America
Elementi della spiritualità comboniana
Stiamo celebrando i 150 anni del Piano di san Daniele Comboni. Il testo ha avuto più di un’edizione. La nostra riflessione sarà basata sulla IV ed., pubblicata a Verona dalla Tipografia Vescovile di A. Merlo, dal titolo “Piano per la rigenerazione dell’Africa proposto da Don Daniele Comboni missionario apostolico dell’Africa centrale, Superiore degli istituti dei neri in Egitto”.
ELEMENTI DELLA SPIRITUALITÀ COMBONIANA CHE EMERGONO DAL PIANO PER LA RIGENERAZIONE DELLA NIGRIZIA
Introduzione
La prima domanda che ci poniamo è se sia più opportuno chiamare il testo di Comboni piano o progetto. Anche se il termine ebraico che indica questa realtà è costantemente tradotto con progetto, piano o disegno, la questione merita di essere posta. La parola greca tradotta con progetto dà l’idea di movimento. La nozione di “piano”, dunque, indica qualcosa di statico, mentre “progetto” implica dinamicità. Il piano di solito è una fredda elaborazione, senza alcun coinvolgimento soggettivo, senza cuore; il progetto è vissuto dall’interno, con una carica soggettiva forte, ed è questo il caso del testo che san Daniele Comboni ha presentato alla Chiesa. C’è il coinvolgimento del cuore di Comboni nel testo del Piano, per questo è forse più opportuno parlare di “Progetto per la rigenerazione della Nigrizia”. San Daniele visse l’opera della Rigenerazione della Nigrizia dentro di sé (è l’immagine di Potier) prima di giungere alle sue implicazioni pratiche. Nelle righe che seguono continueremo a chiamare il testo di Comboni “Piano”, per rispetto alla memoria del nostro Padre fondatore, ma senza dimenticarne l’aspetto dinamico, quella dinamicità che nasce dalla contemplazione del Cuore di Cristo Buon Pastore, fonte della sua missione.
L’esperienza carismatica in San Pietro, in occasione della canonizzazione di Santa Margherita Maria Alacoque, è stato il momento fondante di questo Piano ma non l’unico, come sottolinea bene il Padre Generale: “Il Piano non è il testo, ma è la vita nascosta nelle parole, nei pensieri, nelle intuizioni, nei sogni e nei desideri che sono stati il motore capace di muovere le mani di Comboni per lasciare traccia di quello che lo Spirito voleva esprimere e che va molto al di là delle idee e delle strategie che diventeranno in qualche modo risposta al grido che sale e importuna le orecchie di Dio per suscitare la sua misericordia” (Il Piano di Comboni, Lettera del Superiore Generale, MCCJ Bulletin 258, gennaio 2014).
Possiamo dire che il Piano scaturisce, da una parte, da una spiritualità “con i piedi per terra”, fatta di studi e di ricerca, e, dall’altra, dall’esperienza dell’amore di Dio fatta da Comboni e che egli traduce in un testo a beneficio dei suoi fratelli e sorelle africani.
Il nostro contributo si divide in cinque punti: 1. Un Piano nato da uno sguardo diverso. 2. Un Piano mosso dall’indignazione. 3. Un Piano da realizzare a più mani. 4. Un Piano con un tocco di… “genere”. 5. Un Piano da pagare con la propria vita.
1. Un Piano nato da uno sguardo diverso
“Sennonché il cattolico, avvezzo a giudicare delle cose col lume che gli piove dall’alto, guardò l’Africa non attraverso il miserabile prisma degli umani interessi, ma al puro raggio della sua Fede; e scorse colà una miriade infinita di fratelli appartenenti alla sua stessa famiglia, aventi un comun Padre su in cielo, incurvati e gementi sotto il giogo di Satana in sull’orlo del più orrendo precipizio. Allora, trasportato egli dall’impeto di quella carità accesa con divina vampa sulla pendice del Golgota, ed uscita dal costato del Crocifisso per abbracciare tutta l’umana famiglia, sentì battere più frequenti i palpiti del suo cuore; e una virtù divina parve che lo spingesse a quelle barbare terre, per istringere tra le braccia e dare il bacio di pace e di amore a quegl’infelici suoi fratelli, sovra cui par che ancor pesi tremendo l’anatema di Canaam” (S 2742).
