Laici Missionari Comboniani

Notizie da Chiapas

IsaCari amici! Buongiorno a tutti Voi! Vi mando un saluto e Vi abbraccio con tanta gioia nel cuore da questo popolo scelto da Dio. Auguro a ciascuno di voi, amici e fratelli in Cristo e in San Daniele Comboni, il benessere fisico e spirituale e di godere appieno la vita che ci dona il Padre ogni giorno.

Dopo un periodo di formazione in comunità come LMC, sono ora in missione a Chiapas. Qui sto molto bene e lavoro presso l’Ospedale San Carlos. Vivendo una nuova esperienza missionaria e dando inizio a questa grande missione affidatami da Cristo in mezzo a questa popolazione locale. La parrocchia ha 80 comunità, ma ne stiamo seguendo oltre 100. La gente è disposta a camminare fino a 15 ore al giorno per raggiungere il nostro ospedale San Carlos perché non vuole farsi ricoverare in altri ospedali e centri sanitari dove sostiene di non essere compresa. Sono sei i principali dialetti, lo Tzeltal, il Tojolabal, lo Tzotzil, il Ladino, lo chol, ma i più parlati sono lo Tzeltal e lo Tzotzil.

E’ un grande lavoro missionario e un grande lavoro umanitario che viene svolto da oltre 30 anni sotto la direzione della congregazione delle suore della carità di San Vincenzo di Padova. Esse gestiscono una scuola per infermieri nello stesso ospedale dove la popolazione locale riceve formazione per diventare infermiere e in seguito trovare occupazione in ospedale e curare la propria gente. Sono loro che ci fanno da traduttori. Qui i pazienti si sentono come a casa e, nonostante si debbano pagare il costo per il ricovero, preferiscono rimanere in questo ospedale. Con ciò si compie il piano di San Daniele Comboni e la profezia di “Salvare le popolazioni indigene con le popolazioni indigene“. Vi ricordo e prego per ciascuno di voi. Stiamo uniti con il cuore e con spirito missionario; Vi voglio bene e Vi auguro il meglio nella vostra vita missionaria. Saluti e un grande abbraccio a tutti!

Isa La vostra piccola amica e sorella: ISA.  😉

La mano tesa: potere di Dio

Commentario a Mc 1, 40-45: Domenica, 15 febbraio 2015

Leggiamo l’ultima parte del Capitolo primo di Marco, che abbiamo letto dalla terza a questa sesta domenica del tempo ordinario. Meditando questa lettura, che ci parla della esperienza di un lebbroso guarito da Gesù, dopo il suo tempo di preghiera in solitudine, mi fermo a quattro riflessioni:

Riconoscere la propria debolezza e trasformala in supplica
La prima cosa che mi chiama l’attenzione è che il lebbroso –con una malattia considerata allora grave e vergognosa- non nasconde la sua realtà, non dice come l’ubriaco: “io non ho bevuto”; al contrario, si riconosce malato e bisognoso di aiuto; non racchiude se stesso nella solitudine e la disperazione, ma esce del suo isolamento e fa un atto di fiducia in se stesso, nel prossimo, in Gesù.
Lo sappiamo: la prima cosa da fare per guarire è accettare che uno è malato, non auto-ingannarsi mosso da un falso orgoglio. La seconda è riconoscere che uno da solo non riesce a uscire dalla malattia, da una adizione che mi schiavizza, da una situazione di conflitto sterile… Nel nostro tempo, si parala molto di auto-stima e sono tantissimi i libri di auto-aiuto; anche un famoso e rispettato teologo ha scritto un libro di spiritualità col titolo “Bere dal proprio pozzo”. E hanno ragione: ognuno di noi è un figlio/figlia di Dio, ha una dignità inalienabile e i propri doni a risorse…
Ma la mia esperienza mi dice che l’auto-stima e l’auto-aiuto non bastano. In certi momenti, bisogna saper chiedere aiuto; andare da un’altro/a, che è in grado di prestarci il necessario aiuto materiale, una buona parola, una spinta morale… In questa esperienza si trova anche la preghiera di supplica, che soltanto y poveri e umili capiscono veramente. I ricchi e orgogliosi non chiedono, loro comandano. Ma guai di coloro che sempre si considerano ricchi! Sicuramente mentono. La preghiera del lebbroso, invece, è caratteristica della persona umile: “Signore, si vuoi, puoi guarirmi”.

