Le riflessioni che seguono vogliono essere semplici commenti al secondo obiettivo proposto da Papa Francesco nella sua Lettera Apostolica a tutti i religiosi in occasione dell’Anno della Vita Consacrata dello scorso novembre 2014, allo scopo di aiutarci a vivere come missionari comboniani il nostro tempo. “La passione per un ideale, nel nostro caso, la missione, è legata all’entusiasmo. La passione non si conquista una volta per sempre. È come una pianta che dobbiamo curare e nutrire ogni giorno. Per questo è necessario trarre profitto da iniziative come quella che ci propone il Papa nell’Anno della Vita Consacrata, per rivedere come stiamo vivendo la nostra consacrazione e qual è il nostro legame con il Vangelo, con l’Istituto e con la missione”, scrive P. Rogelio Bustos Juárez, mccj.
VIVERE IL PRESENTE CON PASSIONE
“Il passato che è memoria e il futuro che è immaginazione li evochiamo dal presente”.
(Sant’Agostino)
- La sequela di Cristo, come riferimento primario
Quando si parla di nascita dei carismi, la storia della vita religiosa ci insegna che la prima cosa da cui sono partiti i fondatori e le fondatrici è stato il Vangelo. Dalla lettura attenta della Buona Novella hanno conosciuto Gesù Cristo, hanno ricevuto la Parola e hanno scoperto come potevano seguirlo. Alcuni hanno posto attenzione al Gesù taumaturgo che curava gli infermi, altri al Gesù Maestro che, con autorità, insegnava cose nuove; noi siamo stati colpiti dal Gesù itinerante che deve annunciare il Vangelo a tutti i popoli, poiché per questo è stato inviato.
Sono nate da lì le regole o costituzioni come base teorica per rendere viva l’intuizione carismatica. Nelle Regole del 1971, il nostro Fondatore diceva: Di certo uno spirito umile che ami sinceramente la sua vocazione e voglia essere generoso con il suo Dio, le osserverà di cuore considerandole come il cammino tracciato dalla Provvidenza, ma è importante dire chiaramente che le Costituzioni, la Regola di Vita e le tradizioni di qualsiasi Istituto conserveranno il loro vigore solo se e quando continueranno ad ispirarsi ai valori evangelici.
Per questo il Papa scrive: “La domanda che siamo chiamati a rivolgerci in questo Anno è se e come ci lasciamo interpellare dal Vangelo; se esso è davvero il ‘vademecum’ per la vita di ogni giorno e per le scelte che siamo chiamati ad operare. Esso è esigente e domanda di essere vissuto con radicalità e sincerità. Non basta leggerlo (anche se lettura e studio rimangono di estrema importanza), non basta meditarlo (e lo facciamo con gioia ogni giorno). Gesù ci chiede di metterlo in pratica, di vivere le sue parole.
Non sono sicuro se, dopo aver concluso la nostra formazione di base, tutti abbiamo preso sul serio la nostra formazione permanente. Oggi si parla di società liquida e amore liquido (cfr. Z. Bauman) per alludere a quella rapidità con cui stanno cambiando il mondo, la società, la Chiesa e la vita religiosa.
Il Vangelo è la fonte che, con il suo dinamismo e la sua attualità, può indicarci sentieri sui quali indirizzare i nostri passi. In proposito, uno strumento utile può essere il terzo capitolo della Evangelii gaudium (n. 111-173) nella quale Papa Francesco ci invita a rivedere il modo in cui ci avviciniamo alla Parola e la annunciamo.
Ma non basta essere esperti di teologia biblica o buoni pastoralisti se non siamo capaci di mettere in pratica quello che annunciamo. Siamo invitati a rivedere il posto che la Parola occupa nella nostra vita; se essa è veramente quella guida sicura alla quale ricorriamo quotidianamente e che a poco a poco ci fa assomigliare al Maestro.
- Conformare la nostra vita al modello del Figlio
Se è Gesù Cristo che seguiamo, ci sarà di aiuto riflettere sulla seconda parte del nostro nome, “del Cuore di Gesù”, perché ci permetterà di approfondire la nostra identità. Quando nel 1885, attraverso Mons. Sogaro, la Santa Sede ci concesse di diventare Congregazione religiosa, fummo chiamati: Figli del Sacro Cuore di Gesù. Nel 1979 si giunse alla riunificazione e rinascemmo con il nome di Missionari Comboniani del Cuore di Gesù. È interessante il fatto che si mantenga il riferimento al Cuore di Gesù.
Papa Francesco nella sua lettera sostiene che se il Signore è il nostro primo e unico amore, potremo imparare da lui che cos’è l’amore e sapremo come amare perché avremo il suo stesso cuore, cioè ci identificheremo con Lui. È quanto hanno meditato e condiviso con noi alcuni Padri della Chiesa.
