Laici Missionari Comboniani

Laicato e Ministerialità

Laicado
Laicado

Laicato e ministerialità

Tenteremo di fare una riflessione sulla ministerialità da una prospettiva laicale, in particolare dal punto di vista della vocazione missionaria comboniana. Prima però di addentrarci in questi ministeri e servizi dal punto di vista della fede, credo sia importante inquadrare l’argomento.

La nostra vita prende una svolta quando facciamo un incontro personale con Gesù di Nazaret. Condividiamo questa società con molti uomini e donne di buona volontà. Ciascuno con principi e valori che orientano le sue azioni e le sue scelte di vita. Ma per noi esiste un “prima di” e un “dopo” aver conosciuto Gesù. Come i primi discepoli, un giorno abbiamo incontrato Gesù sulla nostra strada. Il nostro cuore ha sobbalzato e le nostre labbra hanno chiesto “Dove abiti?”. E la sua risposta è stata “vieni e vedi”. A partire da quel momento la nostra vita è cambiata.

Sono tante le vie attraverso le quali siamo giunti a questo incontro: per molti è stato grazie alle nostre famiglie, alle nostre comunità cristiane, ai nostri amici, a circostanze della vita che ci sono capitate… indubbiamente la casistica è molto vasta. Ma ciò che è realmente determinante, è la risposta data, a partire dalla libertà, e le conseguenze di questa risposta in ciascuna delle nostre vite. La risposta è libera, nessuno ci costringe a darla, è una grazia che abbiamo ricevuto e, di conseguenza, il riconoscimento di una nuova vita.

Il laico è prima di tutto un seguace di Cristo. Non si tratta di seguire un’ideologia né semplicemente di lottare per delle cause giuste che contribuiscano ad una nuova umanità più giusta e dignitosa per tutti, né vuol dire seguire tutti i precetti della religione che possono aiutarci nel nostro rapporto con Dio. Essere cristiani vuol dire innanzitutto seguire Gesù, uscire dalla nostra zona di confort e mettersi in cammino. Prendere il necessario per andare leggeri ed essere sempre aperti e disponibili in questo seguire. Gesù ci mostrerà, lungo questo cammino, qual è la nostra parte di responsabilità nell’annuncio e costruzione del Regno.

Noi diciamo di essere in costante discernimento che non è uno stato di dialogo costante con il Signore. È vero che esistono momenti speciali di discernimento nella vita di ogni persona. Sono quelli che riguardano la sua vocazione principale, come nel caso del matrimonio o della vocazione alla quale ci sentiamo chiamati, come la vocazione missionaria, e anche il genere di professione attraverso la quale vogliamo o sentiamo di poter servire gli altri, scegliendo un certo tipo di studi o un altro, un certo lavoro o un altro. È fondamentale per la vita di ogni persona capire questa chiamata a fare l’infermiere, il medico, l’insegnante, il dirigente d’azienda, l’avvocato, l’educatore, o a lavorare nel campo sociale, o essere un politico, fare l’artigiano, ecc.

Momenti vitali che nella nostra adolescenza, gioventù ed età adulta si presentano in maniera significativa. Ma, al di là di questi momenti, che ci manterranno sul cammino nei momenti difficili, in questo cammino vogliamo rimanere in ascolto. Non vogliamo accomodarci. Nella vita si presentano continuamente nuove sfide e nuove chiamate da parte di Gesù. Per noi, come missionari, avere la valigia pronta è qualcosa che fa parte della nostra vocazione. Siamo chiamati ad accompagnare le persone, le comunità per un determinato periodo, per poi andare via, perché l’andare via è parte essenziale. Uscire o continuare a crescere. Non rimaniamo sempre uguali per anni perché riconosciamo che le necessità cambiano. Siamo chiamati a lasciare la nostra terra e a viaggiare in altri paesi, in altre culture; siamo chiamati a svolgere nuovi servizi, a ritornare nei nostri luoghi di origine, ad assumere nuovi impegni: tutto questo fa parte della nostra vocazione. In ogni chiamata, ad ogni nuovo cambiamento, dobbiamo capire quali sono i piani del Signore per noi. Perché ci chiede di andare in un altro continente o di tornare nel nostro luogo di origine quando stavamo facendo così bene presso quella gente, quando addirittura sembravamo così necessari in quel luogo, la vita ci porta a cambiare posto, a cominciare di nuovo…

Perché quando ci sembrava di essere arrivati in un porto definitivo, c’è qualcosa dentro di noi che ci interroga, ci inquieta? È il Signore che ci parla. Con Lui abbiamo un rapporto di amicizia che ci aiuta a crescere. Come amici condividiamo la vita e i nuovi progetti che la attraversano. Con momenti di maggiore stabilità ma anche con momenti di nuove sfide. Non siamo venuti a riposarci su questa terra ma a far fruttare la vita e a permettere e a lottare affinché anche altri possano goderne.

Noi rispondiamo a questa chiamata non solo in maniera individuale ma anche dall’interno di una comunità. Non camminiamo da soli. Questo è parte della nostra vocazione cristiana, l’appartenenza alla Chiesa, come ci sentiamo parte anche di tutta l’umanità. E come parte di questa Chiesa ci sentiamo chiamati ad un servizio comune. Come Laici Missionari Comboniani (LMC) sentiamo questa appartenenza alla Chiesa di Gesù. E sentiamo che questa vocazione specifica che abbiamo ricevuto è una vocazione e una responsabilità comunitaria. Abbiamo una chiamata personale ma anche una chiamata come comunità e comunità di comunità. Riconosciamo la Chiesa come sacramento universale di salvezza, ciascuno con la propria specificità, doni e carisma per l’annuncio e la costruzione del Regno.

Gesù chiama i suoi discepoli a vivere, a percorrere il cammino in comunità. Sappiamo che solo con l’aiuto di Gesù possiamo camminare e come comunità abbiamo bisogno di quella spiritualità profonda che ci unisce a Gesù, al Padre e allo Spirito. Un cammino dove la preghiera, la vita di fede e la comunità diventano nutrimento e riferimento per la vita del LMC.

La centralità della missione in Comboni. La Chiesa al servizio della missione

Comboni aveva ben chiara la centralità della missione nella sua vocazione e la necessità di questa nella Chiesa. Davanti alle necessità dei nostri fratelli e sorelle più bisognosi siamo chiamati a dare una risposta. E questa risposta è talmente necessaria e complessa che non siamo chiamati a darla individualmente bensì come Chiesa. Tutti e ciascuno di noi cristiani siamo chiamati a rispondere a questa chiamata. Non importa il nostro stato ecclesiale, ciascuno di noi deve dare una risposta di fede. Gesù chiama ciascuno a camminare. Ed è per la complessità delle necessità che esistono che lo Spirito suscita nel mondo e nella sua Chiesa vocazioni diverse, carismi diversi che diano il loro contributo a questa realtà.

Identificare la Chiesa con il clero o anche con i religiosi e le religiose vuol dire non capire Gesù, vuol dire non ascoltare lo Spirito. L’attività e la chiamata al sacerdozio o alla vita religiosa nei suoi numerosi aspetti è fondamentale per il mondo, ma non più dell’impegno di tutti e di ciascuno dei laici. La Chiesa non ha solo una responsabilità legata alla religiosità e spiritualità delle persone. Abbiamo una responsabilità sociale, familiare, ambientale, educativa, sanitaria, ecc. con il mondo intero.

Le cose di ogni giorno sono le cose di Dio. Le piccole cose sono le cose di Dio. L’attenzione ad ogni persona nel concreto e nelle necessità globali sono responsabilità dei seguaci di Gesù. E in tutte queste cose, il ruolo del laicato è fondamentale, dell’uomo e della donna, in campo materiale e spirituale… così lo intese Comboni e così lo intendiamo anche noi.

Comboni

Il laico nel mondo

In questa chiamata globale che abbiamo ricevuto, la Chiesa si presenta come comunità di riferimento. È nutrimento per il servizio. Luogo dove riprendere le forze, dove nutrirsi in maniera privilegiata anche se non unica.

Come laici siamo chiamati a far nascere radici che stabilizzino il terreno e lo arricchiscano, siamo chiamati a creare reti di solidarietà e di relazione che articolino la società, attraverso la famiglia, le piccole comunità di condominio, di quartiere, entità sociali, aziende… siamo grandi creatori di reti di relazione, collaborazione e lavoro. Viviamo coinvolti in tutte queste reti e siamo chiamati ad animarle, a dare loro una spiritualità perché siano al servizio delle persone, soprattutto dei più deboli. Siamo chiamati ad includere tutte le persone. Il nostro sguardo deve concentrarsi sui più poveri e abbandonati di cui parlava Comboni, sugli esclusi da questa società, deve essere uno sguardo che ci spinge a stare nelle periferie perché è dal basso che le cose si vedono in maniera diversa. Non possiamo adattarci ad una società dove non tutti hanno una vita dignitosa. Una società dove si premia l’avere e non l’essere e il consumo che sta devastando un pianeta finito che grida e reclama la nostra responsabilità globale.

Questa visione che deve interrogare la nostra vita ci chiede azioni concrete.

La chiamata del laico è una chiamata al servizio dell’umanità. Una chiamata che per alcuni sarà di servizio interno alla nostra Chiesa. Non possiamo pensare che il buon laico sia colui che aiuta in parrocchia e perdere di vista la nostra vocazione di servizio al mondo. Alcuni servizi interni sono necessari ma la Chiesa è chiamata ad uscire. Ad andare con Gesù sulla strada, ad andare di villaggio in villaggio, di casa in casa, ad aiutare nelle piccole e grandi cose. Siamo chiamati ad essere sale che dà sapore, lievito nella pasta… chiamati a stare nel mondo e a contribuire in maniera significativa. Non possiamo rimanere in casa dove ci troviamo bene, dove ci comprendiamo gli uni con gli altri. Siamo chiamati ad uscire. La Chiesa non nasce per sé stessa ma per essere comunità di credenti che segue Gesù e serve i più bisognosi. Per questo ci sentiamo chiamati ad essere di aiuto nella crescita delle comunità umane (anche quelle cristiane).

Qual è la risposta che stiamo dando a questa chiamata come LMC?

Attualmente c’è un’ampia riflessione in tutta la Chiesa sullo specifico missionario. Su quali sono e dovrebbero essere i nostri servizi in quanto missionari, i nostri ministeri specifici. Ormai si è perduta la referenzialità geografica della missione, il riferimento fra un nord ricco e un sud da sviluppare, dove le disuguaglianze e le difficoltà sono presenti in tutti i paesi, anche se in alcuni continuano a concentrarsi la maggior parte delle ricchezze e delle possibilità mentre in altri le difficoltà sono molto più gravi… Infatti, la miseria è dilagante tra i senzatetto nei cosiddetti paesi ricchi, le migrazioni forzate a causa della povertà, le guerre, le persecuzioni per motivi diversi, i cambiamenti climatici e altri fattori stanno facendo sì che un fenomeno da sempre presente nell’umanità si stia aggravando. La pandemia del COVID-19 ci ricorda la globalità della nostra umanità al di sopra di barriere e frontiere. Ci colpisce tutti e tutte allo stesso modo. Finora il denaro sembrava essere l’unico in grado di viaggiare senza passaporto, ma ora sembra che possa farlo anche il virus.

Solo in un mondo giusto tutti potremo vivere in pace e prosperità. Le disuguaglianze salariali, i conflitti, il consumo scriteriato al punto da sciogliere i ghiacci dei poli e via dicendo finiscono per influire e avere conseguenze su tutta l’umanità. Le barriere e la polizia, che siano alle frontiere o nelle case o nelle zone urbane di chi ha di più, non otterranno un mondo migliore per tutti né per quelli che vi si rifugiano dietro.

Di fronte a tutto ciò, il dibattito e la riflessione sullo specifico del laicato missionario in questa nuova epoca è chiaro. Non avrò la pretesa di entrare nell’argomento in maniera teorica. Vi presenterò semplicemente alcune delle attività in cui siamo presenti come laici per dare una risposa alla chiamata ricevuta.

È questa la nostra ministerialità, il servizio a cui ci sentiamo chiamati. La risposta di vita, non teorica, che stiamo dando. Non mi dilungherò. Indicherò solo alcuni esempi che possano chiarire; tanti altri rimarranno nell’anonimato… non per niente siamo chiamati ad essere pietre nascoste.

Abbiamo amici e amiche che lavorano con i pigmei e con il resto della popolazione nella Repubblica Centrafricana, un paese dove siamo da oltre 25 anni. In mezzo a quanti sono considerati come servi dalla maggioranza della popolazione; facendo da ponte di inclusione o assumendoci la responsabilità di una rete di scuole primarie in un paese che ha attraversato vari colpi di stato ed è da anni in una situazione di guerra che non permette allo stato di fornire questi servizi.

In Perù accompagniamo la gente alla periferia delle grandi città. Negli insediamenti abusivi dove chi viene dalla campagna strappa un pezzo di terra alla città per vivere, senza luce, senza acqua né fognature. Poche famiglie che lottano per una vita dignitosa, che hanno lasciato i loro paesini per la città per poter mangiare e dare una vita migliore ai propri figli. Dove c’è molta solidarietà fra vicini e accoglienza ma anche problemi causati dall’alcol, dalla violenza maschilista e dalla disgregazione di molte famiglie.