Imagen%20101[1]La mano stesa, potere di Dio
Davanti alla supplica sincera del lebbroso –fatta con il cuore e con la vita, più che con le parole– Gesù stende la mano e lo tocca. “Stendere la mano” su situazioni e persone, è un gesto che nella Bibbia ha molto a ché vedere con il potere salvatore di Dio. Lo ha fatto Mosè all’ora di traversare il Mare Rosso; lo facevano i profeti per passare il suo potere spirituale ai successori, lo facevano gli apostoli. Ma noi sappiamo che il vero potere di Dio è il suo amore. In effetti, come ha detto papa Benedetto XVI, “solo il amore redime”. L’amore fatto carezza, l’amore fatto gesto d’incoraggiamento, l’amore fatto benda per le ferite, l’amore fatto parola limpida e veritiera, l’amore fatto comprensione e solidarietà in mille forme diverse.
In Gesù, questo amore di Dio si è fatto persona concreta, carezza, sguardo che capisce e anima, mano che tocca a guarisce. Anche la Chiesa – comunità di discepoli missionari, estensione di Gesù Cristo nel oggi della storia– si fa: mano tesa che si unisce a la parola per dire ai umiliati: coraggio, io voglio, guarisci. Certo, la malattia fa parte di tutta esperienza umana, non sarà mai dal tutto eliminata, ma la parte più difficile della malattia è il sentirsi diminuiti, indifesi, un “nessuno”… In quel momento, la mano di Gesù e della Chiesa si stende per dirci: Non avere paura, tu sei prezioso, avanti.

Ritornare alla comunità
Gesù comanda al lebbroso guarito di presentarsi ai responsabili della comunità e realizzare i riti necessari per la sua re-integrazione alla stessa. Si tratta di riti che, anche se discutibili in se stessi, tengono unita la comunità; sono come i vimini di un canestro: ognuno da solo è poca cosa, ma tutti insieme, adeguatamente organizzati, costituiscono il canestro, bello e utile… Così succede con i riti di una comunità umana e cristiana: in se stessi, isolati, sono discutibili; ma nel suo insieme aiutano a mantenere viva la comunità e fortificano la vita di tutti.
Ricordo che, nei miei tempi di missionario in Ghana, ho dovuto trattare il caso di una donna accusata di stregoneria. Dopo una serie di dialoghi e di riti con la comunità locale, l’ho accompagnata a casa e l’ ho capito il problema: per certe ragioni, che non è il caso di menzionare adesso, quella signora era diventata una “lebbrosa”, isolata dalla comunità. La soluzione per il suo problema includeva la sua re-integrazione alla vita della comunità: lavori, riti, feste, problemi, gioie… Molti di noi abbiamo bisogno con una certa frequenza di una spinta spirituale per ritornare pienamente alla comunione: in famiglia, in comunità, nei gruppi, in parrocchia… E per fare questo abbiamo bisogno della mano e della parola di Gesù.

