Laici Missionari Comboniani

XVIII Capitolo Generale dei Missionari Comboniani

Capitulo MCCJ

E’ iniziato ufficialmente, con la messa di inaugurazione, il XVIII Capitolo Generale dei Missionari Comboniani.

I membri del Capitolo hanno avuto tempo una settimana per prepararsi al capitolo.

Il Capito terminerà il prossimo 4 ottobre. Durante questo periodo, restiamo in preghiera per il buon progresso dell’incontro, il bene della Famiglia comboniana e della missione alla quale siamo chiamati.

Per avere informazioni sul Capitolo, Vi invitiamo a visitare il sito ufficiale dell’istituto maschile dei religiosi “www.comboni.org“, dove oltre alle notizie di tutti i giorni, troverete una serie di video denominati “Voci del Capitolo” dove i partecipanti al capitolo illustrano alcuni fra gli argomenti importanti trattati e lo svolgimento delle sessioni e degli incontri.

Restiamo uniti nella preghiera.

Capitulo MCCJ

Incontro Missionario LMC in Messico – Marzo 2015

MéxicoPer grazia di Dio si è tenuta la riunione mensile degli LMC in Messico, un grande raduno, pieno di gioia, arricchito con canti e preghiere. Abbiamo recitato le preghiere delle Ore, pregato le Lodi e partecipato all’Eucaristia .

Obiettivo era la preparazione del  gruppo che partecipa al campo di missione nella settimana di Pasqua a Guerrero, dove sono presenti MCCJ e gli LMC,  Carolina Carreon e Minerva Juarez della comunità di San Juan Huexoapa. Questa missione si trova nella diocesi di Tlapa a Guerrero, nella parrocchia di Metlatónoc. Padre Gabriele ha fatto presente che il missionario deve essere disponibiie ed aperto nella preparazione, mentre Eric ci ha parlato dei costumi e delle tradizioni del popolo na saavi, Manuelita ci ha raccontato la storia della nostra  missione permanente lì, e Ramon ha condiviso con noi la sua prima esperienza nel campo di missione..

MéxicoCon grande entusiasmo, andiamo avanti invitando tutti coloro che possiedono il desiderio di essere parte di questo progetto di Laici Missionari Comboniani. Continuando con l’ ideale di san Daniele Comboni.

Mille vite per la missione.

LMC del Messico

Libero per ascoltare e per parlare

Commentario a Mc 7, 31-37 (Domenica XXIII T.O., 6 settembre 2015)

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Nella lettura di oggi, Marco presenta a Gesù in territorio “pagano”, in una regione dove abitavano persone che non praticavano la religione ebrea, quella di Gesù stesso. Ma, aldilà delle differenze religiose o culturali tra gli abitanti della Decapoli e quelli di Nazareth o Gerusalemme, davanti a Gesù c’è un uomo concreto, con un problema “umano”, che lo è tanto per credenti come per i non credenti, ricchi e poveri, colti e analfabeta: quell’uomo è sordomuto, una condizione fondamentale della sua umanità.

Sembra evidente che, in questo brano,  Marco vuole mostrarci, davanti a questo caso concreto di umanità bisognosa, qual è la missione di Gesù.

Lui usa il potere-amore di Dio (simbolizzato nel’imposizione delle mani) per liberare al’essere umano, non solo dalla sua sordità fisica, ma, soprattutto, da quella più profonda, quella sua incapacità di ascoltare Dio e gli altri, perché racchiuso in se stesso, nella sua auto-referenzialità. Da quella sordità procede la sua incapacità di comunicarsi autenticamente, veritieramente con gli altri.

Quando io ero un giovane prete, ho conosciuto un ragazzo di dieci anni a chi tutti consideravano sordomuto, finché una giovane religiosa cominciò a prestarli molta attenzione, a seguirlo da vicino, a mostrarli un amore concreto, sincero, gratuito e costante. Dopo un po’ di tempo, capì che aveva un problema fisico all’udito e lo portò dai dottori. Risolto quel problema (che prima tutti avevano trascurato), il bambino cominciò a sentire le parole e a ripeterle, imparando ad ascoltare e a parlare. Io sono rimasto colpito di vedere il grande potere dell’amore, capace di scattare impensati processi di liberazione.

Certo, non sempre succede così, anzi nella maggior parte dei casi, la persona deve tenersi quel suo problema e imparare a superarlo in altre maniere. Ma, come nel Vangelo, il tema qui non è tanto la sordità fisica quanto un tipo più profondo d’incomunicazione: quella che ci porta a chiudere i canali di comunicazione  e di amore con i membri della nostra famiglia, con i fratelli della mia comunità, con le persone di un’altra cultura, d’idee politiche differenti, di altre religioni….