In Mozambico collaboriamo nell’educazione dei giovani, maschi e femmine, che andando via dalle loro comunità dell’interno, sperano di potersi formare per risollevare il paese. Hanno bisogno di scuole che diano loro questa formazione professionale e internati che consentano loro di vivere durante il periodo scolastico, dato che le loro case sono molto distanti. Anche accompagnare questi giovani e le comunità cristiane fa parte della nostra chiamata.

Dall’altra parte, siamo presenti in Brasile, nella lotta contro le grandi compagnie estrattiviste che cacciano via le comunità dalle loro terre, avvelenano i fiumi e l’aria, interrompono le comunicazioni o le isolano con i loro treni chilometrici che estraggono i minerali della zona senza preoccuparsi dell’ambiente o del bene delle persone.

Inoltre, in molti paesi europei siamo coinvolti nell’accoglienza agli immigrati. Cerchiamo di restituire quanto abbiamo ricevuto quando anche noi eravamo stranieri. Siamo chiamati a ricevere quanti fuggono dalla miseria e dalle guerre, quanti sono in cerca di un futuro migliore per le loro famiglie e che al loro arrivo si trovano davanti muri non solo di cemento e reti metalliche ma anche di paura e di incomprensione da parte della popolazione. Fare da ponte con una popolazione che continua ad essere ospitale e solidale, presenti nelle organizzazioni sociali ed ecclesiali che si mobilitano per accogliere e integrare i nuovi vicini. Dall’accoglienza sulla spiaggia fino all’aiuto per la lingua, la ricerca di un lavoro, di una casa, per la trafila amministrativa o a riconoscere la ricchezza che ci portano e il valore aggiunto che rappresentano per la nuova società. Valorizzando quello che sono e le loro culture ed essendo dei referenti per queste ultime in un mondo che non sempre le comprende.

Quando la società crolla e l’essere umano è sconfitto non sappiamo cosa fare con queste persone. La reclusione in carcere è la soluzione che abbiamo dato come società. Ma queste carceri molto spesso diventano scuola di delinquenza e non di riabilitazione, come dovrebbero. Fra queste ci sono le APAC che sono nate in Brasile e che a poco a poco si stanno estendendo. Un sistema di reclusione dove la persona che arriva è considerata come uno da recuperare e non un detenuto, che viene chiamata con il suo nome e non con un numero. Protagonista della sua vita, la si aiuta a comprendere il suo errore e la necessità di chiedere perdono e a reinserirsi come membro attivo nella società. Un metodo dove la comunità opera un cambiamento e crea ponti recuperando i suoi figli e le sue figlie che un giorno hanno commesso un errore; dove queste persone da recuperare hanno le chiavi delle porte e man mano assieme agli altri capiscono la dignità di essere figli di Dio, il pentimento e il loro valore come persone per la società.

Il modo in cui si vive nei paesi con maggiori risorse sta esaurendo un pianeta finito. Le relazioni commerciali internazionali stanno impoverendo tanti a beneficio di pochi… promuovere un nuovo stile di vita è fondamentale per cambiare i paradigmi e i valori che si dimostrano come gli unici validi per un esito sociale e per la felicità. In una società in cui il possesso e il consumo prevalgono sull’essere, bisogna proporre nuovi stili di vita. Anche in questo siamo coinvolti in Europa: proponendo nuovi stili di vita, di impegno, di responsabilità nel consumo, nell’economia, ecc.

Potremo così proseguire con attività legate ad un’educazione impegnata con gli esclusi delle periferie delle nostre città, nell’attenzione ai malati mostrando il volto di Dio che li accompagna e la mano di Dio che se ne prende cura, nell’attenzione ai senzatetto, alle persone con dipendenze, ecc.

Come missionari siamo e dobbiamo rendere tutti consapevoli della realtà di un mondo globalizzato che richiede un’azione congiunta, una nuova presa di posizione. Perciò, ogni nostra piccola azione, tutti i nostri granelli di sabbia danno forma a piccole montagne dove salire, vedere e sognare un mondo diverso.

Salire con la gente con cui viviamo tutti i giorni. Chiamati in particolare a quanti vivono sommersi senza possibilità di vedere un orizzonte, di uscire dalle proprie difficoltà, siamo chiamati ad alzare la testa e a guardare avanti, ad animare e accompagnare queste comunità. Siamo chiamati a stare lì dove nessuno vuole andare.

Tutti chiamati a lottare in maniera globale per i problemi che sono globali, ad unirci e ad essere promotori di reti di solidarietà in questa umanità che abita la casa comune, che dimostra ogni giorno di essere più piccola.

E in mezzo, mettere Gesù, la persona che ha cambiato la nostra vita. Dio è un diritto di ogni uomo e di ogni donna. Ci sentiamo responsabili di far conoscere la Buona Novella, di presentare un Dio vivo che sta in mezzo a noi, che cammina con noi, che come ci ha mostrato Gesù di Nazaret non ci abbandona e ci accompagna sempre. Dentro ogni persona, nel più bisognoso, nella comunità, Dio aspetta ciascuno di noi, per trasformare la nostra vita, riempirla di felicità, di una felicità profonda. Dio ci aspetta per darci l’acqua viva, quell’acqua che colma la sete dell’essere umano.

Che il Signore ci dia le forze per poter essere sempre presenti e accompagnare, essere uno strumento che porta le persone ad incontrarlo e ci tenga sempre accanto a lui nel cammino.

LMC

Alberto de la Portilla, LMC

Attingere a un testimone autentico del Vangelo

Giuseppe Ambrosoli
Giuseppe Ambrosoli

Pensieri del missionario medico Beato Giuseppe Ambrosoli

Troverai qui, caro lettore e cara lettrice, nella loro quasi totalità, i pensieri di padre Giuseppe, ma anche il ricordo di alcuni suoi gesti caratteristici che hanno, di per sé stessi, il sapore della semplicità e l’immediatezza del Vangelo. Non preoccuparti di leggere tutto e subito. Basta anche un solo pensiero. Ricordati di accostarti a p. Giuseppe nella pace perché parli al tuo cuore e ti accompagni come una fiamma accesa per tutta la giornata. Ti accorgerai, alla scuola di p. Giuseppe, che non sono le grandi e appariscenti cose che fanno grande un uomo o una donna, ma solo la spontaneità e la verità dei suoi gesti che nascono da quell’unica sorgente che è la carità di Cristo.

Quest’unica sorgente p. Giuseppe ha cercato nella solitudine di Kalongo; a quest’unica sorgente della carità ha bevuto ed è diventato lui stesso fontana di vita per coloro che l’hanno conosciuto. Padre Giuseppe non ha fatto nulla per essere riconosciuto, stimato, applaudito, eppure nessuno lo ha più dimenticato: con quel suo caratteristico sorriso, come ha detto un suo amico elettricista, ci ha insinuato senza parole che aveva Dio nel cuore.

Abbiamo scelto solo alcuni temi. Siamo consapevoli che se ne potevano scegliere altri e che si potevano persino formulare diversamente. Li elenchiamo di seguito, certi che i titoletti all’interno di ciascun numero siano di aiuto a rendere concreto il titolo principale.

  1. Testimoni del Vangelo
  2. Missione evangelizzatrice
  3. Umiltà
  4. Radicalità evangelica
  5. Darsi sempre un orizzonte
  6. La luce della fede
  7. La preghiera
  8. Maria, donna trasfigurata
  9. L’Altro (il Gesù totale)

Un solo avvertimento: non leggere questi pensieri per riempirti la testa di belle e nuove idee o aspettandoti chissà quali novità. Sono semplicemente una mano amica che ti rincuora e ti stringe perché anche tu possa essere un testimone che, nella propria vita, si preoccupa di amare, solo per far ricordare la bontà del Signore, e di essere umile, solo per poter affiancare chi è in difficoltà. Proprio come a Emmaus, dove i due discepoli si sono resi conto che l’Altro camminava in mezzo a loro. Così come noi, oggi, possiamo continuare a credere che Lui cammina con noi per le vie del mondo.

TESTIMONI DEL VANGELO

Santità, presupposto per essere evangelizzatori

Per essere apostoli bisogna essere santi. Non basta che gli altri mi dicano democristiano; devono sentire l’influsso del Gesù che porto con me; devono sentire che in me c’è una vita soprannaturale espansiva e irradiantesi per sua natura. O Signore, aiutami a diventare apostolo, a porre questo ideale come scopo della mia vita.

(Esercizi spirituali – Galliano, 3 novembre 1947)

Cura dell’anima e dei corpi

Qui abbiamo avuto mesi di intenso lavoro. La mia corrispondenza è in un arretrato spaventoso. Non so letteralmente più come fare. Ma ringrazio sempre il Signore che il lavoro sia tanto, perché siamo qui proprio per questo ed è attraverso il lavoro medico che possiamo arrivare all’anima di tanti malati … In questi paesi la pastorale passa quasi sempre attraverso il corpo.

(Lettera a Piergiorgio Trevisan – Kalongo, 25 novembre 1981)

Pronti a servire, e un passo indietro

Nell’assistenza ai malati, nell’esecuzione dei vari adempimenti era il più premuroso, sempre attento, senza farsi notare a supplire alle omissioni degli altri… Era sempre pronto a servire tutti, con l’aria di aver bisogno di tutti, sempre pronto allo scherzo e all’ironia.

(Dott. Luciano Terruzzi, assistente nell’ospedale di Como – Il giovane medico Giuseppe Ambrosoli – 1949)

Due mobili nella nostra cella: inginocchiatoio e tavolino

L’inginocchiatoio per la preghiera, la vita interiore e soprattutto la meditazione. Quest’ultima è fondamentale per la vita del sacerdote. Il tavolino è importantissimo per il sacerdote. Lo studiare per il sacerdote è una virtù indispensabile. Lo studio rende più penetrante, più profonda la meditazione e questa rende più spirituale, più rivolto al bene delle anime e più facile lo studio.

(Ritiro personale – Verona, 22 novembre 1951)

Ciò che si deve imparare

Vi penso ora tutti presi dallo studio (Giulio Noseda, Settimo Zanello e Mario Brusa, i cenacolini entrati tra i Guanelliani, ndr): ma non preoccupatevi troppo per questo; col tempo tutto entrerà in testa e molte cose si imparano, ma non bisogna avere una fretta eccessiva. Preoccupatevi soprattutto di quello che vi servirà domani nella vostra vita di apostoli.

(Lettera a Giulio Noseda ‒ Gozzano, 25 febbraio 1952)

Il trampolino di lancio verso la vita vera

Per noi, “cenacolini”, che siamo da poco entrati nella via del Signore, questa quaresima deve essere importantissima, la quaresima della nostra vera conversione al cuore e alla mentalità di Gesù Cristo crocifisso. Ci ritroveremo in Gesù, sempre, e assieme lo accompagneremo al Calvario! Coraggio, fratelli; il Calvario sarà per Lui e per noi il trampolino che ci lancerà nella risurrezione! Pregate per me; perché a dire parole faccio poca fatica, ma a fare i fatti sono più lento di una lumaca pigra.

(Lettera a Giulio Noseda – Gozzano, Le Ceneri, 27 febbraio 1952)

Gentilezza e finezza: sapore di Vangelo

La prima persona che mi venne incontro fu padre Giuseppe, mi prese le mani, mi diede il benvenuto, e mi portò le valigie in camera. Per me un po’ rustica e asciutta, la sua gentilezza e amorevolezza mi stupirono. Capii con il tempo che il tutto non era forma ma sostanza, perché lui vedeva nell’altro (in qualunque altro) un figlio di Dio redento da Cristo. Aveva molte finezze nel trattare con gli altri. Per esempio se qualcuno era ammalato di malaria, di notte si alzava, preparava una spremuta di aranci e la portava nella casa del malato.

(Emilia Francesca Susani, tecnica di laboratorio – Kalongo, gennaio 1981)

Comprensione: un limite che diventa virtù

A quel tempo io fumavo. Una volta, passando da casa mia, mia madre gli disse, riferendosi a me: “Le dica di smettere di fumare”. Egli rispose: “Poverina, non hanno altro”, e mi portò una stecca di sigarette.

(Emilia Francesca Susani, tecnica di laboratorio – Kalongo, gennaio 1981)

La folla dell’apostolo

Al suo funerale, al quale assistei, una folla immensa di gente uscita dal bush, sfidando la guerriglia e i soldati; quella folla che lui aveva curato: lebbrosi, zoppi, ciechi, bambini, donne e vecchi. La stessa folla che seguiva Gesù.

(Emilia Francesca Susani, tecnica di laboratorio – Lira, 27 marzo 1987)

Saper sorridere

A colui poi che, nel raccontare prodezze, gli veniva da dire “modestia a parte”, p. Giuseppe era solito aggiungere, sorridendo: «Povera modestia che viene messa sempre da parte!».