Il segreto messianico
Gesù dice al lebbroso di fare silenzio su quello che è avvenuto. Si tratta del famoso “segreto messianico”, con cui, secondo gli esperti, Gesù voleva proteggersi da una falsa interpretazione (politica, trionfalista) della sua missione.
Mi pare che in questa nostra epoca noi siamo troppo preoccupati di apparire nei media. Esagerando, si può dire che qualche volta sembra che siamo disposti a “vendere l’anima” per apparire sulla TV o altri media di comunicazione. Alcuni artisti dicono: “Che parlino di me, anche male; l’importante è che parlino”. Gesù ci mostra una altra strada: quella dell’autenticità, della verità di vita, della trasparenza… Quello non vuol dire fuggire dalla piazza pubblica o dai media. Ma cercare la pubblicità in se stessa non sembra essere il metodo missionario di Gesù. E neanche quello di una santa del nostro tempo, molto “coccolata” dai media, come Teresa di Calcuta. L’importante è cercare la verità di Dio, il resto arriverà quando dio vorrà.
P. Antonio Vilalrino
Roma

La casa-comunità, “ospedale di campagna”

Commentario a Mc 1, 29-39: DOMENICA, 8 FEBBRAIO 2015

Continua, in questa V Domenica ordinaria, la lettura del primo capitolo di Marco, che ci racconta una giornata tipica di Gesù a Cafarnao. La domenica scorsa avevamo letto la prima parte, contemplando Gesù nella sinagoga, che confrontava lo spirito “impuro”. Oggi lo vediamo fuori dalla sinagoga.
Nel mio commentario, seguirò quattro termini di riferimento:

La casa Cafarnaum, la tierra de Jesús

Gesù lascia la sinagoga per entrare nella casa di Simone Pietro, in compagnia di Andrea, Giacomo e Giovanni, oltre a Simone stesso, la cui casa diventa per un può di tempo il centro di operazioni di quella prima comunità di discepoli missionari. Nei vangeli, si ripete con una certa frequenza questa esperienza di Gesù che entra nelle case, particolarmente di persone riconosciute come “peccatori pubblici”: Levi, Zaccheo, Simone il fariseo… I suoi pranzi nelle case sono segni di fraternità, di festa, di perdono e di vita nuova. Anche la prime comunità cristiane si radunavano nelle case di qualche discepolo o discepola. In questo modo, la Chiesa aveva un aria di famiglia e fraternità, di vita vicina alle gioie e alle sofferenze delle persone.
Anche oggi, conosciamo tante famiglie che accolgono il Signore nelle loro case in mille modi, famiglie che fanno della loro casa un luogo d’incontro per coloro che seguono Gesù o per persone bisognose. Queste famiglie sono vere chiese domestiche, discepole di Gesù. Assieme a queste famiglie, io sogno una Chiesa laicale, “casalinga”, molto vicina alla vita concreta delle persone; una Chiesa fatta di piccole comunità di discepoli e discepole, amici e amiche, che si visitano, si aiutano a vicenda, si proteggono nei momenti di debolezza, si alzano per servirsi a vicenda, come ha fatto la suocera di Simone.

La casa che diventa “ospedale di campagna”.
Con la presenza di Gesù, la casa di Simone e della sua suocera, diventa un luogo sorgente di salute, dignità (la suocera malata “si alza in piedi”) e servizio. Nella casa di Simone, come nella sinagoga, Gesù appare come la rivelazione della bontà del Padre, del suo amore gratuito, che guarisce, dignifica, perdona, riconcilia, anima e invita a servire.
Questo è quello che Papa Francesco, con il suo linguaggio concreto ed efficace, ha definito come “ospedale di campagna”, una Chiesa serva in mezzo a un mondo ferito per le molte violenze fisiche, economiche, morali… Infatti, Quanti centri di salute nei luoghi più emarginati del mondo ha promosso la Chiesa! Quante scuole per bambini poveri! Quanti anziani accompagnati nei momenti più duri della loro esistenza! Quante persone illuminate con la parola, consolate, ascoltate con pazienza, perdonate! In un certo modo, possiamo essere orgogliosi di una Chiesa che nel mondo è veramente una comunità al servizio della vita e dei figli più bisognosi del Padre.
Ma, allo stesso tempo, sento che questo vangeli ci chiama anche a una conversione costante, personale e comunitaria: La chiesa di cui io sono parte (nella famiglia, nella comunità, nella parrocchia) non può diventare un castello chiuso, ma deve essere una casa aperta, una casa diventata “ospedale di campagna”.