Sovente noi diventiamo “sordi” e “muti” nel cuore della nostra personalità: Ci rifiutiamo di ascoltare quello che gli altro hanno da dirci… e per la stessa ragione noi rimaniamo senza una parola “rilevante” da dire: una parola sincera, autentica, rilevante, liberatrice. Tutti ricordiamo il passaggio di Emmaus, dove Gesù si avvicina ai discepoli, cammina con loro e li ascolta; solo dopo dice parole illuminanti.

A volte sembra che le stesse comunità ecclesiali sono diventate sorde a mute: non ascoltano i gridi dell’umanità (migranti, rifugiati, giovani, coppie rotte, donne…), né ai profeti del nostro tempo che ci aprono cammini di libertà e solidarietà. Questa “sordità”  ci fa diventare “muti”, incapaci di dire parole rilevanti, che costruiscano una nuova umanità.

Una Chiesa missionaria è una Chiesa che ascolta, libera dalla sordità dell’orgoglio e dall’arroganza. Soltanto così può diventare veramente liberatrice, annunziatrice di buone nuove.

Nell’Eucaristia Gesù “tocca” il nostro corpo. Chiediamoli di guarire la nostra sordità e liberi la nostra lingua perché possiamo essere suoi missionari, guariti a guaritori, in cammino verso la comunione con il Padre.

P. Antonio Villarino

Roma

Quello che importa è il cuore

Un commentario a Mc 7, 1-8.14-15.21-23 (Domenica XXII T.O. 30 agosto 2015)

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Dopo cinque domeniche a leggere il capitolo sesto di Giovanni (Su Gesù Pane di Vita), torniamo adesso alla lettura continuata di Marco, a chi abbiamo lasciato in Galilea, pregando sul monte, camminando sul lago, guarendo malati… annunciando il Regno di Dio, fatto di vicinanza, misericordia e verità.
Nella lettura di oggi vediamo Gesù in chiaro confronto con un gruppo di persone- farisei a scribi- che confondevano le norme e le tradizioni umane (anche religiose con il vero culto a Dio. Non si tratta di un tema nuovo, poiché i profeti d’Israele avevano già fatto questo richiamo agli ebrei. Di fatto, Gesù cita un testo di Isaia che è chiaro e contundente come una spada che penetra nel’ipocrisia e la falsità religiosa.

“Questo popolo mi onora con le labbra,
ma il suo cuore è lontano da me.
Invano essi mi rendono culto,
insegnano dottrine che sono precetti umani”. (Is 29, 13).

E Gesù insiste:
“Non c’è nulla fuori dell’uomo
Che possa contaminarlo,
ma quello che viene di dentro”.

Non si tratta de disprezzare le norme e le leggi umane (civili e religiose), che tante volte sono buone, utili e necessarie. Gesù. In genere, se è mostrato rispettoso e obbediente alle leggi del suo paese e della sua comunità. Ma non dobbiamo confondere le buone leggi, tradizioni e formalità umane con il “vero culto a Dio”, specialmente, quando dietro si nasconde un cuore contorto, superbo e inaffidabile.

Il culto, dice Gesù, è vero quando procede da un cuore retto, veritiero e misericordioso. L’albero non da migliori frutti perché si pitturano le foglie, ma per il tipo di terra in cui approfondiscono le sue radici. Allo stesso modo, non si cambia l’atteggiamento di una persona con dei riti esterni, ma con la Parola di Dio accolta in un cuore aperto, sincero e retto. Così è il cuore di Gesù con cui ci identifichiamo ogni volta che facciamo la comunione. Da questo cuore nascono sempre nuovi frutti: buone opere, nuove tradizioni, nuove forme di culto… Dove c’è vita sorge vita.

Concedimi, Signore, un cuore sincero, sensibile e aperto al tuo Spirito, che costantemente fa tutto nuovo.

P. Antonio Villarino
Roma

La grande crisi: lo scandalo della debolezza

Commentario a Gv 6, 60-69: Domenica XXI T.O., 23 agosto 2015

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Leggiamo oggi l’ultima parte del capitolo sesto di Giovanni. Il Capitolo finisce con una grande crisi, che porta a molti discepoli ad abbandonare il gruppo di Gesù. Mi pare assai importante per noi riflettere su questo testo, perché tutti noi dobbiamo passare simili crisi prima che la nostra fede diventi soda, superando le prime simpatie superficiali o, come diceva un noto teologo protestante, la “grazia a buon mercato”. Da parte mia, offro due riflessioni:

1.-In ché cosa consiste lo scandalo di quei primi discepoli?
I discepoli accusano Gesù di dire “parole dure”. Durante molto tempo questa “durezza” è stata spiegata come la difficoltà di accettare l’espressione “mangiare la sua carne e bere il suo sangue”, nel suo senso più letterale. Ma, dopo le riflessioni che abbiamo fatte queste domeniche scorse, ormai è chiaro che le parole di Gesù devono essere capite nel contesto simbolico del Primo Testamento, con il quale gli ebrei erano molto famigliarizzati: In poche parole possiamo dire che “mangiare la carne” significa credere nella presenza divina nell’umanità di Gesù e “bere il sangue” significa accettare la realtà della croce.
Ma questo era precisamente il problema, il grande scandalo, la radice della crisi. Molti non potevano accettare l’immagine del Dio che Gesù rivelava. Per loro Dio era onnipotente, era padrone di tutto, trionfava sempre e doveva essere sempre temuto… E così doveva essere il suo Messia sulla terra. Invece Gesù si presentava come l’incarnazione di un Dio differente: Un dio che accoglie il peccatore, un Dio che preferisce la guarigione di un malato al rispetto rigido del sabato, un Dio che appare debole nell’ingiustizia della Croce, un Dio solidale dell’essere umano fino a condividere la sua mortalità…
Questo Dio, per molte buone persone religiose, era inaccettabile. Loro avevano ascoltato con entusiasmo le parole brillanti di Gesù, si erano commossi davanti al suo potere per guarire malati, condividevano il suo desiderio di una religione rinnovata… Ma adesso stava andando troppo lontano. Adesso li chiedeva di identificare Dio con l’umanità fragile e sofferente di Gesù. Adesso li chiedeva di lasciare indietro ogni ipocrisia e falsità e lasciare che Dio si facessi compagno della sua fragilità, per essere così radicalmente guariti nella radice del ceco orgoglio di Adamo.

2.- Qual è il nostro scandalo?
Anche noi passiamo per momenti di scandalo, legati fondamentalmente al nostro orgoglio. Al mio parere, non si tratta de difficoltà di tipo teorico o intellettuale a proposito di “misteri” che non cappiamo. Certamente, ci sono elementi delle verità rivelate, come della vita, che non cappiamo in certi momenti della nostra storia; certamente, dobbiamo trattare di capire sempre meglio la nostra fede in dialogo con la cultura del nostro tempo e con le nostre esperienze personali. Ma a me pare che il vero scandalo che ci impedisce di credere e accettare Gesù Cristo con radicalità sia la nostra propria fragilità (personale e sociale); ci scandalizza il peccato di tanti (dentro e fuori della Chiesa); ci scandalizza ancora di più il nostro proprio peccato e debolezza; ci scandalizza che Dio non agisca come un mago che risolve tutti i problemi; ci scandalizza un Gesù che non trionfa, che è povero e umile, che fallisce sulla croce e che, in queste circostanze, continua ad avere fiducia nel Padre; che si fa fratello e amico di peccatori e malati e muore come uno di loro…

E invece, questo è precisamente il grande dono, quello che, come dice Giovanni (nel capitolo primo) fa che quelli che credono diventino figli. Questa fede fa che la mia vita non sia una corsa per dimostrare che sono il migliore, che non sbaglio mai, che sono capace di trionfare sempre. Quest’ossessione mi porta a vivere nella falsità e nell’ipocrisia (nel regno del “padre della bugia”). Gesù, invece, non ha paura di essere fragile e di accettare la sua umanità mortale. Precisamente in questa sua accettazione Gesù agisce come FIGLIO, amato e capace di amare senza condizioni, liberamente. Credere questo, “mangiare questa carne” di Gesù, Figlio obbediente del Padre, è trovare la via dell’amore gratuito e libero del Figlio, capace di superare ogni ostacolo. Non credere, non “mangiare”, è vivere lontano dal padre, nella bugia di un Adamo che ha la falsa pretesa di essere “dio”.

Ognuno di noi, in certi momenti della vita, deve passare questa crisi e decidere di quale parte stare. Sono io come Adamo, qualcuno che pensa di essere “dio”, o come il figlio prodigo che si allontana dalla casa paterna nella falsa pretesa di una vita autonoma? Accetto me stesso, nella mia fragilità, e accetto la solidarietà di Gesù che scende nel Giordano della mia debolezza per uscirne con me come Figlio in comunione con il Padre?
Mangiare il pane della comunione è rinnovare ogni giorno la fede del Figlio che si fida dal Padre, non ostante lo scandalo dei propri peccati, dei peccati della Chiesa e del mondo.
P. Antonio Villarino
Roma