(Padre Raffaele Di Bari – Kalongo, 1956-1964)

La perfezione che convive con le imperfezioni

Non si diventa santi perché si fanno delle operazioni difficili con pochi mezzi e alla perfezione, e neanche perché si è missionari, ma perché dentro c’è stato uno sforzo grande di mettere in pratica il Vangelo. Per me, p. Giuseppe è riuscito a fare questo, ha messo in pratica il Vangelo essendo medico, sacerdote e missionario. Una sua frase ho sempre in mente: “Cerca di fare le cose alla perfezione, però se ti riescono bene non disfarle per farle perfette, le rovineresti; accontentati di averle fatte bene. Cerca però sempre la perfezione”.

(Suor Enrica Galimberti, strumentista e caposala – Kalongo, 1971-1979)

La via evangelica

«Quando non sai che via scegliere, prendi sempre quella che ti costa di più: è la via giusta»

(Al suo figlio spirituale, dott. Luciano Tacconi – Kalongo, 1978-1987)

MISSIONE EVANGELIZZATRICE

Sacrificio e apostolato: completare le sofferenze di Cristo.

Il sacrificio per l’apostolato è indispensabile. L’effetto del nostro apostolato dipenderà dal sacrificio. Fin’ora l’ho schivato. Ma ora devo cambiare, o Gesù. È necessario. Prenderò la mia croce e ti seguirò. Vienimi incontro colla tua grazia perché a dei buoni pensieri possa seguire una migliore realtà.

(Esercizi spirituali 1946-1948  –Galliano, 1° novembre 1946)

Le predilezioni: i poveri

Gesù ha avuto 4 predilezioni: i poveri, i peccatori, i fanciulli e la famiglia.

Devo amare anch’io i poveri, non temere di stare con loro, devo mettermi sul loro piano e portare a loro una parola buona. L’apostolato deve essere per me non solo d’ambiente ma deve svolgersi anche alle classi sociali inferiori, ai poveri, non badare se sono operai invece che studenti. Mettermi nell’apostolato tra i poveri con umiltà, farmi come loro, sul loro piano, amarli, interessarsi a loro.

(Esercizi spirituali –Galliano, 3 novembre 1947)

Le predilezioni: i peccatori

Mai considerarli dall’alto in basso, ma bensì fratelli. Hanno diritto a tutta la mia carità. Gesù ha avvicinato i peccatori con l’amore. Devo vivere la carità di Cristo in ogni momento e in ogni ambiente in cui mi trovo.

(Esercizi spirituali –Galliano, 3 novembre 1947)

Le predilezioni: i fanciulli

L’amore di Gesù era particolarmente rivolto ai piccoli. L’apostolato che posso fare ai piccoli è grande. Bisogna che mi dedichi a loro nella mia parrocchia, fare loro conoscere la verità, prevenirli contro il male. Farli diventare migliori. Devo attingere a Gesù fonte di questo grande amore. Devo vedere Gesù in ciascuno di loro, devo amarli per Gesù.

(Esercizi spirituali –Galliano, 3 novembre 1947)

Le predilezioni: la famiglia

Il Signore di fronte a un padre di famiglia piangente si è sempre commosso. Amare la famiglia. Pensiamo alla famiglia cristiana. Nella società occorrono tante famiglie cristiane. È necessario ricristianizzare la famiglia.

(Esercizi spirituali –Galliano, 3 novembre 1947)

Identità vocazionale e chiarezza di obiettivi

Il mio desiderio è di mettere a disposizione la mia professione a vantaggio delle missioni. Vengo qui a chiedere due cose: se nel vostro Istituto è possibile che un medico possa diventare sacerdote e se uno che è entrato in esso è certo di andare in missione a esercitarvi la doppia professione di sacerdote e medico.

(Padre Simone ZanonerRebbio (Como), luglio-agosto 1949)

La storia nelle mani di Dio

C’è tutto da ricostruire e non sappiamo come sarà il futuro. Meno male che sarà sempre come Dio lo vorrà per noi e quindi per il nostro meglio.

(Lettera agli amici della Charitas missionaria ‒ Kalongo, 1° maggio 1986)

In Dio la speranza

Tutti questi sconvolgimenti poi ci aiutano a sentire tutta la nostra debolezza, la nullità delle nostre sicurezze umane e quindi a capire che solo in Dio dobbiamo porre le nostre speranze.

(Lettera agli amici della Charitas missionaria ‒ Kalongo, 1° maggio 1986)

UMILTÀ

Esercizio di verità

La lode non aggiunge neppure una briciola a noi di quello che siamo, ma siamo solo ciò che siamo davanti a Dio. In caso di lode voglio usare un doppio sistema. Internamente fare atti di umiltà di fronte a Dio che ben conosce la mia nullità. Esternamente lasciar fare quasi senza badarci e appena possibile con una frase umoristica o con roba del genere, buttare tutto nel ridicolo in maniera che nessuno più si ricordi della lode precedente.

(Diario spirituale)

Esercizio di totalità

Io sono tutto da Dio niente da me. Io sono tutto di Dio niente di me. Io sono tutto per Dio niente per me. Santa Margherita M. Alacoque scrisse queste parole col sangue alla fine di un corso di SS. Esercizi prima dei voti solenni. …. Devo risolvere il problema della vita in maniera totalitaria e completa. Tutto è da Dio. Dio creatore mio e di tutte le cose. Se tutto è da Dio, Dio è tutto. Se niente è da me, allora io sono niente. Ognuno ha diritto di essere riconosciuto per quello che è e questo in prima cosa per Dio. Tributare a Dio l’adorazione, l’omaggio, la riconoscenza, l’amore. Da me io non sono niente (non poco). Se ho delle doti queste non sono solo mie e non me ne posso gloriare.

(Esercizi spirituali – Varese, 3 dicembre 1950)

Né pessimismo, né autosufficienza

Senza umiltà non si può fare un passo avanti. Con la superbia si va solo indietro e l’uomo è capace solo di fare il male. L’uomo da sé è solo il risonatore dei doni di Dio. Non pessimismo ma neanche autosufficienza, non superbia ma umiltà e solo riconoscimento di ciò che abbiamo da Dio.

(Esercizi spirituali – Gozzano, 7 febbraio 1952)

Amare il sacrificio nascosto

Fa’ che possa in futuro amare il sacrificio e desiderare di sacrificarmi sempre con questa grande intenzione della salvezza delle anime. Tu che sai come sia facile sacrificarsi quando tutti ci vedono, insegnami ad amare il sacrificio nascosto, senza amor proprio, fatto solo per te.

(Esercizi spirituali ‒ Gozzano, 7 febbraio 1952)

Sempre dopo gli altri

A tavola p. Giuseppe si serve sempre dopo che si sono serviti gli altri, e se deve farlo prima di qualche ritardatario si serve della parte peggiore, o ne prende di meno per non limitarla a chi non si è ancora servito. Mentre mangia guarda sempre se ai commensali vicini non manchi qualche cosa così da avvicinargliela, o da alzarsi per andare a prendere per lui o il cucchiaino o un piatto pulito.

(Ricordi di don dott. Palmiro Donini – Kalongo, 1965-2004)

“È Dio che fa, io sono ignorante”

Negli interventi chirurgici usava dire: “È Dio che fa, io sono ignorante”. Per lui, in un numero illimitato di casi, quando i malati guarivano diceva “Non è merito mio, ma grazia di Dio”.

(Sr Romilde Spinato – Kalongo 1965-1988)

Stimare gli altri più di sé stesso

Nella sua umiltà stimava tutti più di sé stesso e non si metteva mai in posizione di maestro.

(Padre dott. Aldo Marchesini – Kalongo, 1970-1971)

Umiltà e ironia

Quando gli annunciarono che gli era stato assegnato il premio “Missione del Medico” dalla Fondazione Carlo Erba nel 1963, si racconta che senza interrompere la partita a scacchi che stava giocando, abbia risposto: «Lazzaroni! Facevano meglio a mandare qualche cosa per l’Ospedale».

Ecco una conferma eccezionale dell’umiltà di p. Ambrosoli

Padre Stelvio Benetazzo racconta che un giorno il comandante delle prigioni di Gulu, Mr Erkirapa, accompagnò la moglie a Kalongo per cure mediche. Giunse molto per tempo al dispensario così da risultare fra i primi in lista di attesa. Prese posto sulle panche, tra tante donne e uomini ammalati. A un certo punto entrò un europeo in camice bianco, che prese a salutare gentilmente tutti i presenti, sorridente coi bambini seduti in braccio alle mamme. Dopo aver dato il benvenuto a tutti i presenti, entrò in uno stanzino lì accanto.

«Nella mia mente – racconta il comandante – pensavo fosse un infermiere o un medico qualunque. Un uomo così semplice e di basso rango non poteva essere quel grande medico che mi ero rappresentato nella mia mente. Dopo un’ora, io ero ancora là in attesa del “grande dottore”. Mi avvicinai allora alla suora di servizio e chiesi quando egli sarebbe arrivato… “Ma il dottore Ambrosoli è già arrivato ‒ rispose la suora ‒ e l’ha visto anche lei. È dentro quello stanzino”. Dubbioso chiesi conferma alla gente seduta accanto a me. Dunque quell’uomo così gentile, così sereno, così umile e amico di tutti, era il “grande medico”…, il cui nome è sulla bocca di tutti e che ha restituito la salute e la gioia di vivere a tante migliaia di persone…».

La stima di p. Giuseppe per l’opinione delle infermiere

Sr Pierina Bodei assicura che p. Giuseppe ascoltava anche dalle infermiere un giudizio sulla diagnosi di un malato. Non mostrava il minimo risentimento sebbene sr Eletta, la benemerita fondatrice dell’ospedale di Kalongo, data la sua grande esperienza come infermiera, osasse dire al giovane medico: «Dottore, dia subito un’occhiata a quel piccolo che ha la polmonite», oppure: «Guardi quello che ha il tetano». Padre Giuseppe avrebbe potuto benissimo rispondere: «Scusi sorella, il dottore sono io». Rispondeva invece sorridendo: «Bene, bene sorella».

Umiltà che ti cambia la vita…

Così scrive il dott. Gian Franco Orecchioni: «È difficile parlare di una persona così schiva, così rispettosa degli altri, come padre Ambrosoli, che non si metteva mai in mostra, che non appariva mai in primo piano. Era la pietra angolare, ma non si vedeva. Ti entrava dentro e ti cambiava la vita, ti insegnava a vivere e ti dava uno scopo…».

Sempre l’ultimo posto

Don Piercarlo Contini: «Non si dava nessuna importanza, ma cercava sempre l’ultimo posto».

4) RADICALITÀ EVANGELICA

Vicinanza a Cristo, criterio del valore di un’azione

Per noi giovani, che, grazie a Gesù, abbiamo una certa formazione cristiana, il campo più proficuo dove possiamo e dobbiamo lavorare è l’Azione cattolica. L’unico lavoro in cui tutto ha seriamente un fine spirituale. E per questo è il lavoro più redditizio perché questo nostro lavoro, il nostro tempo prezioso che dedichiamo all’Azione cattolica ha in ogni momento una finalità soprannaturale. E non c’è pericolo che ci si possa disperdere in cose vane perché questo lavoro ci porta sempre più vicini a Lui, il Cristo!

(Lettera a Virgilio Somaini ‒ Ronago, 21 novembre 1946)

Amore in Cristo e amicizia

Carissimo, avrei desiderato tanto scriverti nei giorni scorsi ma mi è stato impossibile a causa degli esami. La giornata del Congresso di Como mi è stata lietissima per il nostro incontro. Di questo dobbiamo esserne sinceramente grati al Signore. E spero che da questo sbocceranno presto i fiori della viva nostra collaborazione, i frutti del nostro lavoro nella vigna del Signore, che è la più bella, la gioia di una perfetta amicizia fondata nella carità di Cristo che i primi cristiani ci hanno così bene eroicamente insegnato.

(Lettera a Virgilio Somaini ‒ Ronago, 21 novembre 1946)

Lavorare per il Signore: consistenza delle nostre azioni

Dobbiamo sentire il bisogno di lavorare di più per il Signore perché questo è ciò che conta nella nostra vita: tutto il resto è passeggero, è nulla, quando non è nocivo.

(Lettera a Virgilio Somaini ‒ Ronago, 27 dicembre 1946)

I talenti ricevuti e ridonati

Son io che debbo tremare per primo pensando ai miei talenti che (anche se pochi) tengo nascosti sotto terra e dei quali dovrò rendere esatto conto a chi è misericordia infinita, ma è anche giustizia. Caro Gino, preghiamo insieme e preghiamo tanto, tanto, perché il Signore possa costruire sulla rovina delle nostre miserie e con la sua grazia le sue Opere. Dobbiamo sentirci fratelli, nella vita del nostro cenacolo, nella nostra vita che deve essere di apostolato, di bene. La parabola di oggi delle Vergini stolte ci deve far pensare molto e … concludere!