Alba e tramonto, lavoro e preghiera, parola e silenzio.
P1060605All’alba, Gesù sparisce per andare in un luogo solitario, evidentemente, per trovare nell’intimità la Sorgente della sua vita interiore, per ristabilire (dopo la lotta di ogni giornata) i lacci affettivi con il Padre, per discernere e aggiornare il senso di tutto quello che dice e fa, evitando di perdersi in un attivismo senza direzione.

Qualcuno ha detto che il futuro sarà dei contemplativi, non di quelli che corrono da una parte all’altra, moltiplicando le parole vuote e i cuori risecchiti. Mi pare che investire in preghiera, con una fedele disciplina, è uno dei migliori investimenti per noi stessi, per la comunità e per la missione. Senza la preghiera diventiamo come delle foglie secche che il vento trascina senza nessun senso di direzione.

Varcare nuove frontiere.
Nelle lettura di oggi, i discepoli, assieme alle masse di beneficiati, vogliono ritenere Gesù, acchiapparlo nelle reti del loro interessato affetto. “Come si sta bene qui, facciamo tre tende!”, sembrano dire. Ma Gesù non si lascia “imprigionare”, si mantiene libero per annunciare il Regno altrove, senza confondere missione con soddisfazione personale o con l’applauso dei supposti tifosi…
Il successo può diventare una trappola, che ci fa accomodarci in quello già acquisito e dimenticare di continuare a camminare, a cercare nuovi orizzonti. Questo accade alle persone e alle comunità. Penso a tante parrocchie che si mostrano contente e orgogliose perché la loro chiesa si riempie durante le cinque messe della domenica. Ma attorno a quella parrocchia vivono più di 30.000 persone, delle quali forse mille o due mila vanno a Messa… Dove sono gli altri?
La passione missionaria di Gesù ci spinge a andare sempre oltre, a rompere le frontiere di ogni tipo, a aprirci a persone, gruppi a popoli nuovi, a non accontentarci di quello già acquisito per cercare nuovi orizzonti, sia nella vita personale sia nella comunità cristiana.
P. Antonio Villarino
Roma

La Giornata de Cafarnao

Mc 1, 21-28: DOMENICA 1 DI FEBBRAIO 2015

Cafarnaum

Abbiamo letto oggi dal capitolo primo di Marco la prima parte della prima giornata di Gesù a Cafarnao. Per riflettere su questo testo, vi propongo tre brevi spunti: sul luogo, sulla parola autorevole a sulla lotta tra spirti immondi e il santo di dio.

Prima di tutto, rendiamoci conto del luogo dove ci porta la narrazione di Marco.

Siamo a Cafarnao, una città al nord della Galilea, sulla riva del Lago di Genesaret, crocevia commerciale e culturale tra Palestina, Libano e Asiria . Cafarnao, come tutte le città di oggi, era un luogo dove bolliva la vita con tutti i suoi elementi, positivi e negativi.  Sicuramente, c’era una certa richezza, scambio di culture, presenza del Impero Romano (che era la grande potenza del momento), con la sua apertura alla modernità e alla globalizzazione. Ma c’era anche, sicuramente, molta  confusione, corruzione, ingiustizia, disprezzo dei poveri, miscredenza e presenza del male in generale, nelle persone e nelle strutture pubbliche… In questa città pluri-culturale, c’era anche una sinagoga, nella quale si ascoltava la parola di Dio ogni sabato, anche se forse con un atteggiamento di troppa sonnolenza e rutine.

