Spirito ci riempia, ci faccia uscire dai nostri ambienti chiusi e ci porti al centro delle piazze, sulle strade.

Se senti dentro di Te una chiamata alla missione, Ti invito a trovare il gruppo di riferimento più vicino nel luogo in cui vivi. È anche possibile visitare il nostro sito web, dove troverai i contatti di 20 paesi in cui siamo in Europa, Africa e America. Cerca altre persone come te e prenditi del tempo per discernere la Tua vocazione.

Non aspettare, ora è tempo! Non ritardare la risposta e inizia la Tua formazione che può portarTi a scegliere di vivere al servizio della missione.

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Comboni dice che “la missione è un progetto di amore per il quale non dobbiamo risparmiare alcuno sforzo“.

Sta a Te decidere…

 

La visione ecclesiale che emerge dal “Piano” di Comboni

Comboni

“Comboni – credendo nell’unità del genere umano e nel fatto che il Vangelo debba, perciò, essere annunciato a tutti – si pone in un atteggiamento di demistificazione profetica di quella forma culturale razzista…” (Prof. Fulvio De Giorgi, Consiglio di Direzione di Archivio Comboniano).

 

Collocazioni di contesto
Una riflessione attuale sul “Piano” di Comboni che non sia puramente storica, ma sia di tipo spirituale, pastorale, missionologico (che cioè assuma un punto di vista di fede, di appartenenza alla Chiesa cattolica e di ‘figliolanza’ comboniana) deve, comunque, partire da alcune collocazioni di contesto e non porsi su un piano di lettura diretta e immediata (cioè senza mediazioni), come se si trattasse di un testo scritto oggi. L’attualizzazione deve sfuggire ai rischi di un certo ingenuo fondamentalismo attualizzante: che sarebbe, nel migliore dei casi, una banalizzazione, ma correrebbe anche rischi di deformazione grave. Qualsiasi testo del tempo (non solo di Comboni) non può essere letto senza filtri di contesto: altrimenti chi, in quel momento storico, era – per esempio – antirazzista, rischierebbe perfino di apparire, oggi, razzista.

Non si tratta soltanto di tradurre un linguaggio ottocentesco in linguaggio corrente (con un’operazione che non è unicamente di semantica storica): anche se già solo questo semplice aspetto segnala un più vasto problema, quello cioè delle forme di continuità/discontinuità culturale (e spirituale) tra noi e i nostri Padri e le nostre Madri del passato, tra la nostra visione e la loro visione.

Comboni si collocava all’interno della Chiesa cattolica: ma anche noi oggi. E però la Chiesa cattolica è un organismo vivo che cresce: è perciò ‘cresciuta’ rispetto all’Ottocento. In questa crescita è compresa anche l’autoconsapevolezza: la stessa visione ecclesiale. Ecco allora che non possiamo ritrovarci ‘perfettamente’ nei panni ottocenteschi: altrimenti vorrebbe dire che tutto è fermo, che il cristianesimo non è vivo ma morto, che il nostro compito non sarebbe storico ma archeologico…

Attualità e profezia
Insomma è ben evidente che il paradigma ecclesiologico di Comboni, la sua visione ecclesiale, era quello del Vaticano I e non del Vaticano II e che la sua cultura, al cui interno si definivano tanti aspetti della medesima visione ecclesiale, era quella lombardo-veneta del XIX secolo e non quella del XXI. Ma, allora, cosa significa questa osservazione (ovvia) sul piano della nostra lettura? Quali insomma i tratti di continuità e di attualità e di profezia e quali quelli di discontinuità, nei quali c’è stato un superamento (cioè una crescita)?

Più gli elementi culturali di Comboni si avvicinano al Vangelo più c’è continuità: la Chiesa annuncia il Vangelo di Cristo come una proposta di alleanza liberatrice rivolta da Dio a tutto il genere umano (il che, e non era ovvio allora come non è ovvio oggi, implica l’unità del genere umano: c’è un solo genere umano e tutti gli uomini e tutte le donne sono figli e figlie di Dio, uguali in dignità personale). Così se, alla metà del XIX secolo, si formava, nel cuore della Europa, una forma culturale nuova che era il razzismo, Comboni era estraneo e ostile rispetto a questi processi culturali. Il razzismo implica due punti essenziali, come forma culturale: 1. Esistono le razze umane (in genere ridotte a tre); 2. Ci sono razze inferiori e razze superiori. Comboni – credendo nell’unità del genere umano e nel fatto che il Vangelo debba, perciò, essere annunciato a tutti – si pone in un atteggiamento di demistificazione profetica di quella forma culturale razzista. Su questo, pertanto, non solo c’è continuità, ma c’è una permanente attualità di tale approccio, poiché in forma esplicita o più spesso dissimulata permangono, ancora oggi, visioni razzistiche, che possono insinuarsi persino nella visione ecclesiale.

Discontinuità come crescita
Elementi culturali di discontinuità sono quelli, invece, più legati alle specificità di mentalità e di pensiero del tempo: un’ignoranza ‘geografica’, etnografica, culturale degli Europei rispetto ancora a tante parti del pianeta e a larghi strati di umanità; una presenza – pertanto – di fantasie mitiche e di luoghi comuni tradizionali (anche religiosi: come la cosiddetta ‘maledizione di Cam’) che colmavano questi vuoti cognitivi e che oggi possono apparire come ‘pregiudizi razzistici’ (pre-giudizi, sì, come tutti noi ne abbiamo; razzistici no, perché non partecipavano – come ho già detto – agli aspetti specifici di quella forma culturale).