(Lettera a Virgilio Somaini ‒Milano, 30.aprile 1947)

La bellezza dell’apostolato

Vorrei parlarti del nostro dovere nell’apostolato, della necessità della nostra azione per le anime che il Signore ci ha poste vicino, della bellezza del nostro ideale nella donazione all’Azione Cattolica, dell’amore per Gesù che ci deve spingere a questa azione, delle gioie che gli operai del Signore trovano nell’apostolato, in questo nostro volontariato che tanta parte di peso avrà sulla bilancia nel giorno del giudizio se lo avremo adempito con dedizione, disinteressatamente, con amore vero, solo per dimostrare a Gesù questo nostro amore…

(Lettera a V. Somaini ‒ Ronago, 11 giugno 1947)

La sfida dell’apostolato

L’apostolato nell’Azione cattolica, caro Gino, non dà onori, non fa carriera, non dà benefici materiali, non dà riconoscenze esteriori, non suscita ricompense terrene da parte degli uomini, è vero, e questo pensiero potrebbe essere terribile, nel momento della prova, della crisi, dello sconforto. Ebbene, nel ragionamento sereno, alla luce della Grazia, è proprio questo pensiero che ci dà conforto, che ci fa abbracciare con maggior entusiasmo il nostro ideale, che ci fa amare maggiormente il nostro apostolato, che ce lo fa apprezzare e desiderare e ce lo fa sentire in tutto il suo fascino. Se così non fosse, al termine della vita ci direbbe il Signore: «Avete già ricevuto la vostra ricompensa». Se lavoriamo per l’apostolato, solo per il Signore, lontani da ogni brama di ricompensa terrena, certo questo non capiterà, ma anzi l’opposto. Per questo io vedo nell’apostolato nell’Azione cattolica la migliore attività, la più fruttuosa per la gloria di Dio e per il bene nostro.

(Lettera a V. Somaini ‒ Ronago, 15 maggio 1947)

Forme di apostolato e forma suprema

Devo comprendere che l’apostolato non è solo quando vado in propagandama in tutti i momenti posso fare l’apostolato, soprattutto bisogna che mi abitui all’apostolato della preghiera e della sofferenza: sono forme non vistose e che rendono tanto! L’apostolato in famiglia è tanto importante e devo dedicarmi con tanta decisione bandendo il rispetto umano. L’apostolato d’ambiente: a scuola, in ospedale. Non basta che gli altri mi dicano democristiano, devono sentire l’influenza di Gesù che porto con me, devono sentire che in me c’è una vita soprannaturale espansiva e irradiantesi per sua natura.

(Esercizi spirituali – Galliano, 3 novembre 1947)

La sacralità delle cose semplici

Di fronte a un pezzetto di pane, che stava per essere gettato via, p. Giuseppe è intervenuto, l’ha preso e, sistemandolo nella dispensa, ha detto: ”Il pane è una cosa sacra, mai buttare il pane”. Che lezione, mai dimenticata…!

(Ricordo del pittore Carlo Farioli)

L’autenticità delle cose semplici

A un invito a cena che i miei familiari gli rivolsero, una volta che passò da casa mia, rispose: «Se mi date quello che mangiate voi, mi fermo volentieri e ritornerò anche altre volte; se mi date qualche cosa di speciale non mi vedrete più».

(Ricordo di p. Luigi Gabaglio – Kalongo, 1977, e Arua, 1987)

5) DARSI SEMPRE UN ORIZZONTE

Osare l’impegno gratuitamente

Nessun visto a missionari, sacerdoti, fratelli, medici, infermieri, insegnanti… Espulsione di una cinquantina di missionari e perso la nostra suora, anestesista e laboratorista. Di sette nostri ospedali due sono chiusi per mancanza di medici (funzionano cioè solo come dispensari e maternità dove le infermiere fanno quello che possono). Con tutto questo andiamo avanti disposti a lavorare fino all’ultimo giorno, sapendo che questa nostra gente ha ancora tanto bisogno di noi. Siccome non lavoriamo per il nostro interesse continuiamo aspettando che la Provvidenza ci venga incontro a mettere a posto le cose. Così per lo stesso principio siamo in piene costruzioni.

(Charitas missionaria S. Vincenzo de Paoli ‒ Kalongo, 4 marzo 1973)

Offrire sempre una luce

Il 29 gennaio 1986 Kampala cade. I governativi occupano il Nord Uganda. Il futuro, umanamente parlando, si presenta molto oscuro, non essendoci la possibilità di un accordo pacifico tra le parti. Quello che soprattutto ci dispiace è la sofferenza della nostra gente. A noi non rimane che restare qui ad aiutare tutti quelli che possiamo, pregando il Signore che illumini gli animi e abbonisca i cuori, inducendoli a trovare una soluzione pacifica ai problemi politico-militari.

(Circolare sui fatti del 1986 – Kalongo, 25 novembre 1986)

Niente inutili commiserazioni: tutto occasione per maturare

Con un gran “magone” abbiamo dovuto abbandonare Kalongo. Ma il Signore è grande e ci ha dato la forza di accettare tutto dalla sua mano. È questa anzi un’occasione meravigliosa per crescere e maturare spiritualmente, e distaccarsi da tante cose terrene. Quindi ringraziamo di tutto il Signore!

 (Lettera a Mario Mazzoleni – Kampala, 9 marzo 1987)

Nelle difficoltà una sola risposta: amare di più

È stato duro, ma il Signore mi ha dato la forza. Anche questo può servire per crescere nel suo amore e maturare spiritualmente. Quel che Dio vuole non è mai troppo!

(Lettera a suor Enrica Galimberti – Lira, 22 marzo 1987)

Difficoltà cartina di tornasole dei veri interessi

Anche questo nostro lavoro in questo momento difficile andrà a gloria di Dio. Mi pare che sia proprio questo il momento buono per fare vedere che non lavoriamo per il nostro interesse. ( … ) Mi pare che questo sia per noi più che il momento di chiedere aiuti economici quello di chiedere aiuti spirituali perché il buon Dio salvi la cristianità ugandese. A noi nelle nostre viste umane pare che questo sia connesso con la salvezza delle nostre missioni, ma a Dio dobbiamo chiedere che cerchi Lui ciò che è veramente meglio secondo le sue viste. Ad ogni modo ci sentiamo più che mai nelle mani di Dio e andiamo avanti come nulla fosse cercando di purificare la nostra intenzione e nonostante tutto trovando in Dio la forza di continuare con serenità.

(Lettera gli amici della Charitas di Bologna – Kalongo, 4 marzo 1973)               

Puntare più in alto

Speriamo che tutto finisca in fretta così da poter cominciare la ricostruzione e il lavoro. Purtroppo la più difficile sarà la ferita della coscienza di tanti. Fino ad ora sappiamo di un prete africano e di tre padri comboniani uccisi nelle nostre zone. Purtroppo di tanti posti sappiamo solo che sono vivi, ma non quanto hanno sofferto e quanto hanno perso. Sappiamo solo che le missioni di Lira e  Moroto sono state completamente svaligiate di tutto. Occorre guardare in alto e ringraziare Dio che siamo ancora vivi, pronti a riprendere il lavoro, possibilmente con migliore spirito puntando soprattutto sul bene integrale di questa nostra gente, che ci ha sentiti vicini a loro in questo periodo.

(Lettera agli amici della Charitas di Bologna – Kalongo, 27 maggio 1979)

Il tempo per resistere a oltranza

Quando i ribelli capirono che il loro fronte era stato sconfitto, si radunarono minacciosi davanti al cancello dell’ospedale. Volevano le mogli dei soldati governativi e la gente del Sud che si era rifugiata in ospedale, per ucciderla e così vendicarsi della disfatta subita. Padre Giuseppe non temette di mettersi davanti al cancello e impedire ai ribelli di entrare dentro. “Qui non entrate. Se volete, uccidete me, ma qui non entrate”. I ribelli, di fronte a tanto coraggio e con poco tempo per fuggire, desistettero dal loro malvagio desiderio di vendetta.

(Ricordo di p. Ponziano Velluto, 1986-1987 ‒ Kalongo 1987)

6) La luce della fede

Precondizione per uno sguardo di fede: formarsi all’interiorità

Quest’oggi nella giornata lieta e serena di studio e meditazione, ma anche di gioia e festosità, la giornata del Cenacolo, ho sentito tanto la tua mancanza. [ … ] Ho sentito, in poche parole, il timore che tu possa venir meno nella nostra unione intima, spirituale, unione al Cristo nostro fratello e maestro. [ … ] Mi ha detto Afro che stai studiando per un esame. So che cosa significa aver esami, perché ne ho anche io uno la settimana prossima. Anche gli esami sono un mezzo per rendere gloria a Dio ed è soprattutto per questo scopo che dobbiamo aspirare alla buona riuscita anche in questi. Ma a che servirebbe, caro Gino, cercare di dar gloria a Dio in un esame quando per questo perdiamo delle ore preziose per la nostra formazione, ore preziose per il rinvigorimento della nostra vita interiore? Ti prego di sentire con me questo pensiero, così, nella sua limpida semplicità.

(Lettera a Virginio Somaini – Ronago, 15 maggio 1947)

La presenza che non abbandona e dà senso

È proprio vero che nel dolore, che nei momenti di sconforto si sente il valore della nostra Fede. Quando tutti ci abbandonano, quando tutti i nostri ideali umani e materiali cadono, quando precipitano tutte le nostre speranze ed illusioni, quando in conclusione ci sentiamo soli, soli; allora unica la nostra fede ci conforta, ci sta vicina facendoci comprendere che tutto avviene per volontà di Dio, facendoci sentire anche nel dolore, tutta la gioia di fare la volontà del Padre.

(Lettera all’amico Renzo Corti– Uitikon, 27 gennaio 1944)

Conoscere la volontà di Dio

Fammi conoscere la tua volontà. È la cosa più importante della mia vita il fare la tua volontà. Togli da me, o Signore, tutto ciò che sa di materia, che è del mondo. Parla a questo cuore e fa’ che io comprenda e segua la tua voce. Il mio fine è di renderti gloria o Signore! Per questo sono stato creato, per questo sono qui sulla terra. Se non raggiungo questo fine butto via il tempo. A nulla servirebbe lo studiare, dare esami, lavorare, correre, dibattersi, agitarsi, vivere. E io ti rendo gloria, solo e tutto, facendo la tua volontà. O Signore, fammi conoscere la tua volontà, perché io scelga una via nella vita, che deve essere la tua via, quella che tu vuoi da me, che mi hai fissato ab aeterno.

(Esercizi spirituali –Galliano, 1° novembre 1946)

Seguire la volontà di Dio

Luce, o Signore, luce perché io veda! Dammi la gloria, o Signore, la forza e il coraggio di seguire qualsiasi tua volontà, cioè quella qualsiasi via che la tua volontà mi ha scelto. O Signore, devo seguire la tua via, quello che tu vuoi da me, perché solo così potrò renderti gloria. Infatti solo così avrò tutte le grazie per fare tutto quel bene che vuoi da me, per raggiungere cioè quella santità che tu per me hai stabilito. Solo in questo modo potrò fare tutto il bene alle anime che tu mi porrai accanto.

(Esercizi spirituali – Galliano, 1° novembre 1946)

Trasformarsi in Gesù

Sono sacerdote tutto di Gesù e di Maria. Devo pensare alla responsabilità che mi porta il sacerdozio. Riceviamo una grande dignità, l’anima subisce una profonda trasformazione e lo Spirito Santo coi suoi doni porta delle disposizioni speciali all’esercizio della virtù. Tutto questo deve portare in me una spinta verso la santità. Come il pane si lascia trasformare in Gesù, così noi dobbiamo trasformarci un po’ alla volta in Gesù.

(Pensieri in occasione dell’Ordinazione presbiterale – Milano, 17 dicembre 1955)

Eucaristia punto nodale

L’Eucaristia per il sacerdote è il centro di tutta la vita. Ogni mattina Gesù ripeterà nelle mie mani l’incarnazione. Devo sviluppare la mia vita in senso eucaristico. Porre Gesù nel mio cuore al mattino e non più lasciarlo per tutta la giornata. Vivere la vita in funzione dell’Eucaristia ricevuta o da riceversi.

(Pensieri in occasione dell’Ordinazione presbiterale ‒ Milano, 17 dicembre 1955)

Ascoltare la parola di Dio senza difese

Resta che devo continuare nello sforzo di vivere la presenza di Gesù nel mio cuore e chiedermi frequentemente cosa farebbe Lui al mio posto. Mi ha colpito il pensiero di ascoltare la parola di Dio senza difese, e il colloquio con Gesù nel tabernacolo senza difese. Quindi non difendermi con tante scuse se la mia vita è diversa dalla parola di Dio, e non parlare a Gesù imponendo il mio punto di vista umano, meschino.

(Esercizi spirituali – Gulu, 9-15 gennaio 1981)

Fiducia nella Provvidenza

Nei periodi di disagio, di incertezza, di dissidio, di violenza anche l’azione pastorale diventa più difficile e meno efficace. Occorre fiducia nella Provvidenza e andare avanti come se nulla fosse.

(Lettera a don Antonio Fraquelli ‒ 18 maggio 1982)

La malattia come grazia

La cosa più bella è di essere preparati a vedere in tutte queste cose la volontà di Dio. Anche l’inattività forzata, vista dall’alto non ha nulla di triste e il periodo di malattia è certo un periodo di grazia.