Il paragrafo più denso, che è alla base di tutto e che costituisce il fondamento in assoluto di tutto il resto del testo è il n. 2742: “il cattolico avvezzo a giudicare delle cose col lume che piove dall’alto…”. Comboni è questo cattolico che, a forza di giudicare sempre a partire dalle ispirazioni divine, ha assunto un’abitudine che lo porta a guardare l’Africa non a partire dagli interessi umani e a scoprire fratelli che hanno il suo stesso Padre e ai quali bisogna portare la Buona Novella della Salvezza. Evidentemente per giudicare dall’alto, bisogna rinascere dall’alto (Gv 3); rinascere dall’alto è un dono di Dio ma richiede anche un’ascesi (sforzo). La fonte di questo sguardo diverso sull’africano, considerato un fratello appartenente alla propria famiglia, che Comboni vuole stringere fra le braccia dandogli il bacio di pace e di amore, è la carità accesa dalla divina fiamma sul Golgota, uscita dal costato del Crocifisso. L’esperienza dell’amore del crocifisso è il motore dello slancio missionario che lo spinge verso questa periferia, l’Africa, vista dagli altri sotto il prisma degli interessi umani. L’esperienza della fede, che cambia il suo sguardo sull’africano, l’esperienza della carità divina che lo spinge verso queste “barbare terre” sono dunque fonte della sua fiducia nell’uomo africano che egli associa come protagonista all’opera di rigenerazione dell’Africa, “convertire l’Africa con l’Africa”. Oggi, nelle nostre comunità, nelle nostre missioni, questo sguardo di fede sugli eventi, sulle persone e sull’esperienza dell’amore del Crocifisso, che non è mai separato dall’amore del prossimo, è un elemento importante per la costruzione di una fraternità e confraternità che va al di là del colore della pelle, dell’etnia, della provenienza provinciale, ecc. Il Piano nasce dalla fede che opera attraverso la carità in vista di una liberazione dell’uomo africano: “La nostra Opera è basata sulla fede. È un linguaggio che lo intendono poco anche fra i buoni sulla terra. Ma l’hanno compreso i Santi, che soli noi dobbiamo imitare” (S 6933).
Il Piano ha un centro spirituale, il Cuore di Gesù, e dei centri materiali, gli istituti dove saranno preparati gli evangelizzatori e le evangelizzatrici, in cui possano vivere ed operare sia africani che europei (cfr. S 2764) e che andranno verso il centro dell’Africa.
“Possiamo dire che il Piano scaturisce, da una parte, da una spiritualità ‘con i piedi per terra’, fatta di studi e di ricerca, e, dall’altra, dall’esperienza dell’amore di Dio fatta da Comboni e che egli traduce in un testo a beneficio dei suoi fratelli e sorelle africani”.
2. Un Piano mosso dall’indignazione
“Ora la desolante idea di vedere forse per molti secoli sospesa l’opera della Chiesa a vantaggio di tanti milioni di anime gementi ancora nelle tenebre e nelle ombre di morte, dee ferire profondamente e fieramente straziare il cuore d’ogni pio e fedele cattolico infiammato dello spirito della carità di Gesù Cristo. Egli è perciò, che a secondare l’impulso di questa sovraumana virtù, e a dileguare per sempre dal filantropo cattolico il desolante pensiero di abbandonare avvolte nell’infedeltà e nella barbarie quelle vaste e popolate regioni, che sono senza dubbio le più necessitose e le più derelitte del mondo, è d’uopo deviare dal sentiero fino ad ora seguito, mutare l’antico sistema, e creare un nuovo piano che guidi più efficacemente al desiato fine” (S 2752).
Il Piano nasce dall’indignazione provocata in Comboni dallo stato di abbandono in cui si trovava l’Africa dal punto di vista della fede, ma anche dello sviluppo sul piano umano. Comboni è quel cattolico pieno di pietas, infiammato della carità di Gesù Cristo, che si rattrista ed è desolato davanti alla situazione dell’Africa; che s’indigna “ci sarà perdonato, se l’impeto del cuore, dove protestiamo di sentir forte il grido della miserazione, che verso di tutti noi mandano quegl’infelici figliuoli di Adamo e nostri fratelli, spingesse la mente fuor della linea della verità e della certezza” (S 2754). Un’indignazione che lo spinge alla ricerca di un cammino per l’evangelizzazione dell’Africa, senza paura di sbagliare, senza una certezza assoluta; anche se sbaglia, sarà perdonato. La paura di sbagliare paralizza l’azione evangelizzatrice e ci chiude in noi stessi, limitando la nostra audacia di andare in cerca di nuove strade. Preferisco, dice Papa Francesco “una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze” (EG 49).