Capire questa differenza è, sul piano metodologico, essenziale per inquadrare la riflessione sul “Piano” di Comboni, sulla sua visione ecclesiale e sulla sua attualità profetica.

Unità, utilità e semplicità
Se infatti partiamo da un’ottica razzista, allora riteniamo la civiltà europea come superiore e perciò destinata a dominare sulle altre: condannandole ad uno sviluppo ‘separato’ (apartheid) o ‘civilizzandone’ dall’alto e dall’esterno alcuni aspetti, per meglio dominarle e sfruttarle, ai fini dello sviluppo maggiore della Civiltà ritenuta superiore. Comboni nel “Piano” assumeva invece un opposto paradigma: quello dell’unità del genere umano. In questo quadro, è possibile che alcuni popoli (storicamente sono stati gli europei, ma potevano essere altri) arrivino prima, per casualità storiche, a conquiste da considerarsi positive (per esempio la scrittura, l’alfabetizzazione, la medicina, la scienza e la tecnica): queste conquiste allora vanno fatte conoscere a tutti, vanno condivise, messe a disposizione per ‘rigenerare’ tutta l’umanità, per migliorarne cioè l’esistenza reale, diminuendo tutte le forme di sofferenza, di povertà, di ingiustizia, ai fini insomma della utilità comune. Ma questa ‘civilizzazione’ (cioè ‘condivisione di conquiste di civiltà’) non va imposta dall’alto e dall’esterno: se così fosse, anche con le migliori intenzioni, si introdurrebbe un’asimmetria e perciò un possibile squilibrio e dominio. La civilizzazione/condivisione va proposta e realizzata dal basso e dall’interno, con un protagonismo in prima persona dei beneficiati, senza furbizie o mediazioni complicate, ma nella semplicità: solo così è ri-generatrice (cioè intrinsecamente emancipatrice). Gli esiti saranno, allora, sempre generanti e generatori, cioè creativi e innovativi, autoctoni e originali, non estrinsecamente simili (cioè as-similati) a quelli europei, ma neppure ad essi ostili: perché frutto di un incontro fraterno, in cui si ricerca il bene di tutti, e non di un incontro squilibrato (cioè, in realtà, di uno scontro di culture), in cui si cerca il bene solo di una parte (quella più forte).

I presupposti, dunque, della visione ecclesiale di Comboni nel “Piano” si possono riassumere in queste sue parole-simbolo, ancora attualissime: unità, utilità, semplicità.

L’approccio del Piano
Tale approccio del “Piano” è in effetti tanto più attuale oggi, in un mondo globalizzato e interdipen­dente (molto più di quanto non fosse nel XIX secolo), perché indica l’unica via possibile per uno sviluppo unitario ma non uniforme del genere umano, su un piano di nonviolenza e di condivisione sempre rispettosa dell’altro. L’approccio del “Piano” demistifica due prospettive che costituiscono, oggi, i due rischi maggiori di disumanizzazione: da una parte dinamiche di sviluppo diseguale, con logiche (come quelle del neoliberalismo) che tendono ad aumentare la forbice della ricchezza, con chiusure comunitariste e xenofobe, con il rifiuto della uguaglianza in diritti e in dignità personale; dall’altra un’occidentalizzazione culturale feroce, come massiccio diserbamento di ogni cultura locale, come omologazione universale, come mcdonaldizzazione del mondo.

Questo approccio del “Piano”, che appare in sintonia profetica con l’insegnamento sociale della Chiesa (e si pensi, solo, agli attuali indirizzi di papa Francesco), pur essendo stato formulato in un periodo in cui questa stessa espressione di “insegnamento sociale della Chiesa” non esisteva ancora, era, per Comboni, una conseguenza di una visione ecclesiale che si doveva radicare nel Vangelo di liberazione di Gesù di Nazareth. Al Vangelo va dunque, ancor oggi, sempre riportato, per meglio comprenderlo e attualizzarlo in fedeltà al carisma: è questo un essenziale criterio ermeneutico nella lettura odierna del “Piano”.

Di conseguenza, alcuni tratti essenziali della visione ecclesiologica del “Piano” (che, all’epoca, non erano per nulla né maggioritari né scontati, anche se potevano ricollegarsi ad una tradizione significativa di Propaganda Fide) appaiono profetici e, ancor oggi, portatori di rinnovamento evangelico: l’Implantatio Ecclesiae come fondazione di vere Chiese locali, con un clero indigeno; la parità di genere, in ogni ambito significativo, specialmente spirituale e di vita cristiana; l’importanza – ad intra e ad extra – del laicato cattolico.

Un discorso ampio, fecondo e ricco di possibili nuovi sviluppi – ma che mi limiterò, in questa sede, solo ad accennare – è infine quello dell’impianto pedagogico del “Piano” che, con originalità, combina elementi diversi: la portata emancipatrice dell’ istruzione per tutti; l’educazione come carità intellettuale; la pedagogia degli oppressi.

Visione ecclesiale armonicamente unitaria
Proprio tale impianto pedagogico consente una visione ecclesiale armonicamente unitaria – perché unitariamente fondata sulla “istituzione” (che significa formazione della coscienza) – di evangelizzazione e promozione umana: “L’istituzione che dovrà darsi a tutti gl’individui d’ambo i sessi appartenenti agli Istituti che circonderebbero l’Africa, sarà d’infonder loro nell’animo e radicarvi lo spirito di Gesù Cristo, l’integrità dei costumi, la fermezza della Fede, le massime della morale cristiana, la cognizione del catechismo cattolico, e i primi rudimenti dello scibile umano di prima necessità” (S 826).
Prof. Fulvio De Giorgi
(Consiglio di Direzione di Archivio Comboniano)