Laici Missionari Comboniani

Fare causa comune

Un commentario a Mc 6, 30-34  (Domenica XVI del T.O.:  19 luglio del 2015)

Leggiamo oggi cinque versetti del capitolo sesto di Marco, una specie di transizione letteraria tra due grandi relati: il martirio di Giovanni Battista (sicuramente un’esperienza molto dolorosa per i discepoli e per Gesù stesso) e la moltiplicazione dei pani (un chiaro segno di un Dio che sostiene il popolo degli umili nel deserto).

Il testo che leggiamo oggi è, dunque, di transizione ma non per questo meno importante. Infatti, è pieno di profondi e limpidi sentimenti in due direzioni principali: la comunità dei discepoli e la moltitudine di persone in cerca di una maggiore qualità di vita. Nel cuore di Gesù si produce un doppio movimento di sistole e diastole, andata e ritorno, tra la comunità e la folla, che, come succede nel cuore umano, non può stare l’uno senza l’altro. Fermiamoci un po’ in questo doppio movimento di amore concreto:

combonianos en Asia- Gerardo (Peruano),Mario (mexicano), Miguel Angel (español), Moises (filipino), Parunñgao (Filipino)

1.- Tenerezza nella comunità degli amici

Marco ci racconta come Gesù accoglie i discepoli che rientrano dalla missione, li ascolta e li invita a riposare, come lui stesso faceva a Betania.

Non so si ricordate il film di Pier Paolo Pasolini sul vangelo di Matteo, che abbiamo visto nei cinema di tutto il mondo anni fa. Era un film meraviglioso, ma – se la mia memoria non mi tradisce- presentava Gesù come una specie di profeta serio, con il volto chiuso e la condanna sempre pronta nelle labbia… Certo, Gesù era chiaro nella sua denuncia di una religiosità ipocrita, ma era molto di più che un profeta arrabbiato. Nel vangelo di oggi Marco ci presenta un Gesù tenero, accogliente, preoccupato per il benessere degli amici. Con quest’atteggiamento ci da la misura della sua umanità, così necessaria negli ambiti della famiglia, la comunità o il gruppo apostolico. Qualche volta noi vogliamo tanto il bene, siamo così perfezionisti o abbiano tanta ambizione per i nostri cari che finiamo per diventare intransigenti, ipercritici, adirati, negativi. Preghiamo perché Gesù ci insegni ad avere quella tenerezza che ci fa accoglienti e capaci prenderci in carico a vicenda.

Cincinnati. St Charles)

2.- Commozione davanti alla folla bisognosa

La attenta vita comunitaria di Gesù non lo fa diventare indifferente davanti alle necessità degli altri, ma tutto il contrario: lo fa diventare più sensibile e impegnato in favore di un’umanità che, come pecore senza pastore,  cerca con affanno salute, pane, comprensione, un senso di vita. L’atteggiamento di Gesù è stato imitato da tanti suoi discepoli, tra cui Daniele Comboni, chi, arrivando a Khartum (Africa) disse: “Voglio fare causa comune con ognuno di voi”.

Davanti alla folla di persone che oggi come ieri cercano più salute, più pane, più dignità, più amore…, la risposta del discepolo missionario non è  l’indifferenza, il togliere lo sguardo, ma il “fare causa comune”, condividere i sogni, i problemi, le possibili soluzioni. Questo “fare causa comune” troverà a suo tempo le iniziative necessarie di solidarietà. Ma la prima cosa è proprio non essere indifferenti, commuoversi, condividere, prendere come propri i bisogni degli atri; a partire di quest’ atteggiamento fraterno, dare una mano, secondo le proprie possibilità, nella fiducia che se ognuno condivide qualcosa, si farà il miracolo della vita condivisa.

P. Antonio Villarino

Roma

La missione dei Dodici e la nostra

Un commentario a Mc 6,7-13 (Domenica XV T.O.: 12 Luglio  2015)

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Dopo il rifiuto degli abitanti di Nazareth, Gesù, secondo Marco, inizia una nuova tappa della sua missione, coinvolgendo i Dodici, seme di un nuovo popolo che accoglie il Regno di Dio e lo fa germogliare in paesi e città. Nel testo di Marco che leggiamo questa domenica possiamo trovare molti punti di meditazione per la nostra vita di discepoli missionari. Io mi fermo brevemente a quattro di questi punti:

  • Chiamò i Dodici e cominciò a inviarli

La missione non è frutto di un’iniziativa personale, ma di una chiamata. Nel cammino del discepolato missionario ci sono momenti in cui sembra che siamo stati noi a prendere l’iniziativa, che siamo noi che vogliamo diffondere nel mondo un nostro progetto d’umanità, una nostra ideologia, la nostra maniera di vedere le cose. Ma il discepolato vero solo comincia veramente quando, superata la tappa del protagonismo personale, ci rendiamo consci che è in verità è il Signore chi ci chiama e ci invia.