(Lettera alla Charitas di Bologna – Kalongo, 28 settembre 1982)

“L’insuccesso  amato”

Ho dovuto fare 10 giorni in ospedale per tutti gli esami. Questo tempo mi serve per pensare, per pregare e accettare anche il dono della malattia dalle mani di Dio. È un po’ “l’insuccesso amato” (per amore di Dio) di De Foucauld. È certo più facile dirlo a parole e per questo vi chiedo una preghiera, perché veramente possa accettare tutto ringraziando il Signore proprio per ciò che è contrario alla nostra volontà.

(Lettera alla Charitas di Bologna – Ronago, 31 gennaio 1983)

Sempre disposti alla volontà di Dio

Gli esami… piuttosto peggio che meglio. Vuol dire che devo accettare anche questo dalla mano del Signore che mi fa capire che è Lui che decide e comanda. Mi sforzo a dire la preghiera dell’abbandono di Foucauld. Ma non t’illudere perché sono il peccatore di sempre. Speriamo in bene sempre disposti alla volontà di Dio.

(Lettera a p. Guido Miotti – Ronago, 17 marzo 1983)

Il bello che è buono

lo vado avanti abbastanza bene, ma non sono più quello di prima. Ogni tanto mi salta addosso qualche male. Il mese scorso ho fatto due settimane a letto per una sciatica per cui non riuscivo più a stare in piedi. Ora va meglio e sto riprendendo il lavoro. Sarà in ogni modo quello che Dio vuole e questo è sempre una cosa bellissima.

(Lettera a Irma Domenis ‒ 17 agosto 1984)

Capire ciò che è più importante

La ringrazio soprattutto per avere continuato a pregare. Il Signore mi ha tanto aiutato in questo periodo. Comincio a capire che il più importante è fare la sua volontà. Il resto è niente. Quanto tempo perdiamo per cose inutili nella vita! Ho ripreso la mia vita, a ritmo più calmo. Sono qui da sei mesi. Mi sono ammalato ancora tre volte (per una settimana). Anche a Natale ero a letto, ma ora sto guarendo e spero in Gesù di poter continuare, se lo vorrà.

(Lettera a suor Anna Fumagalli – 30 dicembre 1983)

I nostri limiti e sofferenze: misure del vero amore se…

Certo, se li guardiamo con lo sguardo di Cristo, i nostri piccoli guai non ci preoccupano più, ma diventano fonte di apostolato e martirio.

(Lettera a suor Santina Pelizzari ‒ 19 agosto 1986)

Saper ringraziare commossi

Qui abbiamo avuto dal 29 giugno al 1° luglio una grande festa per il 50° della missione. Il 29 luglio grande messa all’aperto con 565 cresime; il 30 idem con 65 matrimoni e il 1° luglio grande concelebrazione di oltre due ore con tre vescovi e una ventina di sacerdoti, sul piazzale della chiesa, e al pomeriggio festa ricreativa con danze coreografiche popolari, canti, ecc. È andato tutto bene, principalmente dal lato religioso. Si è cercato di fare sentire ai cristiani la riconoscenza a Dio per il dono della fede. È certo bello e consolante costatare il cambiamento avvenuto nella popolazione in questi 50 anni dal primo annuncio del messaggio cristiano. Era davvero commovente vedere tutta questa gente, non ricca, ma festante, in preghiera entusiastica; gente che 50 anni fa era tutta pagana. C’è da ringraziare il Padrone della messe, commossi. Ogni tanto qualche male mi salta addosso e poi passa. Posso solo ringraziare il Signore di essere ancora in missione e di potermi rendere ancora, sia pure limitatamente, utile. La cosa più bella è di pensare che, comunque vada, sarà sempre la volontà di Dio e quindi tutto bene, sia per la vita che per la morte.

(Lettera a don Antonio Fraquelli per il 50° di Kalongo – 8 settembre 1984)

Entrare nel cerchio della Trinità

Dobbiamo entrare nel cerchio della Trinità … Accetto tutto. Anche la dialisi.

(Ricordo di suor Caterina Marchetti ‒ 1965-1987)

Lasciarsi illuminare

Padre Giuseppe si trova a Lira (Ngeta), il 19 marzo, festa di san Giuseppe nel giorno del suo onomastico. Presiede l’Eucaristia: «San Giuseppe è il nostro modello di dedizione e obbedienza, anche quando gli eventi non si comprendono e le cose vanno male. Dobbiamo dunque rimetterci alla volontà di Dio, come san Giuseppe che riceve l’ordine da Dio onnipotente di fuggire in Egitto per salvare Maria e il Redentore bambino…».

(Ricordo di p. Mario Marchetti – Lira, 19 marzo 1987)

Scoprire la vera motivazione delle nostre azioni

Coraggio – diceva a tutti mentre si caricava la roba sui camion –  questo è il momento in cui si deve vedere perché siamo venuti qui. Dal punto di vista umano lasciare l’Ospedale è stato un vero disastro… Ma quello che Dio vuole non è mai troppo.

(Lettera alla Charitas di Bologna – Lira, 14 marzo 1987)

Accettare tutto

Arrivo a Lira del convoglio proveniente da Kalongo alle 10 circa di sabato 14 febbraio 1987. Ho visto soltanto scendergli sulle guance due lacrime, ma poi dire: “Sia fatta la volontà di Dio”.

(Ricordo di Emilia Francesca Susani – Lira, sabato 14 febbraio 1987)

Volontà di Dio che diventa ricordo

Mi sono ammalato all’improvviso ed è una nefrite peggiore di quella dell’82. Sono addoloratissimo di non poter venire ad Angal a darvi una mano nella parte organizzativa. Devo partire per l’Italia e non so se poi mi lasceranno tornare. Da questo letto prego anche per voi. Il Signore non mancherà di assistervi nelle vostre difficoltà e pregate anche voi per me.

(Lettera a sr Caterina Marchetti e sr Mary Paul Lonergan – Lira, 25 marzo 1987)

Conformarsi in tutto

Il piano era di portarlo a Gulu e poi trasferirlo in Italia. Supplicava: «No! Non dovevate farlo. Sarà troppo tardi perché ho le ore contate. Sapevate che ho sempre desiderato rimanere con la mia gente, perché ora mi mandate via?». Comunque poi ringrazia e dice: «Sia fatta la volontà di Dio». Collaborò in tutto per prepararsi a partire. Era veramente pronto a tutto.

(Ricordo di sr Romilde Spinato – Lira, 5.30 del mattino del 27 marzo 1987)

L’imprevedibile che è irripetibile

Il futuro è veramente imprevedibile. È certo che è nella mano di Dio; e noi vorremmo sapere sfruttare tutto a nostra crescita nel suo amore. Prega per noi che siamo tanto duri da non sapere fare frutto di simili occasioni irripetibili.

(Lettera a don dott. Palmiro Donini ‒ 5 marzo 1987)

La fede che trasporta le montagne

Un giorno padre Giuseppe mi disse: «Vengo chiamato al pronto soccorso dell’Ospedale per un giovane a cui un uomo con un grosso bastone di mogano aveva fracassato il cranio. I portatori avevano messo delle foglie di banano sotto la sua testa, per raccogliere parte del cervello che usciva, con pezzetti di osso, dalla gravissima frattura. Io mi sentii venir meno a quella vista, ma sapendo che non potevo deludere quella povera gente, presi un catino con acqua e, mentre fingevo di lavarmi le mani, “benedii quell’acqua” pregando intensamente Gesù di intervenire con la sua potenza. Si trattava infatti del Suo Onore, non del mio. Poi con la stessa acqua lavai delicatamente i pezzetti di osso del cranio e misi dentro parte del cervello fuoriuscito. Poi rimisi dentro i pezzetti di osso, fasciai la testa mentre dicevo a Gesù: “Ora pensaci Tu! Poiché per me questo giovane è già morto”. E Gesù ci pensò davvero. Infatti con stupore di tutti, dopo una settimana di ospedale quel giovane ripartì a casa sua completamente guarito».

(Riferito da p. Alberto Villotti – Venegono, 1980)

7)  LA PREGHIERA

La preghiera, vera forza di p. Giuseppe

La preghiera è importantissima per un giovane: è il suo ossigeno. Gesù rimase a Nazaret ben 30 anni per insegnarci la preghiera.

O Gesù, pensando alla tua preghiera nell’orto degli ulivi, insegnami a pregare come te quando sono nella tristezza, quando mi prende la noia, la nausea e la lingua mi si inceppa in bocca. Insegnami o Gesù a cercare nella preghiera non la volontà mia, ma quella del Padre.

(Esercizi spirituali – Gozzano, 24 ottobre 1951)

Preghiera: attenzione e affetto

O Signore, come è la mia povera preghiera? O Signore, che miseria spirituale. Ma posso realizzarla unendo all’intreccio meraviglioso delle tue preghiere il mio povero fiore appassito e smilzo, e così ottenere che anch’esso venga accettato al trono dell’Altissimo. È l’attenzione che mi manca soprattutto nella preghiera. O Gesù, fa’ che io ti sia sempre più vicino e unito con la preghiera e l’affetto.

(Esercizi spirituali – Gozzano, 24 ottobre 1951)

Tempo per pregare

Dopo le tue ore d’ufficio puoi stare in pace e avere tempo abbondante per pregare. Io questo tempo devo rubarlo. Riesco un po’ alla sera (dice De Foucauld che il giorno è fatto per lavorare e la notte per pregare!). De Foucauld mi ha aiutato a organizzare la mia preghiera (purtroppo sempre povera e fatta solo di parole – sono ancora all’asilo) e per di più da circa due anni ho scoperto che posso andare a letto a mezzanotte senza risentirne (mentre prima erano mali di testa, per cui, salvo emergenze, dovevo andare a letto molto prima). Così dopo aver fatto un po’ di lavoro di ufficio (corrispondenza e altro), alle 23.30 posso mettermi a pregare, anche se a quell’ora riesco solo a dire rosari, passeggiando tra le case dei padri e la chiesa.

(Lettera a mons. Costantino Stefanetti – Lira, 21 maggio 1982)

Pregare sotto le stelle

Grazie di tutti i consigli per la salute. Cerco di stare attento e di essere prudente. Qualcosa però devo pur fare. Ho anticipato l’orario di andare a letto alla sera, ma il pregare a letto non è mai così bello come passeggiando di notte sotto il cielo stellato … di Dio.

(Lettera alle signorine Rimoldi – 26 settembre 1983)

Ogni tempo è buono per pregare di più

Grazie a Dio sto meglio, anche se i risultati di laboratorio sono sempre un po’ severi e indicano che la ripresa non è completa. È già una grande grazia poter tornare in missione e cercherò di essere prudente in modo da poter continuare nel lavoro anche se a ritmo ridotto. L’idea non mi dispiace completamente perché vorrà dire che troverò il tempo di pregare durante il giorno.

(Lettera al Padre generale, Salvatore Calvia – Ronago, 11 giugno 1983)

Preghiera attiva

Non pensare per noi. In qualche modo con l’aiuto di Dio ce la caveremo sempre. A noi basta che tu preghi. [ … ] Ti faccio carissimi auguri per la tua operazione ed anche per Natale. Sii certo della nostra preghiera forte forte per te.

(Lettera a don dott. Palmiro Donini ‒ 30 novembre 1986)

8)  MARIA, DONNA TRASFIGURATA

Maria, Madre perché discepola

O Gesù, tu hai risposto a tua mamma che dovevi interessarti delle cose del Padre tuo. Che magnifico programma il tuo! Ma ora che ho lasciato tutto per seguirti, questo deve diventare anche il mio programma: “Vivere e lavorare solo per gli interessi di Dio!”.

(Esercizi spirituali – Gozzano, 25 ottobre 1951)

In unione con Gesù e Maria

[…] Maria nel nascondimento del tempio: si prepara nell’umiltà e nel silenzio a darci Gesù e a diventare madre mediatrice di tutte le grazie.

Proposito: così devo interpretare anch’io il periodo di preparazione al sacerdozio e alla vita missionaria; prepararmi nell’umiltà del nascondimento a portare Gesù la salvezza alle anime.

(Ritiro personale ‒ Verona, 22 novembre 1951)

Maria e il valore di un incarico da svolgere

Maria pienezza delle funzioni (ufficiorum abundantia): non è l’elevatezza dell’ufficio che conta, quanto il compiere ogni ufficio nella carità in unione con Gesù e Maria. In questo caso l’ufficio acquista il valore più grande per la propria santificazione e la salvezza delle anime. Voglio intendere in questa maniera ogni mia attività e compierla nell’obbedienza in unione con Gesù e Maria per il bene delle anime.

(Ritiro personale ‒ Verona, 22 novembre 1951)

Nelle mani di Maria per riempire il cuore di amore

Questa mattina ho rinnovato la mia consacrazione a Maria su consiglio di p. Vitti, essendo diventato dal 25 marzo 1952 “milite” di Maria. Ora sono tutto tuo, o Maria; adoperami come cosa e possesso tuo. Tu vedi la mia miseria, quanto vuota è l’anima mia. Ora che sono nelle tue mani riempimi il cuore dell’amore al tuo Gesù. Digli tu una parola speciale e forte come quella delle nozze di Cana. Io ricorro a te e mi fido di te. O Cuore Immacolato di Maria, prega per me.