Cafarnao può essere l’immagine della nostra propria città, della nostra civiltà attuale: anche in questa città c’è tanta vita, buona e meno buona; c’è tanta ricchezza, ma  anche tanta povertà, c’è generosità e c’è grande egoismo, c’è confusione e ricerca di novità. C’è miscredenza, ma anche fedeltà religiosa  desideriodi trovare Dio. E in questa nostra città c’è sicuramente Dio. C’è Gesù vivo nello Spirito, c’è il corpo di Cristo che è la Chiesa, che siamo noi chiamati a fare presenti in questo ambiente la verità e l’amore di Dio. Noi siamo, come Gesù e con Lui,  chiamati a essere missionari in questo ambiente, in queste nostre città, in questo nostro mondo in trasformazione. Come Gesù a Cafarnao, anche noi dobbiamo essere testimoni di Dio nella grande città, perché anche qui le persone cercano verità, bellezza, amore e liberazione.

La parola di autorità

Nella sinagoga di Cafarnao, dove tanti erano andati con fedeltà, ma anche forse con una certa rassegnazione, a sentire le solite parole del rabbino di turno, si trovano che quella giornata non è come tutti i sabati, che quel profeta che parla è differente, che in Gesù si fa presente una parola nuova, che stupisce e fa lodare Dio, perché parlava con autorità.

Possiamo domandarci dove stava quella autorità di Gesù, quella novità d’insegnamento?

A me pare che la parola, qualunque parola, ha autorità, diventa autorevole quando è vera, quando è autentica, quando corrisponde alla verità della vita. Non si tratta di concetti nuovi o di parole brillanti, ma di parola legata alla vita.

Io ho ascoltato una volta Madre Teresa di Calcuta. Come sapete, era una donna piccola, vecchia, per niente brillante, ma tutti la ascoltavamo con devozione. Diceva cose molto semplici, non erano “trovate” molto originali. Era la dottrina che tutti sappiamo. E invece: tutti noi, che eravamo lì a ascoltarla, ascoltavamo con molta attenzione, come dicendo: “é vero, quello che dice è vero”; e ci sentivamo illuminati, consolati, animati, incoraggiati. Il motivo era che quelle parole semplici e conosciute uscivano da una vita vissuta in sincerità e generosità. Quelle parole avevano lo stampo, la autorevolezza, dell’autenticità.

Così, penso io, erano le parole di Gesù, ma in un grado più alto. E, grazie alla risurrezione, le parole di Gesù, possono essere ascoltate ancora oggi e, se ascoltate da un cuore sincero, mostrano la sua verità e autorevolezza. E’ lui il maestro che ci guida nella vita, come nessun altro può fare. Ed è per questo che veniamo tutte le domeniche ad ascoltare la sua parola, proclamata dalla Chiesa. Ed è per questo che leggiamo il vangelo frequentemente, perché sappiamo che è parola di verità  e di vita.

Con Gesù anche noi siamo chiamati a diventare portatori, nelle Cafarnao di oggi, di parole autentiche. In certo modo, tutti noi abbiamo l’opportunità e il dovere di parlare e di insegnare, specialmente alcuni: preti, insegnanti, genitori…

Come fare perché la nostra parola sia autorevole? Penso che l’unica risposta sia: Quello che fa la nostra parola autorevole, con autorità, e la sua autenticità e la sua verità. I figli, per esempio, capiscono subito quando il papà dice verità  o quando racconta bugie. Ricordo quando ero in Ghana, i maestri obbligavano i bambini ad andare in chiesa la domenica, ma loro non andavano. Erano parole buttate al vento, come seminare nel mare.

Il discepolo missionario ogni giorno si affida a Gesù, Parola vera del Padre,  e chiede la grazia di diventare anche lui portatore di parole vere, che illuminano, guariscono, incoraggiano: in chiesa, a casa, nel lavoro, ovunque.

Il terzo punto è la prima battaglia che Marco ci racconta tra gli “spiriti immondi” e “il santo di Dio”.