Dio stesso s’indigna davanti ad ogni forma di non dignità della persona umana: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze” (Es 3,7). È l’indignazione di Gesù davanti alle moltitudini prostrate come pecore senza Pastore. Come ogni vera indignazione, che nasce da una contemplazione, l’indignazione di Comboni non è rimasta sterile, ma lo ha portato alla compassione e all’azione. Un’azione che si caratterizza per l’intima condivisione di vita con l’Africa: “L’Africa e i poveri neri si sono impadroniti del mio cuore, che vive soltanto per loro, particolarmente da quando il Rappresentante di Gesù Cristo, il S. Padre, mi ha incoraggiato a lavorare per l’Africa” (S 941).
Molte delle nostre indignazioni davanti agli orrori del mondo rimangono sterili perché, mentre condanniamo le situazioni di guerra che ci sono nel mondo, allo stesso tempo riproduciamo nelle nostre comunità e nelle nostre missioni gli stessi meccanismi di guerra fra di noi, anche se su scala minore: “All’interno del Popolo di Dio e nelle diverse comunità, quante guerre! La mondanità spirituale porta alcuni cristiani ad essere in guerra con altri cristiani che si frappongono alla loro ricerca di potere, di prestigio, di piacere o di sicurezza economica” (EG 98).
Inoltre, la nostra indignazione rimane sterile quando ci indigniamo davanti alla povertà estrema nella quale si trovano migliaia di nostri contemporanei, ma siamo incapaci di piccoli sacrifici che la missione ci chiede. Pensiamo in questo momento a certi missionari che accettano la destinazione a condizione che, nel posto in cui andranno, ci siano i mezzi tecnologici, come ad es. internet. Quando c’è la passione per la missione e la compassione per le persone, il resto è superfluo.
3. Un Piano da realizzare a più mani
“L’Opera dev’essere cattolica, non già spagnola o francese o tedesca o italiana. Tutti i cattolici devono aiutare i poveri Neri, perché una nazione sola non riesce a soccorrere la stirpe nera” (S 944).
Nel Piano appare chiaramente questa dimensione della collaborazione. L’appello alla collaborazione per l’opera della rigenerazione dell’Africa deriva dalla consapevolezza che san Daniele Comboni ha del fatto che l’opera è di Dio e non un affare personale, è affare della Chiesa: “Siccome l’opera che ho tra le mani è tutta di Dio, così è con Dio specialmente che va trattato ogni grande e piccolo affare della Missione” (S 3615).
Questa collaborazione si manifesta nel momento della formazione degli evangelizzatori ed evangelizzatrici. Pur valorizzando le ricchezze carismatiche di ogni Istituto religioso nella formazione degli africani e africane, san Daniele Comboni indica ciò che non deve mancare nel cammino formativo. Prima di tutto, lo spirito di Gesù Cristo (cfr. S 2770): si tratta di radicare nel loro cuore (nel cuore dei formandi, uomini e donne) lo spirito di Gesù Cristo.
Che cosa intende Comboni per spirito di Gesù Cristo? Nella vita di Gesù Cristo due sono gli elementi fondamentali: l’esperienza di Dio come Padre (Abba) e l’esperienza del Regno. Radicare lo spirito di Gesù Cristo nel cuore degli evangelizzatori e delle evangelizzatrici vuol dire portarli a fare esperienza di Dio come Padre, cioè aiutarli a fare esperienza del cristianesimo non come un insieme di leggi o di una grande idea, ma come un incontro con la persona di Gesù (cfr. Deus Caritas est, 1); è l’unico modo per sviluppare in essi la libertà dei figli di Dio contro qualsiasi paura di spiriti che paralizzino la crescita umana, spirituale e sociale.
Il secondo elemento è sviluppare negli africani la passione per l’annuncio del Regno di Dio, che è Regno di amore, di pace, di giustizia e di misericordia; l’unico modo per dissipare le dense tenebre che coprivano la vasta distesa dell’Africa Centrale (S 2741).
Un terzo elemento che caratterizza lo spirito di Gesù è l’umiltà: “da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà” (cfr. 2Cor 8,9).