(Festa dell’Immacolata Concezione di Maria ‒ Gozzano, 7 novembre 1952)

Da Maria: purezza, amore e giovinezza

Da Maria Vergine dobbiamo imparare una grande purezza. Un giovane tanto vale quanto è la purezza che porta in sé. Se la giovinezza è la primavera della vita, il fiore di questa primavera è la purezza. Se si rovinano i fiori è rovinato il raccolto. Gli uomini di domani si preparano con i giovani di oggi.

(Esercizi spirituali ‒ Gozzano, 25 ottobre 1951)

I misteri del Rosario, luci che illuminano

La nostra situazione rimane sempre tesa … siamo bloccati in missione, la nostra gente vive di stenti e di sofferenze … L’importante per noi è riuscire a fare di questa situazione una occasione per fare meglio la volontà di Dio e per unirci di più a Gesù. La cosa non è sempre facile a capirsi, ma dicendo il Rosario e meditandone i misteri ci si arriva facilmente … Prega tanto per noi.

(Lettera a suor Santina Pelizzari ‒ 29 dicembre 1986)

9)  L’ALTRO (il Gesù totale)

Eucaristia, fonte viva di carità

O Gesù, un dono più grande di questo non potevi farcelo. Fa’ che corrispondiamo al tuo amore e al tuo desiderio con una vita veramente eucaristica. Questa non consiste solo nel fare la comunione, ma specialmente nel vivere la tua vita di Dio in noi durante la giornata, ascoltandoti e adorandoti operante nel mio cuore.

(Esercizi spirituali – Gozzano, 31 ottobre 1951).

Il suo mantra

Lui usualmente diceva che «Dio è amore d che lui era il suo servo a beneficio di coloro che soffrono».

(Ricordo di Massimino Leonard Oyoo – Kalongo, 1956-1987).

Sempre dalla parte del più debole

Padre Giuseppe praticava frequentemente il reimpianto delle tube delle donne sterili: cosa che a me sembrava inutile, atteso anche il pericolo di infezioni che in un paese come l’Africa facilmente comporta. Lo feci presente al dott. Ambrosoli, ed egli mi rispose: «Sai tu cosa significa per gli africani la sterilità? Lo so benissimo che la maggior parte dei miei interventi non avrà esito, ma se grazie ad essi anche una sola donna potesse aver un figlio, questo mi ripagherebbe di tutti gli interventi da me fatti».

(Ricordi del dott. Giuseppe Belloni – Kalongo 1973)

Amore radicale verso l’ammalato: invito alla preghiera

Di fronte a situazioni particolarmente gravi, a volte il padre chiedeva a pazienti musulmani: «Vuoi che preghiamo insieme?», e l’ammalato rispondeva: «Certo che lo voglio. Abbiamo lo stesso Dio».

(Ricordi del dott. Bruno Turchetta – Kalongo, 1980-1982)

Il prezzo della carità

«La carità è troppo preziosa e bisogna pagarla», diceva spesso.

(Riferito da don dott. Palmiro Donini – Kalongo, 1965-2004)

La misura dell’amore

L’amore di Gesù per noi deve essere la misura della nostra carità verso i fratelli. Saper scusare, saper considerare, saper comprendere! Considerare gli altri sempre con occhio sereno e buono, e soprattutto attenzione alle false immaginazioni. La carità in comunità! Vedere gli altri come «alter ego». La carità cristiana veramente realizzata deve essere il profumo più bello della nostra comunità.

(Esercizi spirituali, 1951-1953 ‒ Gozzano, 21 ottobre 1951)

Un passo in più con il diverso

Per la carità voglio fare questo proposito, di esercitarmi controllando i miei pensieri verso i compagni. Pensieri di astio o disprezzo verso quelli che non mi sono simpatici: combatterli e sforzarmi in tutte le occasioni di stare con loro, con fraterna carità esteriore e interiore. Combattere anche i pensieri che ho così frequenti di voler considerare i miei confratelli inferiori a me, e mi sforzerò di pensare che loro sono più virtuosi di me e più degni davanti a Dio.

(Esercizi spiritual, 1951-1953 ‒ Gozzano, 7 febbraio 1952)

Carità: bontà e amabilità

Si ama una persona quando si trova in essa un non so che di amabilità. Per poter amare i miei confratelli devo formarmi di essi un giudizio di amabilità. Devo sforzarmi di giungere a questo cercando ciò che vi è di amabile nei miei confratelli. Associando questo all’amore del prossimo per amore di Gesù ne uscirà una vera e profonda carità. O Gesù, amante degli uomini, aiutami ad amare come tu vuoi i miei fratelli. Ma ho anche un altro dovere. Dice il Carrel: «Il dovere di ciascuno non è solo di amare gli altri ma inoltre e specialmente quello di rendere sé stesso amabile agli altri». La carità si alimenta con piccole cose, piccole attenzioni, piccole cortesie. Si ama una persona quando si trova in essa un non so che di “amabilità”. Per poter amare i miei confratelli devo formarmi di essi un giudizio di amabilità. Devo cercare in essi ciò che vi è di amabilità. Associando questo all’amore del prossimo per amore di Gesù, ne uscirà una vera e profonda carità. A questa voglio puntare per amore di Gesù, sicuro che dalla carità praticata e sentita da tutti ne deriverà un gran bene alla comunità.

(Esercizi spirituali, 1951-1953 ‒ Gozzano, 7 febbraio 1952)

Si cura con la bontà

È molto importante la bontà con gli africani a imitazione della bontà di Gesù nella sua vita pubblica. Bontà specialmente nel mio ufficio di medico. È la bontà che conquista i cuori anche i più rozzi. Che nessuno parta dispiaciuto dai miei cattivi modi. O Mamma del cielo, tu sai quanto ho bisogno di lavorarmi su questo punto.

(Esercizi spirituali, 1958 ‒ Lachor Seminary, 4 settembre 1958)

Modello supremo della carità che cura

È molto importante che io faccia un proposito sulla carità verso gli africani nella mia funzione di medico. lo non li tratto con quella carità che loro desidererebbero e si aspettano da me, medico e missionario. Più pazienza, più comprensione. Farò questo, oggetto dell’esame particolare, per qualche tempo. Devo cercare di impersonare in me il Maestro quando curava i malati che venivano a lui.

(Esercizi spirituali, 1-7 settembre 1957 – Lachor Seminary di Gulu, 3 settembre 1957)

Gesù rivela la misericordia del Padre celeste

La predica sulla misericordia di Gesù è molto commovente. Mi fa vedere come sono lontano dal cuore di Gesù nel modo con cui tratto gli africani. Troppa giustizia e troppo poca misericordia. Intendo fare questo proposito: trattare con gli africani con molta più carità, affabilità e bontà, cercando di adattarmi alla loro mentalità, ruvidezza e indiscrezione.

(Esercizi spirituali, 1963 ‒Ngeta-Lira, 18-24 agosto1963)

Pazienza, unico cammino

Voglio fare il proposito di essere paziente nel mio lavoro. Sono troppo facile ad arrabbiarmi perché le cose e le persone non sono come le voglio io, così sciupo buona parte dell’apostolato che potrei fare. Credo che mancando di pazienza (coi malati, suore e infermieri ) io frustro una buona percentuale del bene spirituale del mio lavoro.

(Esercizi spirituali, 1971  – Lira, 18-24 aprile 1971)

Per chi non ha nessuno

Padre Ponziano Velluto racconta di aver scorto, più di una volta, rientrando tardi dai safari, p. Giuseppe mettere da parte metà del suo cibo per portarlo a qualche ammalato. Vedendosi scoperto, arrossiva e diceva: “Questo è per quell’ammalato operato giorni fa. Poveretto, nessuno lo assiste”.

(Ricordo di p. Ponziano Velluto – Kalongo, 1987)

Non saper dire di no

Padre Giuseppe permetteva che i suoi collaboratori medici andassero, anche per lunghi periodi, ad aiutare altri ospedali e a chi gli faceva notare che quegli ospedali talvolta avevano un numero di medici anche superiore a quello di Kalongo, lui rispondeva: «Se chiedono vuol dire che ne hanno bisogno… Quindi basta! I favori se si vogliono fare, costano».

(Ricordi don dott. Palmiro Donini – Kalongo)

Amore come a una figlia

Nell’evacuazione di Kalongo si rifiutò di lasciarmi indietro con mia figlia che allora studiava alla scuola per ostetriche. Con le lacrime agli occhi mi disse: “Questa non è più tua figlia, ma mia figlia”.

(Maria Aboto – Kalongo, 1956-1987)

Valore per discernere: la vita delle persone

L’ospedale ha un impegno serio verso la vita di chi vi accorre e in coscienza non posso lasciare il posto gravemente scoperto per una ragione familiare.

(Lettera al Padre generale, Tarcisio Agostoni ‒ 12 giugno 1977)

La morte del giusto

[ … ] Come ha vissuto è anche morto, povero e distaccato da tutto. A Kalongo c’era tanto, ma lui non lo usava, era tutto per gli altri e nulla per sé. [ … ] Ha fatto una morte invidiabile da santo.

(Lettera di suor Romilde Spinato a Mario Mazzoleni ‒ 6 aprile 1987)

Conclusione

Questo libretto per l’evento della beatificazione di padre Giuseppe Ambrosoli, nella sua Kalongo, si può concludere con una preghiera ritrovata tra le pagine del suo Breviario, e che sembra essergli stata molto cara. Essendo naturalmente una preghiera, ha la forma di un’umile e sincera richiesta, ma in realtà dietro ogni parola c’è il compimento di quello che padre Giuseppe è stato: non una sillaba in più, non una di meno.

«Signore, insegnami a servirti come meriti,

a dare senza calcoli,

a prodigarmi senza altra ricompensa

che la consapevolezza di fare la tua volontà.

Insegnami a non amare me stesso,

a non amare soltanto i miei,

a non amare soltanto quelli che amo già,

ma soprattutto quelli che nessuno ama.

Abbi pietà, o Signore,

di tutti i poveri del mondo,

non permettere che io viva felice da solo,

fammi sentire l’angoscia della miseria universale,

liberami da me stesso.Amen».[1]


[1] Archivio Comboniani Roma, D/450/37/14.

Lettera del Santo Padre Francesco ai Movimenti Popolari

Papa
Papa

Cari amici,

Ricordo spesso i nostri incontri: due in Vaticano e uno a Santa Cruz de La Sierra, e vi confesso che questa “memoria” mi fa bene, mi avvicina a voi, mi fa ripensare a tanti dialoghi durante quegli incontri e a tante speranze che sono nate e cresciute lì, delle quali molte sono diventate realtà. Ora, in mezzo a questa pandemia, vi ricordo di nuovo in modo speciale e desidero starvi vicino.

In questi giorni di tanta angoscia e difficoltà, molti si sono riferiti alla pandemia che stiamo subendo con metafore belliche. Se la lotta contro il covid è una guerra, voi siete un vero esercito invisibile che lotta nelle trincee più pericolose. Un esercizio che ha come unica arma la solidarietà, la speranza e il senso della comunità che rinverdisce in questi giorni in cui nessuno si salva da solo. Voi siete per me, come vi ho detto nei nostri incontri, veri poeti sociali, che dalle periferie dimenticate create soluzioni degne per i problemi più urgenti degli esclusi.

So che molte volte ciò non vi viene riconosciuto come dovuto, perché per questo sistema siete veramente invisibili. Alle periferie non giungono le soluzioni del mercato e scarseggia la presenza protettrice dello Stato. E neanche voi avete i mezzi per svolgere la vostra funzione. Venite guardati con diffidenza perché andate oltre la mera filantropia attraverso l’organizzazione comunitaria e rivendicate i vostri diritti, invece di restare rassegnati sperando di vedere cadere qualche briciola da quanti detengono il potere economico. Molte volte mandate giù rabbia e impotenza nel vedere le disuguaglianze che persistono, persino nei momenti in cui non ci sono più scuse per giustificare privilegi. Ma non richiudetevi nel lamento: rimboccatevi le maniche e continuate a lavorare per le vostre famiglie, per i vostri quartieri, per il bene comune. Questo vostro atteggiamento mi aiuta, m’interroga e m’insegna molto.

Penso alle persone, soprattutto alle donne, che moltiplicano il pane nelle mense comunitarie cucinando con due cipolle e un pacco di riso un delizioso stufato per centinaia di bambini, penso ai malati, penso agli anziani. Non appaiono mai nei media importanti. E neppure i contadini e piccoli agricoltori che continuano a coltivare la terra per produrre alimenti sani senza distruggere la natura, senza accumularli o speculare con i bisogni del popolo. Sappiate che il nostro Padre Celeste vi guarda, vi apprezza, vi riconosce e vi rafforza nella vostra opzione.

Quant’è difficile rimanere in casa per chi vive in un piccolo alloggio precario o per chi addirittura non ha un tetto. Quant’è difficile per i migranti, le persone private della libertà e per quanti stanno seguendo un percorso di recupero da dipendenze. Voi siete lì, state loro accanto fisicamente, per rendere le cose meno difficili, meno dolorose. Mi congratulo con voi e vi ringrazio di cuore. Spero che i governi capiscano che i paradigmi tecnocratici (siano essi statocentrici o mercatocentrici) non sono sufficienti ad affrontare questa crisi e neppure gli altri grandi problemi dell’umanità. Oggi più che mai, sono le persone, le comunità, i popoli a dover stare al centro, uniti per curare, assistere, condividere.