Sant’Ireneo di Lione, ad esempio, parla di “Gesù Cristo che, per la sovrabbondanza del suo amore, è diventato ciò che siamo noi per fare di noi ciò che Lui è” (Contro le eresie, Prefazione del libro V).
San Gregorio Nazianzeno sviluppa un altro aspetto: “Nella mia condizione terrena, sono legato alla vita di quaggiù, ma essendo anche una particella divina, porto in me questo desiderio della vita futura”.
L’uomo non è solo ordinato moralmente, regolato da un decreto sul divino, ma è del ghenos, della stirpe divina, come dice san Paolo, è “stirpe di Dio” (At 17,29).
Sant’Atanasio, nel Trattato sull’incarnazione del Verbo, sostiene che il Logos divino si è fatto carne, diventando come noi, per la nostra salvezza. E, con una frase giustamente divenuta celebre, scrive che il Verbo di Dio “si è fatto uomo perché noi arrivassimo ad essere Dio; si è reso visibile corporalmente perché avessimo un’idea del Padre invisibile, e sopportò la violenza degli uomini perché ereditassimo l’incorruttibilità” (54,3).
Il nostro Fondatore, san Daniele Comboni, facendo sua la spiritualità del suo tempo, seppe rispondere alle sfide della missione ispirandosi alla spiritualità del Sacro Cuore, ampliandone il significato, dandole un’impronta più sociale e missionaria.
Riassumendo, se quelli che hanno approvato il nostro nome hanno giudicato opportuno e necessario includervi il riferimento al Cuore di Gesù, è dunque necessario che ci identifichiamo sempre di più con i suoi sentimenti e li traduciamo in atteggiamenti. Seguiamo Gesù non in qualsiasi modo, ma sforzandoci di essere “cordiali” nel nostro modo di fare, di essere riflesso ed espressione dei sentimenti del Figlio di Dio. Tutto questo ha delle conseguenze nella vita personale e comunitaria. Al punto di farci diventare parabola esistenziale, segno della presenza di Dio stesso nel mondo (cfr. Vita Consecrata n. 22).
3. Fedeli alla missione affidataci
Il terzo punto ci invita a rivedere la nostra fedeltà al mandato che abbiamo ricevuto dai nostri fondatori. Un’intuizione carismatica è, allo stesso tempo, dono e responsabilità. Dono, perché non abbiamo fatto nulla per riceverlo tramite la persona e il lavoro dei nostri fondatori, che però è stato riconosciuto dalla Chiesa, per cui abbiamo la responsabilità di non travisarlo né alterarlo, ma di essere i continuatori di questo regalo che è stato posto nelle nostre mani.
E qui si potranno avere due letture: o aggrapparci al pensiero e all’opera del nostro Padre e Fondatore pretendendo, per fedeltà carismatica, di riprodurre sine glossa quello che lui ha fatto oppure agire in modo tale che tutto quello che facciamo non assomigli affatto a quanto suggerito o proposto dai nostri fondatori e ci muoviamo in totale libertà, interpretando le nuove sfide a nostro piacimento e scarabocchiando l’eredità che abbiamo ricevuto 150 anni fa.
Credo sia bene evitare questi due estremi. È necessario infatti raccogliere la fiaccola dalle mani di quanti ci hanno preceduto conservando la lucidità per scoprire come dobbiamo rispondere alle sfide del presente senza indebolire l’originalità carismatica. È stato questo, mi sembra, l’obiettivo della Ratio missionis e del lavoro di riqualificazione dei nostri impegni su cui l’Istituto ha insistito negli ultimi anni.
Papa Francesco ci esorta a domandarci, in questo Anno della Vita Consacrata, se i nostri ministeri, le nostre opere e presenze rispondono a quelli che lo Spirito Santo ha chiesto ai nostri fondatori. In poche parole, ci invita a vivere in un’attitudine di discernimento costante per non sbagliare e per essere così riflesso ed espressione di quel carisma ecclesiale che abbiamo ricevuto.
4. Diventare esperti di comunione
Stando così le cose e considerando il valore che ha per noi la vita fraterna, sarebbe opportuno che ci interrogassimo sulla qualità della nostra vita in comune. In proposito, il nostro Fondatore è stato molto chiaro nel descrivere le caratteristiche del suo Istituto: “Questo Istituto perciò diventa come un piccolo Cenacolo di Apostoli per l’Africa, un punto luminoso che manda fino al centro della Nigrizia altrettanti raggi quanto sono i zelanti e virtuosi Missionari che escono dal suo seno: e questi raggi che splendono insieme e riscaldano, necessariamente rivelano la natura del Centro da cui emanano” (Scritti 2648).