4. Un Piano con un tocco di… “genere”
“Il piano quindi, che noi proponiamo è: la creazione di altrettanti Istituti d’ambo i sessi, che dovrebbero circondare tutta l’Africa, giudiziosamente collocati in luoghi opportuni alla minima distanza dalle regioni interne della Nigrizia, sopra terreni sicuri ed alquanto civilizzati, in cui potessero vivere ed operare sì l’europeo, che l’indigeno africano” (S 2764).
La valorizzazione della donna nell’opera dell’evangelizzazione da parte di san Daniele Comboni non è solo un’opzione strategica nel senso che le donne avrebbero resistito di più al clima duro dell’Africa (parlando delle europee) o sarebbero entrate più facilmente in certi ambienti ostili al cristianesimo. La valorizzazione della figura femminile nel suo Piano per la rigenerazione della Nigrizia è un’opzione di vita. È una delle conseguenze di quello sguardo contemplativo sulla realtà: per quelli che sono in Gesù Cristo, non c’è più greco o ebreo, circonciso o incirconciso… donna o uomo, c’è solo Cristo, che è tutto e in tutto (cfr. Col 3,9-11).
Si spiega così anche la devozione di san Daniele per la Madonna. Accanto al titolo “Vergine della Nigrizia”, troviamo, nei suoi Scritti, diversi titoli con cui Comboni si riferisce alla Madre di Dio. Uno dei nostri confratelli ha anche preparato una Litania in base ai titoli utilizzati da Comboni per rivolgersi a Maria.
San Daniele Comboni è in sintonia con il patrimonio della grande tradizione cattolica: lungi da qualsiasi devozionismo, Maria è il cuore della Chiesa. Nella Chiesa, diceva von Balthasar, Maria ha un posto più alto di Pietro e nell’Evangelii gaudium, Papa Francesco dice che Maria è più importante dei vescovi. Bisogna quindi rivalutare questa componente femminile nella Chiesa in equilibrio con quella maschile per non cadere, da una parte, nel maschilismo e nel clericalismo, e, dall’altra, nel femminismo esasperato o semplicemente in certe teorie di genere che tanto male fanno all’umanità. Nella vita di san Daniele questo equilibrio c’è stato, perché accanto alla Vergine Maria, c’è san Giuseppe, suo sposo, e nel carattere di Comboni – potremmo dire – i due elementi s’intrecciano: Comboni è in grado di difendersi con virilità quando è calunniato e di rendere verità ai fatti con parole a volte molto dure ma, allo stesso tempo, è capace di perdonare fino in fondo chi lo accusa falsamente. Alla forza, unisce l’elemento della misericordia, della compassione e della tenerezza, che sono tipicamente femminili. Non è un caso se la Commissione che ha l’incarico di eseguire il Piano si chiama “Società dei SS. Cuori di Gesù e di Maria per la rigenerazione della Nigrizia, sotto il patrocinio della Vergine Immacolata, di san Giuseppe, suo sposo, e dei principi degli Apostoli”.
5. Un Piano da pagare con la propria vita
“Su questa grande idea si è fissato il nostro pensiero; e la rigenerazione dell’Africa coll’Africa stessa ci parve il solo Programma da doversi seguire per compiere sì luminosa conquista. Il perché nella nostra debolezza ci siamo creduti lecito di suggerire sommessamente una via, sulla quale camminando, più probabilmente giungere all’alto scopo, dove d’altronde si appuntarono sempre tutti i pensieri della nostra vita, e pel quale saremmo lieti di versare il nostro sangue fino all’ultima stilla” (S 2753).
Esiste uno stretto rapporto fra il Piano elaborato da san Daniele Comboni e la sua vita concreta. Tutti i suoi pensieri sono rivolti al Piano per il quale sarà disposto a dare il suo sangue fino all’ultima goccia. È l’immagine del Buon Pastore che è venuto perché tutti abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza (cfr. Gv 10,10).