So che siete stati esclusi dai benefici della globalizzazione. Non godete di quei piaceri superficiali che anestetizzano tante coscienze. Ciononostante ne dovete subire sempre i danni. I mali che affliggono tutti, vi colpiscono doppiamente. Molti di voi vivono alla giornata, senza alcun tipo di tutela legale a proteggervi. I venditori ambulanti, i riciclatori, i giostrai, i piccoli agricoltori, gli operai, i sarti, quanti svolgono attività di assistenza. Voi, lavoratori informali, indipendenti o dell’economia popolare, non avete un salario stabile per far fronte a questo momento… E le quarantene sono per voi insostenibili. Forse è giunto il momento di pensare a un salario universale che riconosca e dia dignità ai nobili e insostituibili lavori che svolgete; capace di garantire e trasformare in realtà questa parola d’ordine tanto umana e tanto cristiana: nessun lavoratore senza diritti.

Vorrei anche invitarvi a pensare al “poi”, perché questa tormenta finirà e le sue gravi conseguenze già si sentono. Non siete degli sprovveduti, avete la cultura, la metodologia, ma soprattutto la saggezza che s’impasta con il lievito di sentire il dolore dell’altro come proprio. Pensiamo al progetto di sviluppo umano a cui aneliamo, incentrato sul protagonismo dei Popoli in tutta la loro diversità e sull’accesso universale a quelle tre T che voi difendete: tierra, techo y trabajo, terra, tetto e lavoro. Spero che questo momento di pericolo ci stacchi dal pilota automatico, scuota le nostre coscienze addormentate e permetta una conversione umanista ed ecologica che metta fine all’idolatria del denaro e ponga al centro la dignità e la vita. La nostra civiltà, tanto competitiva e individualista, con i suoi ritmi frenetici di produzione e di consumo, i suoi lussi eccessivi e i guadagni smisurati per pochi, ha bisogno di rallentare, di ripensarsi, di rigenerarsi. Voi siete costruttori indispensabili di questo cambiamento improrogabile; in più possedete una voce autorevole per testimoniare che ciò è possibile. Conoscete crisi e privazioni… che con pudore, dignità, impegno, sforzo e solidarietà riuscite a trasformare in promessa di vita per le vostre famiglie e le vostre comunità.

Continuate la vostra lotta e prendetevi cura gli uni degli altri come fratelli. Prego per voi, prego con voi e chiedo a Dio Padre di benedirvi, di colmarvi del suo amore e di difendervi lungo il cammino, dandovi quella forza che ci tiene in piedi e non delude: la speranza. Per favore, pregate per me perché anch’io ne ho bisogno.

Fraternamente,

Francesco
 

Città del Vaticano, 12 aprile 2020, Domenica di Pasqua



*L’Osservatore Romano
, ed. quotidiana, Anno CLX, n.85, 14-15/04/2020

Due notizie sulla Beatificazione di P. Giuseppe Ambrosoli

Giuseppe Ambrosoli
Giuseppe Ambrosoli

PRIMA NOTIZIA

Il 22 novembre in Uganda, la beatificazione di Giuseppe Ambrosoli,
missionario, medico e «martire»

La Beatificazione di P. Giuseppe Ambrosoli mette in evidenza un testimone della missione tra gli acholi in Uganda, dove ha trascorso i 31 anni del suo servizio missionario. Per noi comboniani un tale evento ci riempie di gioia e allo stesso tempo di responsabilità. La Beatificazione si terrà in terra d’Uganda, Kalongo, il 22 novembre 2020, Solennità di Cristo Re dell’Universo.

Dopo aver sentito il parere del Padre Generale e suo Consiglio; consultato la Chiesa locale di Gulu attraverso il suo Arcivescovo, Mons. John Baptist Odama; la Chiesa locale di Como nella persona del suo Vescovo, Mons. Oscar Cantoni, e anche il parere della famiglia Ambrosoli c’è stato un parere unanime che la Beatificazione avvenga a Kalongo dove P. Giuseppe ha svolto in pienezza e totalmente il suo servizio missionario. La data più significativa è sembrata il 22 novembre, Solennità di Cristo Re dell’Universo. Ora, trattandosi di un atto pontificio, doveva essere consultato il prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, Card. Giovanni Angelo Becciu, il quale ha convintamente espresso la volontà di presiedere la cerimonia della Beatificazione, proprio per il significato missionario che essa riveste. Naturalmente tutto dovrà essere sottoposto all’approvazione della Santa Sede, la quale si esprimerà con un decreto ufficiale.

La Beatificazione di P. Giuseppe Ambrosoli mette in evidenza un testimone della missione che più volte ha espresso il desiderio di essere sepolto tra i suoi acholi, dove ha trascorso i 31 anni del suo servizio missionario. Per noi comboniani un tale evento ci riempie di gioia e allo stesso tempo di responsabilità. Anzitutto il luogo dove avverrà l’evento, Kalongo (Nord Uganda) che faceva parte del Vicariato Apostolico dell’Africa Centrale di cui il Comboni fu il primo Vicario Apostolico e inoltre il luogo dove P. Giuseppe Ambrosoli ha espresso il meglio di sé nell’opera dell’ospedale e nella scuola per Ostetriche.

Una continuità significativa dunque dal punto di vista materiale, l’Uganda, estremo lembo del Vicariato dove il Comboni ha invano sognato di arrivare e che ora invece si realizza, attraverso P. Giuseppe, quale primo figlio dell’Istituto a essere beatificato. Significato ancora più pregnante dal punto di vista spirituale, e per una duplice ragione: perché anche P. Ambrosoli, come il nostro santo Fondatore che l’ha preceduto, entra a far parte di quel fondamento nascosto su cui si erge maestosa la Chiesa africana e poi perché riceve ulteriore conferma il metodo inciso indelebilmente nel «Piano»: “Salvare l’Africa con l’Africa”! Molti dunque sono i motivi per ringraziare e continuare con novello slancio missionario per il bene della Chiesa e della società.

SECONDA NOTIZIA

Beatificazione di padre Giuseppe Ambrosoli a Kalongo

Forse può sembrare un annuncio estemporaneo e fuori luogo perché ben altre sono le preoccupazioni del momento. Tuttavia proprio per quello che padre Ambrosoli ha rappresentato in campo sanitario: per le conoscenze e la competenza con cui ha operato e per l’afflato spirituale con cui ha affrontato emergenze e malattie, capiamo quanto la sua figura sia attuale e la sua intercessione necessaria. La beatificazione si farà, sempre coronavirus permettendo, a Kalongo il 22 novembre 2020. Il luogo è altamente significativo: padre Giuseppe, sepolto tra i “suoi”, tra i “suoi” sarà anche glorificato.

Ci sarà la Beatificazione di padre Ambrosoli in Uganda? La domanda ha un senso perché, tenendo presente la situazione di pandemia globale che ha colpito il pianeta, la risposta non può che essere interlocutoria. Si, si terrà a Kalongo il 22 novembre 2020, sempre che il COVID-19 lo permetta. Allo stato dei fatti abbiamo i seguenti documenti a supporto di tale affermazione. La richiesta ufficiale della Postulazione del 28 gennaio 2020 in cui si presenta al Santo Padre la disponibilità del Card. Giovanni Angelo Becciu di recarsi a Kalongo il 22 novembre 2020 a rappresentarlo nella cerimonia di Beatificazione. Di seguito, dietro sollecitazione della Postulazione, la Segreteria di Stato inviava il 16 marzo u.s. una lettera alla Nunziatura di Kampala. In tale documento, per la verità datata 9 marzo 2020, si afferma che il Santo Padre ha deciso che il rito di Beatificazione si farà a Kalongo il 22 novembre 2020 e il suo rappresentante sarà il Card. Giovanni Angelo Becciu, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi. La lettera è confermata dalla Nunziatura che l’ha inviata all’arcivescovo di Gulu, Mons. John Babtist Odama, il 17 u.s.. In una E-mail del 23 marzo il Vicario Generale della Diocesi di Gulu, mons. Matthew Odong, conferma la recezione della lettera: «At this point, it is very clear that the rite of beatification of the Servant of God Father Doctor Giuseppe Ambrosoli will take place “SACRED HEART” KALONGO PARISH». Di fatto poi l’Arcivescovo il 21 e 22 marzo (sabato e domenica) si è recato a Kalongo ed ha annunciato pubblicamente in parrocchia luogo e data dell’evento. “The news has been received with great joy by our people here in the Archidiocese of Gulu». Nel frattempo si sono tenute alcune riunioni con il Consiglio Generale e i provinciali d’Uganda e d’Italia per coinvolgere le rispettive province, compatibilmente ai movimenti condizionati che la situazione del momento permette. A nessuno però sfugge il significato missionario di questa beatificazione che avviene in missione come ultima espressione della missionarietà: lo scambio di doni tra Chiese sorelle e quasi una identificazione in cui credibilmente un missionario, nel nostro caso il prossimo Beato Ambrosoli, è glorificato in mezzo ai “suoi” di Kalongo. Per adesso non cessiamo di invocarlo in un momento così preoccupante dell’umanità, lui che ha affrontato la malattia con illuminata determinazione, ma soprattutto con fede e carità soprannaturali.

IL LUNGO CAMMINO VERSO LA BEATIFICAZIONE

Il cammino della beatificazione di p. Giuseppe è iniziato nel 1999, dodici anni dopo la sua morte, ossia quasi subito dopo che il suo corpo è stato trasportato il 22 agosto 1994 da Lira a Kalongo. Esattamente come accadeva nei primi tempi della Chiesa: ci si è potuti muovere perché la fama di santità e l’ammirazione per p. Giuseppe, il grande dottore dal cuore buono e dalle mani abilissime, ma soprattutto perché l’uomo di Dio, che curava nel corpo e nello spirito, era ancora molto presente nella memoria della gente. La gente del tempo, sia a Kalongo, come a Ronago non aveva dubbi sulla qualità spirituale che p. Giuseppe aveva trasmesso con la sua cura dei sofferenti e l’attenzione riservata alle mamme che dovevano partorire. Padre Giuseppe tutelava sì la vita dei corpi, fin dal loro nascere, ma soprattutto arrivava a guarire l’intimo delle persone.

Così il comboniano, p. Mario Marchetti, poteva sollecitare il vescovo di Gulu, Mons. Martino Luluga, a costituire una Commissione d’investigazione. In seguito, l’Arcivescovo di Gulu che gli era succeduto, Mons. John Baptist Odama, iniziava il processo il 22 agosto 1999 e lo concludeva il 4 febbraio 2001 sul piazzale antistante la chiesa parrocchiale di Kalongo. Allo stesso tempo il vescovo di Como, Mons. Alessandro Maggiolini, il 7 novembre 1999 ascoltava i testimoni che si trovavano a Ronago, e in genere in Italia, chiudendo il processo il 30 giugno 2001.

A quella data si erano potute condurre a termine le sessioni ed ascoltare tutti i 90 testimoni che avevano conosciuto p. Giuseppe. Tra questi 62 laici, 18 missionari e preti diocesani, 10 suore. Tra i laici da notare la folta schiera dei testimoni di Kalongo, di Ronago, paese natale di p. Giuseppe e anche dei 12 medici che con lui avevano operato nell’ospedale della savana. Insomma un’ampia rappresentatività della società civile e religiosa: catechisti, insegnanti, responsabili di comunità, operai, infermieri e infermiere, un capo di polizia e anche un generale, che per un brevissimo tempo era stato Presidente dell’Uganda dopo il secondo Obote. «Per noi – ebbe a dire – la morte del dottor Ambrosoli è come il crollo di un ponte. Ci vorranno molti anni per rimpiazzarlo».

Dai documenti e dalle testimonianze emergeva chiara la vita santa di p. Giuseppe. Riportiamo qui alcune affermazioni significative. All’apertura del Processo, il 22 agosto 1999, Mons. Odama, in una lettera ai vescovi della Provincia Ecclesiastica di Gulu e ai membri della Conferenza Episcopale Ugandese descriveva la figura del Servo di Dio come segue:

«Esempio di eroica carità e di umile servizio alle persone; un grande esempio di zelante missionario dei tempi moderni; modello di prete e di dottore divenuto famoso per la sua intensa spiritualità e per la coscienziosa abilità medica; un attraente e convincente esempio di giovane moderno che ha risposto totalmente alla chiamata di Cristo e alla sua forma di vita». «Dal suo modo di accogliere le persone, di intrattenersi con loro, di consigliarle e di incoraggiarle – depone John Ogaba– si aveva l’impressione di trovarsi davanti a Gesù». Il dottore Luciano Tacconi, che ha lavorato con lui a Kalongo, non ha paura di affermare:«Per me il segreto della “santità” di p. Giuseppe sta nella sua grande semplicità e nell’attaccamento massimo al dovere. Gli altri medici rispettavano e ammiravano molto la professionalità di p. Giuseppe, il quale insisteva anche con me perché, senza fare delle prediche, dessimo il buon esempio come cristiani con l’attaccamento al lavoro e nel rispetto della dignità delle persone»: Allora prezioso è quanto Mons. Gianvittorio Tajana afferma al processo: «Secondo la mentalità, oggi vigente nella Chiesa, se l’Ambrosoli sarà proclamato santo, sarà il santo della vita ordinaria». Certamente non una vita scialba, ma una vita ordinaria, di ogni giorno, in cui ha fatto costantemente delle cose straordinarie. E non può essere che così quando si incontra uno come p. Giuseppe, come lo ricorda in un sermone Mons. Alessandro Maggiolini, vescovo di Como:«Padre Ambrosoli ha dato volto al Vangelo con la sua vita messa radicalmente al servizio di Cristo, dell’evangelizzazione e degli ultimi»

Il materiale raccolto a Gulu e a Como, sia testimonianze che documenti, giungeva a Roma in Congregazione delle Cause dei Santi nel mese di giugno dell’anno 2001 e il 7 maggio 2004 gli si riconosceva la validità giuridica per ricostruire la vita terrena e provare la santità della persona e dell’opera di p. Giuseppe. Dal 2004 al 2014 ci sono voluti poi complessivamente 10 anni di lavoro che hanno coinvolto il Postulatore della Causa, la Congregazione vaticana, ossia i Teologi, i Cardinali e i Vescovi prima del giudizio definitivo di Papa Francesco, l’unico che poteva decretare le virtù eroiche.