Nella Bibbia, anche nei Vangeli, si parla parecchio di “spiriti immondi” o di “spiriti impuri”. E’ un linguaggio che non usiamo nei nostri tempi. Ma la realtà e l’esperienza che quel linguaggio racconta è oggi tanto reale come ai tempi di Gesù. Possiamo dire che con queste parole si fa riferimento a tutta quella realtà del mondo che si oppone a Dio e alla felicità dell’essere umano: che crea confusione, ingiustizia, disordine, caos, come succedeva al inizio della creazione, che in realtà ci fa schiavi e ci impedisce di diventare figli, liberi e liberatori.

Penso che nel mondo di oggi troviamo tanti spiriti immondi che ci appartano da Dio, ci fanno schiavi e creano confusione e caos. In questi giorni, subito viene a la nostra mente la violenza cecca che abbonda nel mondo di oggi. Ma ci sono tante altre cose “impure”, “immonde”, che ci opprimono: le dipendenze dalla droga, dal alcol, dal sesso senza controllo, da un consumo sfrenato… Penso alla corruzione politica, a la corruzione religiosa, alla arroganza che umilia e distrugge in poveri e i semplici…

Questo mondo corrotto, immondo, impuro, che è attorno a noi, ma anche in noi, diventa nervoso, violento, aggressivo, quando  si trova davanti al “santo di Dio”, quando si trova davanti a Gesù, che rappresenta la verità, la purezza, la libertà  e la santità di Dio.

Ma Gesù è capace di fare tacere questo spirito noioso, falsamente arrogante, distruttivo. Il potere di Dio è più forte ed e capace di vincere il male. A volte parliamo di Gesù come una persona buona, ma nel fondo forse pensiamo che è un debole, confondendo bontà con inconsistenza, invece Gesù si rivela anche come il potere di Dio, capace di liberarci dal male che è in noi e in torno a noi.

Noi come Chiesa, siamo eredi di questo potere di Gesù, che si manifesta nella carità attiva, nella parola giusta al tempo giusto, nei sacramenti del perdono  e del pane eucaristico, nella preghiera sincera e impegnata… Nutriti con la  parola e il corpo di Gesù, anche noi, come Gesù, nelle Cafarnao di oggi, siamo, non solo portatori della sua parola, ma anche guerrieri del su esercito di amore per vincere il male. La vittoria sul male esige una sua lotta, una sia consistenza, una sua perseveranza. A volte ci sentiamo mancare le forze, ma, fiduciosi nella presenza del Risuscitato, abbiamo la speranza di vincere.

P. Antonio Villarino MCCJ. Roma

 

Incontro dei Consigli Generali della Famiglia Comboniana

Consejos FamiliaComboniana

Sabato 24 gennaio 2015 i Consigli Generali della Famiglia comboniana si sono riuniti a Roma, nella casa della Curia Generalizia.

La mattinata è stata dedicata alla riflessione sulle sfide che ogni ramo della Famiglia si trova ad affrontare nei vari contesti di presenza e sulla necessità di vivere la missione a partire dai bisogni reali della gente. Abbiamo riflettuto anche sul fatto di essere diminuiti di numero, da qualche anno; d’altronde, una differenziazione dei nostri membri – sempre meno europei e sempre più americani e africani – ci porta a dover prendere in considerazione questa diversità e ad un nuovo stile di missione. Infine, ci siamo soffermati sulla nostra realtà di Famiglia carismatica, sul nostro stile di presenza e soprattutto sul nostro puntare ad essere seme di una Chiesa più comunitaria, nella quale sacerdoti, religiosi, religiose, secolari e laici possano condividere responsabilità e servire la gente in funzione, ciascuno, delle proprie capacità e specificità.

Nel pomeriggio abbiamo avuto l’opportunità di condividere gli eventi più rilevanti del 2014 e di essere aggiornati dalla commissione che prepara l’evento celebrativo del 150° Anniversario del Piano, che si svolgerà a Roma dal 13 al 15 marzo.

La giornata si è conclusa con un momento di preghiera e dandoci appuntamento per la fine dell’anno.