Questa affermazione da parte di Comboni non è retorica. San Daniele, il 10 ottobre 1881, morirà a Khartoum, al vertice di una vita totalmente dedicata all’Africa e agli Africani. Dietro il Piano di Comboni ci sono nomi, cognomi, volti di africani e africane per i quali Comboni dà la propria vita. Possiamo dire che ciò che Papa Francesco afferma a proposito dei pastori della Chiesa è del tutto vero nel caso di san Daniele Comboni: possiamo sentire l’odore degli africani sotto la veste dell’infaticabile missionario dell’Africa. Affinché un Piano pastorale, dunque, affinché un progetto comunitario possa uscire dalla carta ed essere elaborato – ci insegna san Daniele Comboni – bisogna metterci cuore, amore, con la consapevolezza che dietro a quel Piano ci sono migliaia di vite che attendono la loro rigenerazione spirituale e umana allo stesso tempo, bisogna essere disposti a dare il proprio contributo, a dare il proprio sangue per la sua realizzazione. Perché a volte, infatti, i nostri piani pastorali non escono dalla carta? Forse mancano di quel coinvolgimento affettivo ed effettivo con la gente per cui il Piano diventa un pezzo di carta in più, oppure perché non siamo disposti a dare qualche goccia di sangue per la sua realizzazione, energia, tempo.
Conclusione
Alla fine di questa breve riflessione, possiamo dire che per comprendere il Piano, bisogna entrare in profondo dialogo con il suo autore, san Daniele Comboni, con la sua vita e con tutta la sua opera. Bisogna scoprire lo spirito che anima il Piano, al di là delle povere parole che lo traducono, per non perdersi in sterili dibattiti, quali ad es. “figlio di Cam” o altri del genere.
Il Piano traduce la passione di san Daniele per l’Africa, la sua preoccupazione di conquistare la perla nera alla Chiesa di Gesù Cristo. Il Piano è nato da una visione di fede che muove all’indignazione-compassione-azione davanti alla situazione di abbandono nella quale si trovava l’Africa. San Daniele ha capito che l’evangelizzazione dell’Africa non era un affare personale, ma della Chiesa. Ha cercato il confronto e il dialogo con il pontefice, con il prefetto di Propaganda Fide e con personalità legate all’esperienza africana, insomma ha cercato collaborazione coinvolgendo strettamente la figura femminile. Per l’elaborazione e l’esecuzione del Piano, san Daniele Comboni ha dato la sua vita, perché, dietro al Piano, ha capito che c’è una moltitudine di vite, una moltitudine di fratelli e sorelle che attendono il Messaggio della rigenerazione.
Novembre 2014
P. Fidèle Katsan, mccj
Missione in Guerrero (Messico)
Oggi, 15 ottobre 2014, è trascorso un mese dalla partenza di Carolina Carreón Martinez per la sua destinazione in missione nelle montagne di Guerrero dove si è impegnata a lavorare per 3 anni. In questa comunità, dove i padri Comboniani sono presenti tra la popolazione indigena Mixtec (NAU SAVIL), si sentiva la necessità di una presenza di Laici Missionari, poiché in precedenza erano stati accompagnati dagli LMC Marcela Angeles, Olivia, Lety, Rosario e Alma .
Carolina ha detto “sì” alla chiamata di Dio di annunciare il Suo Regno, rivelandoci il suo amore per l’umanità, la fiducia e il rispetto per le popolazioni indigene affinché essi stessi diventino protagonisti della propria liberazione. Essa conta sul supporto e la preghiera del gruppo dei Laici Missionari Comboniani a cui appartiene.
Cari saluti.
Adriana M Salcedo Cabello
I Laici Missionari Comboniani al servizio delle popolazioni in missione
Ciao! Il mio nome è Ma. Isabel Barbosa Buenrostro, ho 39 anni, sono LMC “Laica Missionaria Comboniana” e “Chirurgo e ostetrico.” Sono nata in una piccola città nello Stato di Jalisco in Messico, la mia città è Santa Cruz de las Flores, facente parte del comune di San Martín Hidalgo a 2 ore da Guadalajara. Ho studiato presso la Facoltà di Medicina dell’Università di Guadalajara.
Verso la fine del 2004 ebbi modo di incontrare le Suore Missionarie Comboniane e nel 2005 entrai a far parte della loro congregazione. Inizialmente fui destinata, come prima esperienza missionaria, in Ecuador, dove mi sono fermata tra febbraio e marzo, per sostenere la famiglia comboniana fra le comunità afro-ecuadoriane e indigene; lì ho iniziato a comprendere la missione e quanto grande sia la sete di Dio fra le nostre nazioni sorelle, dove la popolazione è abbandonata a sé stessa, discriminata e soffre di una grande povertà materiale nonostante sia ricca di valori e tradizioni che ancora conserva. Seguii per un anno il cammino di formazione in postulato, ma nel 2006 decisi di lasciare la Congregazione delle Suore Missionarie Comboniane poiché la disciplina religiosa mi limitava nello svolgimento della mia professione. E fu così che incontrai i Laici Missionari Comboniani. Con loro ho trovato il luogo adatto dove praticare la mia professione di medico fra i poveri e realizzare pienamente la mia vocazione missionaria.