Quindi nel 2009 il Postulatore della Causa faceva stampare la Positio, la quale era consegnata ai Consultori Teologi che nel Congresso Peculiare del 4 dicembre 2014 si esprimevano favorevolmente: 9 su 9. Uno di essi afferma:

«La figura di Giuseppe Ambrosoli gode, e per molti aspetti, di una sua attualità specifica. È stato un religioso, comboniano che si è impegnato a vivere i consigli evangelici e la vocazione missionaria in una professione specifica di stile “laicale”, come è quella del medico chirurgo. L’impegno scrupoloso nell’attività professionale nulla ha rubato alla sua vita di preghiera e alle esigenze della comunità: l’Eucaristia, celebrata e adorata, è sempre stato il centro della sua giornata. Può essere perciò valido modello per i comboniani suoi confratelli, come per ogni religioso e religiosa di vita attiva, ed anche per i membri degli Istituti di vita consacrata. Come medico chirurgo ha molto da dire con il suo esempio ai medici e operatori sanitari, ed è anche motivo di speranza per volontari impegnati in organizzazioni sanitarie, spesso “no profit” e di volontari che soccorrono infermi di malattie spesso contagiose e mortali».

I Padri Cardinali e Vescovi nella Sessione Ordinaria del 15 dicembre 2015, presieduta dal Card. Angelo Amato, riconoscevano che il Servo di Dio aveva esercitato in grado eroico le virtù teologali (fede, speranza e carità), le virtù cardinali (prudenza, giustizia, temperanza e fortezza) e quelle annesse (voti di castità, povertà e obbedienza e l’umiltà). Il Cardinale poi riferiva tutto a Papa Francesco il quale, due giorni dopo il 17 dicembre, sempre del 2015, confermava l’eroicità delle virtù e scriveva un decreto con cui riconosceva al Servo di Dio, Giuseppe Ambrosoli, il nuovo titolo di Venerabile con cui poteva venir invocato.

Secondo Papa Francesco la santità di p. Giuseppe poteva essere sintetizzata da due frasi che si leggono in due sue lettere: «Le persone devono sentire l’influsso di Gesù che porto con me; devono sentire che in me c’è una vita soprannaturale espansiva ed irradiantesi per sua natura» infatti « Dio è amore. Io sono il suo servo per quelli che soffrono». Si trattava di una motivazione spirituale che dalla gioventù fino alla morte aveva percorso tutta la sua vita e illuminato la sua riconosciuta professione medica. In fondo questa motivazione spirituale risponde a una domanda che nasce di fronte alla vita missionaria del padre: «Come è stato possibile che un uomo sia riuscito a fare tutto quello che ha fatto e come l’ha fatto, con fedeltà, semplicità, serenità, dono totale di se stesso e gioia fino agli ultimi e drammatici giorni della sua vita?». La risposta andava e va cercata – sembra dire il Papa – nella sua profonda vita spirituale. Padre Giuseppe Ambrosoli è stato una persona che ha vissuto la vita cristiana di ogni giorno in maniera straordinaria, cioè una vita NORMALE assolutamente FUORI DAL NORMALE. Ha esercitato il servizio medico, non semplicemente come conseguenza della sua fede e del suo amore, ma come parte integrante del Vangelo che predicava. Con lui anche il servizio medico era parte imprescindibile dell’evangelizzazione. Ci si poteva arrestare qui. E invece, no.

Per la beatificazione mancava un ultimo gradino: il miracolo. Il sigillo che la Chiesa affida a Dio per proporre il suo servo come intercessore ed esempio per il suo Istituto e per la Chiesa locale, che l’ha visto nascere, e poi quella che l’ha accolto nello svolgimento della sua missione, l’ha visto morire e ne ha conservato il suo corpo e la memoria.

Di guarigioni e cure straordinarie p. Giuseppe ne aveva ottenute già in vita, ma tra tutte brillava una avvenuta nel 2008 all’ospedale di Matany, all’estremo nord est del Nord Uganda, in Karamoja. Si trattava di una mamma karimojong di 20 anni, Lucia Lomokol di Iriir, madre già di un bambino e arrivata in condizioni disperate all’ospedale per un altro già morto in grembo che le aveva causato un’infezione mortale. Tant’è che uno dei medici, il dott. Erik Domini, responsabile del reparto Maternità, il 25 ottobre 2008 al momento dell’accettazione tentava un’ultima disperata operazione ma senza risultato. Poi per il progressivo peggioramento la faceva trasferire dalla corsia generale alla sala travaglio perché pensava che non era conveniente per le altre pazienti (mamme in attesa di parto e allattanti) essere testimoni della morte di una giovane mamma. e perciò la faceva trasferire nella sala travaglio. Alla sera dello stesso giorno il dott. Erik, constatando un continuo peggioramento, faceva chiamare il parroco di Matany, p. Marco Canovi, il quale amministrava l’unzione degli infermi a Lucia. Riportando a casa p. Marco, il dott. Erik si ricordava di un santino di p. Giuseppe con apposita preghiera che conservava nel suo appartamento e ritornava in ospedale accanto a Lucia munito di quello che lui considerava essere stata un’ispirazione inattesa. Dopo aver ricevuto l’assenso della stessa Lucia, di sua madre e di suo marito collocava il santino sulla spalliera del letto della moribonda e radunava le infermiere per l’invocazione. Terminato tutto verso mezzanotte si accomiatava da loro chiedendo di essere avvisato la mattina seguente per il funerale di Lucia. Alle cinque del mattino si presentava e, con sua grande sorpresa, trovava Lucia completamente cosciente e presente a se stessa. Tutti i presenti attribuivano l’improvvisa cura all’invocazione di P. Giuseppe.

Il vescovo di Moroto, Mons. Henry Apaloryamam Ssentongo a cui apparteneva la parrocchia di Matany, venuto a conoscenza del fatto, ha voluto che con un processo si raccogliesse tutta la documentazione per sottoporla allo studio delle Cause dei Santi: questa avrebbe detto se si trattava di un evento inspiegabile scientificamente e se c’erano le condizioni da poter attribuire la guarigione alla potenza divina. Così il 17 settembre 2010 iniziava il processo sul presunto miracolo, riunendo anzitutto i testimoni presenti al fatto: il dott. Erik Domini, ostetrico ginecologo, medico curante; il dott. Alphonse Ayepa, medico anestesista; il sig. Daniel Irusi, infermiere; la sig.ra Betty Agan, ostetrica professionale; la sig. ra sanata, Lucia Lomokol, contadina e casalinga; il sig. Akol Lobokokume, membro dell’esercito e marito di Lucia; la sig.ra Sabina Kodet, la mamma della sanata; la sig.ra Mary Annunciata Longole, ostetrica; la sig.ra Lilian Adwar, assistente infermiera; la sig.ra Fotunate Magdalene Alany, ostetrica e p. Marco Canovi, parroco di Matany. In più erano chiamati di dovere, un medico specialista anestesiologo, il dott. Bruno Turchetta e i due periti che dovevano esaminare lo stato reale di Lucia, i dottori: John Bosco Nsubuga e Leo Odong. Raccolta poi anche tutta la documentazione clinica il processo si concludeva a Moroto quasi un anno dopo, il 21 giugno 2011. Portati tutti i documenti a Roma, la Congregazione delle Cause dei Santi un anno dopo, l’11 maggio 2012, riconosceva validità giuridica a tutta la documentazione. Tuttavia si dovevano aspettare ancora 6 anni, dal 2012 fino al 2018, perché il caso di Lucia potesse essere esaminato.

La situazione Ambrosoli si sbloccava il 28 novembre 2018 con la Consulta Medica costituita da 7 professori che riconoscevano, per maggioranza qualificata (5/2), il fatto della cura da shock settico (setticemia irreversibile) che si era risolta in maniera assolutamente inaspettata, rapida, completa, duratura e inspiegabile alla luce delle attuali conoscenze mediche. Cioè Lucia si trovava curata in maniera inspiegabile scientificamente, sia perché la terapia chirurgica effettuata era stata incompleta non essendo stato asportato l’utero, primaria causa e focolaio di infezione, sia perché era stato sospeso il farmaco considerato salvavita, la dopamina, non essendocene più in ospedale. Nel loro linguaggio specialistico i professori avevano fatto scrivere: «Shock settico secondario da corioamnionite purulenta putrefattiva ((taglio cesareo ed estrazione del feto morto e putrefatto). Tromboflebite pelvica e tromboflebite profonda della grande safena dell’arto inferiore sn. con dermatite gangrenosa della metà inferiore della gamba”. Questo era il passaggio decisivo che permetteva di procedere oltre.

Ora bisognava dimostrare che l’invocazione era avvenuta nel momento del peggioramento fatale dello stato di Lucia; che in quel momento si era invocato p. Giuseppe Ambrosoli e che dopo tale invocazione si era verificato un cambiamento repentino positivo. C’erano 10 testimoni oculari a testimoniare che per iniziativa del dott. Erik Domini era stato invocato p. Ambrosoli e altrettanti che avevano assistito quella notte al viraggio dello stato di salute di Lucia. Chi conosce la materia può ragionevolmente affermare che da mezzanotte alle cinque, come è il nostro caso, un tale cambiamento può essere definito rapido. Infatti 7 mesi dopo l’inspiegabilità della cura, affermata dai medici, il 13 giugno 2019 il Congresso Peculiare dei Consultori teologi ha potuto appurare l’evento della preghiera rivolta a p. Ambrosoli e il miglioramento repentino dello stato di salute di Lucia Lomokol.

Con questi dati, cinque mesi dopo, il 19 novembre 2019 i Cardinali e i Vescovi nella loroSessione Ordinariapresieduta dal Card. Giovanni Angelo Becciu decidevano di portare il caso al Santo Padre. Questi, 9 giorni dopo, il 28 novembre 2019 riconosceva il carattere soprannaturale della cura di Lucia, quindi il miracolo e comandava di preparare un Decreto con valore giuridico e da inserire negli Atti della Congregazione dei Santi: Ecco le testuali parole:

«Constare de miraculo a Deo patrato per intercessionem Ven. Servi Dei Iosephi Ambrosoli, Sacerdotis professi Missionariorum Combonianorum Cordis Iesu, videlicet de celeri, perfecta ac constanti sanatione cuiusdam mulieris a (Si tratta di un miracolo compiuto da Dio per intercessione del Venerabile Servo di Dio Giuseppe Ambrosoli, sacerdote professo dei Missionari Comboniani del Cuore di Gesù, vale a dire di una cura  rapida, perfetta e duratura di una signora) da Shock settico secondario da corioamnionite purulenta putrefattiva. Tromboflebite pelvica e tromboflebite profonda della grande safena dell’arto inferiore sn. con dermatite gangrenosa della metà inferiore della gamba».

Se si sta bene attenti, in tutto questo lungo percorso fino alla Beatificazione, il Santo Padre si è lasciato guidare dalla presenza di due principi spirituali: l’eroicità delle virtù e la preghiera di intercessione. Ora l’evento del miracolo e della beatificazione possono porre due domande: perché questa grazia a una karimojong e a una mamma e perché l’evento della celebrazione proprio a Kalongo? Secondo logiche umane tutto avrebbe dovuto sconsigliare tale coincidenza: spesso tra etnie diverse non corre buon sangue e la condizione femminile è l’anello più sottoposto a sfruttamento nella società e inoltre Kalongo è un luogo al di fuori dei circuiti che contano. Eppure è proprio qui che la maniera di vivere la missione di p. Giuseppe Ambrosoli ha dato esempi che non potranno mai più essere dimenticati: qui ha accolto e difeso sempre tutti; qui si è messo a servizio della vita nascente e qui ha esercitato la sua straordinaria professionalità medica nella semplicità e nell’umiltà.

L’evento della Beatificazione di p. Giuseppe Ambrosoli non potrà dunque essere vissuto, nell’oggi della vita cristiana, che come evento di fede, di comunione e di gioia.