È interessante l’immagine che san Daniele utilizza: “cenacolo di apostoli”. Il cenacolo è la stanza del piano superiore, dove il Maestro affidò ai suoi discepoli ciò che portava nel cuore alla vigilia del più alto gesto di donazione. Lo stare insieme è quella realtà che ci trascende e ci avvicina a Dio quando viviamo in comunione con i fratelli. È anche spazio d’intimità, dove possiamo aprire il nostro cuore ai compagni di cammino e mostrarci così come siamo. Lì dove condividiamo ciò che siamo, scoprendo i nostri doni e limiti e quelli di quanti vivono con noi. Teologicamente, la Trinità è il nostro modello: tre persone distinte ma un solo Dio. Vivere assieme ci aiuta a condividere i nostri doni e ad accogliere la ricchezza di quanti vivono accanto a noi. Siamo diversi, ma coltiviamo e promuoviamo l’unità, attraverso il rispetto e la tolleranza. In un istituto internazionale come il nostro, la sfida è maggiore ma non impossibile.
Nell’immagine utilizzata si fa riferimento anche all’apostolicità. Da questo “cenacolo di apostoli” usciranno come “raggi” missionari solleciti e virtuosi per illuminare situazioni di oscurità: il Papa parla di scontro, di difficile convivenza fra culture diverse, di sopraffazione sui più deboli, di disuguaglianza e potremmo continuare con un elenco di situazioni che conosciamo e che ci siamo trovati davanti nel nostro servizio nelle diverse parti del mondo, dove lavoriamo. A tutte queste, siamo chiamati a portare una parola di speranza e d’incoraggiamento, illuminando le oscurità e condividendo un’esperienza di fraternità, frutto della comunione che abbiamo sperimentato. E non baseremo la forza e l’efficacia della nostra vocazione missionaria sulle risorse materiali che potremmo portare alla missione, ma sulla disponibilità a condividere l’esperienza autentica di Dio che abbiamo e sulla dose di umanità che possiamo trasmettere. La qualità della vita missionaria dipenderà dal tempo che siamo disposti a dedicare alle persone emarginate dalla società. Il nostro posto, come missionari – e questo ce lo riconoscono la maggior parte delle Chiese locali – è là dove ci sono tensioni e differenze, dove ci sono situazioni che sono contrarie alla condizione umana. È lì che dobbiamo portare la presenza dello Spirito, cercando di dare testimonianza di unità (Gv 17,21), come ci ricorda il Papa.
Tutto questo si traduce in uno stile proprio che deve essere di ascolto, di dialogo e di collaborazione con le persone con cui veniamo a contatto. Potremo anche essere persone dinamiche e capaci, ma se non sapremo lavorare in gruppo, difficilmente daremo testimonianza dell’amore trinitario sul quale si fonda la vita comunitaria. Le differenze non devono impedirci di dare testimonianza di unità davanti alla Chiesa e al mondo.
5. Appassionati al Regno
Un’ultima considerazione: seguire Gesù, desiderare di assomigliare al suo cuore, rimanere innamorati della missione ed essere costruttori – e non meri consumatori – di comunità, sarà possibile nella misura in cui manterremo sempre viva la passione per il Regno. Se guardiamo bene, molti di noi dimostrano una certa dose di irresponsabilità per il modo in cui amministriamo il tempo e i beni che arrivano nelle nostre mani. Se perdiamo il contatto con le persone, sarà difficile immaginare le mancanze che vive la maggior parte della nostra gente. Nella Lettera, citando Giovanni Paolo II, Papa Francesco afferma: “La stessa generosità e abnegazione che spinsero i Fondatori devono muovere voi, loro figli spirituali, a mantenere vivi i carismi che, con la stessa forza dello Spirito che li ha suscitati, continuano ad arricchirsi e ad adattarsi, senza perdere il loro carattere genuino, per porsi al servizio della Chiesa e portare a pienezza l’instaurazione del suo Regno”.
Perché alcuni dei nostri candidati perdono l’entusiasmo iniziale quando poi fanno parte dell’Istituto? Perché per molti di noi è così facile smettere di essere comboniani, quando compaiono difficoltà o disaccordi? Perché ci è sempre più difficile obbedire e rispondere alle sfide che ci si presentano? Perché è diminuita la nostra passione per il Vangelo e per tutto quello che riguarda la missione? Perché tanti vivono da pensionati prima del tempo? Non sarà forse perché abbiamo trascurato alcuni riferimenti fondamentali legati alla nostra identità, per cui usciamo di strada e perdiamo la rotta?
La passione per un ideale, nel nostro caso, la missione, è legata all’entusiasmo. La passione non si conquista una volta per sempre. È come una pianta che dobbiamo curare e nutrire ogni giorno. Per questo è necessario trarre profitto da iniziative come quella che ci propone il Papa nell’Anno della Vita Consacrata, per rivedere come stiamo vivendo la nostra consacrazione e qual è il nostro legame con il Vangelo, con l’Istituto e con la missione.
P. Rogelio Bustos Juárez, mccj