Il mio lavoro con gli ammalati è una delle mie grandi passioni, perché attraverso loro vedo il volto di Cristo e con loro trovo grande realizzazione e crescita umana per essere lo strumento di cui Dio si serve per aiutare a guarire corpi e anime… Sentii la chiamata di Dio quando avevo compiuto 20 anni. Mi trovavo da alcuni anni a fare discernimento presso la Congregazione Religiosa di Vita attiva delle “Ancelle del Sacro Cuore di Gesù”. Ma quando iniziai a lavorare presso i servizi sociali come medico nei villaggi, capii che la mia vocazione era essenzialmente missionaria. Ed eccomi qui, in cammino, coltivando e lottando per la mia vocazione. Poiché ciò è il più grande e meraviglioso dono che Dio mi abbia fatto, mi sento in questo modo pienamente realizzata come essere umano e credo che la missione alla quale sono stata inviata in questo mondo è andare verso il popolo eletto di Dio, specialmente i più poveri e abbandonati della terra. A San Daniele Comboni dedico la mia vita per servire i miei fratelli come missionaria laica e come medico.
Quando ho incontrato la Famiglia Comboniana tutto era molto bello, Dio mi aveva dato l’opportunità di fare missione per brevi periodi, specialmente come volontaria; dopo la mia prima esperienza missionaria in Ecuador nel 2005 e dopo aver lasciato l’esperienza di postulato nel 2006, ho partecipato ad alcuni campi di missione: nel 2006 nella regione Andina sugli altopiani del Perù, ad Huancayoc, nella Regione di Waras fra gli indigeni Quechua; nel 2010 nella foresta dell’Ecuador a Pambilar, nella Provincia di Esmeraldas, fra gli indigeni Awás; in Guatemala nel 2013 nella Parrocchia della clinica comboniana di SanLuis El Peten fra gli indigeni Quec”Chis.
Recentemente ho concluso la mia esperienza comunitaria e di formazione missionaria come LMC, in quanto è prevista nello statuto degli LMC sia la formazione intensiva per una durata di otto mesi sia la preparazione alla missione Ad Gentes per un periodo minimo di 3 anni. La formazione si è svolta con la mia amica Carolina; per i primi 3 mesi nello Stato di Guerrero, in Messico, nelle montagne del Metlatónoc, dove è presente una missione degli LMC e dei Missionari Comboniani; questa è la regione delle comunità indigene Mixtec. Lì ho vissuto un momento forte e molto speciale; abbiamo condiviso la missione fra le comunità di Huexoapa, Atzompa e Cocuilotlazala. Qui svolgiamo una pastolare catechistica e sociale, soprattutto ci prendiamo cura dei malati. Dato che come laici facciamo coincidere la nostra vita professionale, familiare, sociale, spirituale e religiosa, questo è l’aspetto positivo della vocazione laicale. Come LMC siamo in grado di sostenere con la nostra professione le missioni in vari progetti sociali. I rimanenti 5 mesi (da febbraio a luglio) abbiamo studiato a Città del Messico. Siamo stati accolti presso il Seminario dei Missionari Comboniani, dove abbiamo partecipato a diversi workshop. Come una parte dei nostri studi professionali, riceviamo una preparazione religiosa, spirituale e umana per essere bravi missionari.
Ciò che ho imparato in questo periodo è che tutti gli uomini sono famiglia di Dio, che abbiamo un Padre comune e che tutti i popoli di tutte le nazioni e di tutte le culture del mondo sono nostri fratelli e sorelle. Tutti, in base al contesto in cui siamo nati e cresciuti, abbiamo conoscenza ed esperienza di Dio, perché Dio ha piantato i semi della Sua Parola nella storia di tutti i popoli. Ho capito che la nostra Chiesa Cattolica è universale e che dobbiamo essere fratelli rispetto a tutte le religioni e in particolare che dobbiamo rispettare e conservare le culture delle nostre popolazioni indigene: gli afro-americani e gli africani. Come missionari dobbiamo accompagnarli, camminare con loro, per vivere la nostra fede e condividere la vita con loro; lavorare con loro per recuperare la loro dignità di figli di Dio e responsabilità per il loro sviluppo umano.
Questo è il carisma comboniano che il nostro fondatore San Daniele Comboni ci ha indicato. Poiché il messaggio della Buona Novella che Gesù è venuto a portare sulla terra e che stiamo ancora proclamando ogni giorno attraverso la sua Parola, gli eventi del mondo e la bellezza della natura e della vita stessa, è di essere felici su questa terra e poi la felicità troverà il suo compimento nella vita eterna. La preghiera e la vita spirituale sono un importante alimento per noi missionari. Il 6 luglio 2014, la Famiglia Comboniana ha celebrato, come ringraziamento a Dio, la conclusione della nostra esperienza di formazione, nella Cappella del Seminario Comboniano di Città del Messico, dove il responsabile LMC del Messico (P. Laureano Rojo), Provinciale dei Comboniani del Messico e i Padri insegnanti del Seminario hanno presieduto alla Messa di INVIO MISSIONARIO di Ma Isabel Buenrostro e Carolina Carreon, laiche missionarie comboniane. Possa Dio con la potenza dello Spirito Santo, continuare a donarci la sua pace ed illuminare tutti i suoi figli, in modo che tutti possano diventare missionari e annunciare e rendere “vita” gli insegnamenti di Gesù Cristo.
Con il cuore nella missione
“Con l’avvicinarsi della festa del Sacro Cuore – venerdì 27 giugno – desidero condividere con voi questa piccola riflessione perché ci aiuti a prepararci a questa celebrazione fissando il nostro sguardo in quel Cuore aperto da cui nasce la nostra vocazione missionaria, per attingere le forze di cui abbiamo bisogno in questo momento del nostro cammino come eredi di san Daniele Comboni”. P. Enrique Sánchez G., mccj.
Con il cuore nella missione
“Io non voglio tacerle qui che, allorché la S. Sede mi ha affidato questa vasta e laboriosa Missione, la mia coscienza era un po’ titubante, perché conoscevo la mia piccolezza di fronte a questo mandato enorme che Dio mi ha affidato tramite il suo augusto Vicario Pio IX. Allora io ho pensato che con le nostre forze non riusciremo mai a fondare il cattolicesimo in queste immense regioni dove la Chiesa, malgrado gli sforzi di tanti secoli, non è giammai riuscita. Allora ho gettato tutta la mia confidenza nel Sacro Cuore di Gesù e ho stabilito di consacrare tutto il Vicariato al Sacro Cuore di Gesù il 14 settembre prossimo. A questo scopo ho inviato una circolare per fare questa grande solennità e ho pregato l’apostolo ammirabile del S. Cuore, il P. Ramière, a redigere l’atto di Consacrazione solenne, ciò che egli ha fatto” (Scritti3318).
Cari confratelli,
Con l’avvicinarsi della festa del Sacro Cuore desidero condividere con voi questa piccola riflessione perché ci aiuti a prepararci a questa celebrazione fissando il nostro sguardo in quel Cuore aperto da cui nasce la nostra vocazione missionaria, per attingere le forze di cui abbiamo bisogno in questo momento del nostro cammino come eredi di san Daniele Comboni.
Il 31 luglio del 1873, san Daniele Comboni scrisse una lettera a Mons. Joseph De Girardin, dalla quale ho preso il testo con cui inizio questa mia riflessione. L’ho scelto perché mi sembra che contenga alcuni elementi che corrispondono alla realtà che ci troviamo ad affrontare in questo momento della nostra vita e della nostra missione e che meritano una riflessione da parte nostra.
Come a quel tempo, anche oggi non è difficile affermare che la missione a noi affidata continua ad essere vasta e laboriosa; spesso essa ci appare molto più esigente e al di là delle nostre forze. E questo – lo dico subito – non è un aiuto a viverla con responsabilità ed efficacia.
Negli ultimi trent’anni, infatti, l’Istituto si è sviluppato considerevolmente e nel suo processo di crescita si è impegnato in tanti settori, su molti fronti e in tante e diverse realtà missionarie la cui vastità è evidente. L’immenso Vicariato dell’Africa centrale è diventato per noi ancora più immenso, con una presenza in quattro continenti e una diversità d’impegni missionari tale da farci credere di essere presenti su tutti i fronti della missione. Questo fatto, per alcuni di noi, è un bene, sembra rispondere al bisogno di affermare un ego, ci fa credere che siamo grandi missionari perché portiamo il Vangelo in tutti gli angoli del pianeta e in tutte le periferie dell’umanità, per usare un’espressione cara a Papa Francesco.
Alla vastità, bisogna poi aggiungere la laboriosità, la complessità di una missione che è esigente, sfidante e in profondo cambiamento per la frenetica trasformazione del mondo e della società. La missione sta cambiando senza darci il tempo di capire in quale direzione orientarci e il grande rischio sembra essere un’incapacità, da parte nostra, a essere in anticipo su questi mutamenti.
Ma la laboriosità che oggi la missione esige diventa sfida alla nostra creatività, alla nostra capacità di metterci in discussione, di sognare per intraprendere sentieri nuovi che possono costringerci a camminare su terreni sconosciuti, inauditi – come ci è stato detto qualche tempo fa – invitandoci a non vivere del lascito che abbiamo ereditato e che può ingannarci con una pretesa di onnipotenza missionaria.
Comboni, in quella lettera del 1873, si diceva titubante perché conosceva la sua piccolezza. Anche noi oggi stiamo diventando più consapevoli della nostra piccolezza, e non solo perché le statistiche ci ricordano la costante diminuzione del personale. Non penso sia solo questione di numeri. Credo che questa piccolezza possa farci capire che le nostre forze non saranno mai sufficienti per rispondere alle esigenze della missione e che il Signore non fa i suoi calcoli usando la matematica.
Allora, come orientare il nostro sguardo, dove attingere le forze e la luce per vivere radicalmente la nostra vocazione missionaria comboniana?
Penso che per noi, oggi, la piccolezza debba essere misurata guardando alla nostra qualità di vita, alla coerenza nel portare avanti i nostri impegni personali e le opzioni di vita che abbiamo fatto, alla capacità di non essere superficiali nel vivere la nostra consacrazione religiosa per la missione, alla nostra totale disponibilità nell’andare a servire i più poveri, alla libertà di non lasciarci confondere dalle facili suggestioni del nostro mondo: consumismo, apparenza, superficialità, ecc.
Senza far riferimento a nessuno in particolare e senza voler rimproverare, penso che ognuno di noi debba riconoscere la propria povertà, la propria fragilità e il proprio limite, la tentazione di far diventare la missione qualcosa che mi serve e non invece quella realtà che mi chiama a donarmi senza condizioni e senza usare pretesti per farla diventare una “missione su misura”.
Ho una profonda ammirazione per tanti confratelli che vivono con enorme entusiasmo, dedizione e spirito di sacrificio in situazioni di indicibile violenza e pericolo. Sono quelle pietre nascoste di cui – ci ricorda Comboni – c’è bisogno per costruire la missione. È alla luce di queste testimonianze che dobbiamo misurare la nostra risposta alla chiamata che abbiamo ricevuto e riusciremo a scoprire quanto grandi, forti e capaci potremo essere per abbracciare la missione che ci viene affidata oggi.
Comboni dice con molta umiltà: “ho pensato che con le nostre forze non riusciremo mai”. Non è un’espressione di scoraggiamento, è anzi la convinzione di portare con sé una missione che non dipende da noi. “Allora ho gettato tutta la mia confidenza nel Sacro Cuore di Gesù”. Forse, e senza il forse, penso sia il momento per noi di fare quest’esperienza di abbandono e di fiducia, di fede e di apertura all’azione di Dio nella nostra vita, che non vuol dire rifugiarsi in una spiritualità che ci porta fuori dalla realtà o dalla responsabilità di impegnarsi nella costruzione del Regno.
Confidare nel Sacro Cuore di Gesù è, anche per noi oggi, la sfida che ci obbliga a sporcarci le mani nella trasformazione della nostra umanità, attraverso il nostro servizio missionario, senza dimenticare che l’unico e vero protagonista della missione è e sarà sempre il Signore.
Se Comboni ha voluto consacrare il suo Vicariato a questo Cuore, che non è altro che l’amore senza limiti di Dio per ognuno di noi e per tutti quelli ai quali ci manda come suoi missionari, penso che valga la pena vivere questa festa rinnovando la nostra disponibilità perché il Signore realizzi i suoi piani su di noi, riconoscendo che la missione che nasce dal suo Cuore ha un bel futuro. Per questo dobbiamo viverla nella fiducia che il Signore non ci deluderà.
Buona festa a tutti.
P. Enrique Sánchez G. mccj