Già Mosè e altri grandi profeti hanno esperimentato come la missione fallisce quando è intrapresa come un modo di auto-realizzarsi e di diventare qualcuno nella società, mentre, per il contrario, diventa feconda quando è assunta come risposta a una chiamata.

Anche gli artisti raccontano qualcosa di simile. I poeti, per esempio, dicono che non sono loro a cercare le parole, ma sono le parole che cercano loro; cioè, la poesia attinge la sua speciale forza espressiva quando, in qualche modo , “s’impone” al poeta, chi, forse, ha lavorato per ore senza successo.

Lo stesso succede con il discepolato missionario: ci vuole un momento di grazia inaspettata, un prendere coscienza di essere gratuitamente chiamato/a, un fare esperienza che la missione ricevuta va aldilà del nostro auto-controllo, la nostra auto-realizzazione, le nostre prospettive ideologiche, il nostro protagonismo… per diventare la missione di Chi ci ha chiamato a inviato. Soltanto allora la missione diventa feconda, anche quando passa per il fallimento e la croce.

LOs Angeles (centro)

  • “Due a due”

Quando invia i suoi discepoli “due a due”, Gesù segue la pratica ebraica di inviare i messaggeri a copie: il portavoce ha accanto a sé qualcuno che conferma l’autenticità del messaggio. Facendo la missione “due a due”, i discepoli si aiutano a vicenda e danno attendibilità al messaggio del Regno de la fraternità.

D’altronde, la missione “due a due” fa superare l’esperienza individuale, soggettiva, per farla diventare una proposta sociale, comunitaria, condivisa. Certamente, Gesù dedica molte ore alla preghiera individuale, nella solitudine, ma la sua missione si sviluppa sempre pubblicamente: nelle piazze e nelle sinagoghe, sulle strade e nei villaggi e città. La missione non ò un affare privato, un’illuminazione individuale; è un affare pubblico, comunitario, condiviso. Non si tratta che la missione in comune sia più facile, ma più autentica e affidabile.

  • Entrare nelle case

Nella pratica missionaria di Gesù, non ci sono luoghi riservati alla missione. Lui entra nelle sinagoghe, parla per strada, in riva al mare, nelle case di famiglia… ovunque. La missione non esclude il tempio, ma neanche rimane legata a esso. Mi apre evidente che la missione della Chiesa oggi, senza lasciare le parrocchie, deve andare molto aldilà: uscire e andare all’incontro delle persone dove loro vivono, amano, soffrono, godono e sperano.

  Annunziare la vicinanza del Regno

Vicinanza: Ecco una parola “chiave” nell’esperienza di Gesù e dei suoi discepoli. Gesù annunzia senza riposo, con parole e azioni, che Dio ò vicino alle persone e realizza gesti di sanazione, liberazione, perdono, di quell’amore che fa che le persone si alzino e comincino a camminare. In questo consiste precisamente il potere di Gesù, potere che Lui condivide con i discepoli missionari, il potere di fare che le persone si alzino e comincino a camminare come figli e figlie.

P. Antonio Villarino

Roma

Dio tra le pentole: Gesù falegname, figlio, fratello, vicino

Commentario a Mc 6, 1-6 (Domenica XIV T.O.: 25 di luglio 2015)

ConventualMarco ci mostra a Gesù come un maestro ambulante che, dopo di aver predicato nei villaggi e città attorno al Lago di Galilea, ritorna a Nazareth, il paese dove era cresciuto a dove i suoi vicini lo rifiutano perché è troppo simile a loro. Marco lo spiega con una frase che è diventata famosa: “Nessun profeta è ben accolto nel suo paese e nella sua casa”; e finisce dicendo che Gesù rima se stupito della sua incredulità.
A me sembra che l’esperienza di rifiuto che ha fatto Gesù è a bastanza comune ed è fondata su due errori che tutto noi facciamo frequentemente:

Teresa y Jesus1) Immaginiamo Dio come qualcuno lontano dalla nostra vita quotidiana
Capita in tutte le tappe della storia e in tutte le religioni. Molti pensano che Dio si lo trovi in qualcosa di straordinario: un luogo meraviglioso, una grande cattedrale, un santuario speciale, un personaggio molto importante, sopra le nuvole… Come se Dio non avessi niente a che fare con quello che siamo e viviamo nella nostra quotidianità. Invece, Gesù ci insegna esattamente il contrario: Che Dio si fa uno di noi (Emmanuele); nasce come un migrante, lavora da falegname, va in sinagoga il sabato; mangia, beve, suda, fa degli amici… E in tutto questo si rivela come il Figlio amato dal Padre.
Un modo per spiegare questa esperienza del Dio vicino è la famosa sentenza di Santa Teresa d’Ávila: “Dio c’è anche tra le pentole”. Proprio così: Non dobbiamo cercare Dio nelle cose straordinarie ma nella vita ordinaria di ogni giorno: nel lavoro, nelle relazioni di famiglia, nelle amicizie, nella lotta sincera per i diritti dei poveri, nella ricerca della giustizia e la pace… e anche nella preghiera semplice e sincera (lontana da parole eccessive a gesti esagerati)… Appunto: “Tra le pentole”.

2) Diventare scettici e duri di cuore
Dice un vecchio proverbio che non c’è persona meno rispettosa del tempio che il sacrestano: muovendosi continuamente nel luogo sacro, finisce per perdere il senso del sacro. Questo può capitare anche noi con le persone a noi vicine: membri della famiglia o della comunità, compagni di lavoro, catechisti della mia parrocchia, parroco… Convivendo da vicino con queste persone, corriamo il rischio di vedere soltanto i suoi limiti e difetti, ignorando tutto il bene che fanno. Invece di approfittare della vicinanza per imparare a d amarli e capirli meglio, finiamo per rimanere intrappolati in un atteggiamento di critica amara e dura che ci impedisce di scoprire il messaggio che sicuramente Dio ci vuole trasmettere attraverso queste persone, non ostante i loro difetti e limiti. Certo, Dio non si presenterà a noi nella veste di una persona “perfetta”, ma nella realtà delle persone concrete che abbiamo attorno a noi.
Meditando questo vangelo di oggi, prego al Signore per me e per tutti di darmi quel’umiltà che ci fa capaci di riconoscere Gesù nel’umile profeta di Nazareth e in tante persone che vivono con me e mi aiutano a percepire la presenza divina nella concreta realtà che sto vivendo, con le sue opportunità e problemi, i successi e i fallimenti.
Signore, non permettere che io diventi arrogante o cinico, come gli abitanti di Nazareth. Fa che il mio cuore rimanga sempre aperto a riconoscere la tua umile presenza attorno a me, non ostante i miei limiti e quelli degli altri.
P. Antonio Villarino
Roma

Due vite ricuperate

Commentario a Mc 5, 21-43 (XIII Domenica TO: 28 Giugno 2015)

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Marco continua a presentare Gesù che agisce sulle due rive del lago di Galilea, con un messaggio chiaro di vicinanza divina ai poveri ai cuori “rotti”; un messaggio che si esprime, non soltanto in parole ispiratrici, ma anche in gesti concreti che confermano le parole e li danno una consistenza quasi “fisica”. Gesù mette in atto quello che possiamo chiamare “segni messianici”, cioè, azioni concrete che diventano manifestazioni della presenza di Dio in mezzo al suo popolo, siano loro gli abitanti di Gerassa (“nell’altra riva”), siano quelli di Cafàrnao.

Da “impure” a figlie
Nella lettura d’oggi si racconta la storia di due donne (una bambina di dodici anni e un’adulta malata anche da dodici anni); donne che, essendo “impure” (una perché cadavere e l’altra perché perde sangue-vita), sono “toccate” da Gesù e ricuperano, non soltanto la vita, ma anche la loro dignità di “figlie”, capaci di alzarsi, di credere (“la tua fede to ha salvato”) e di condividere il banchetto della vita (“fatela mangiare”).
Alcuni sembrano leggere questi gesti di Gesù, come se Lui fosse un mago che con poteri speciali produce effetti appunto magici… Certamente, non c’è da dubitare dal grande potere di guarigione di Gesù, Ma mi sembra che questa non è la prospettiva adeguata per capire quello che è successo sulla riva del lago di Galilea neanche quello che continua a succedere oggi tra tanti veri credenti. La prospettiva adeguata è quella del “segno messianico”, cioè, un’azione, un gesto che nasce dalla confluenza di due elementi fondamentali:
L’estraordinaria capacità di Gesù di amare e di entrare in comunione con le persone nella loro concreta situazione di vita, anche se erano condannate dalla tradizione; la sua profonda sintonia affettiva che, prendendo molto sul serio la realtà delle persone, riesce a trasmettere la sua esperienza della radicale vicinanza dell’amore del Padre. Come dice Benedetto XVI, soltanto l’amore salva. Quando qualcuno si sa amato, ricupera la sua dignità, diventa capace di alzarsi e di vivere una vita piena.
La fede di persone umili, che, minacciate dalla malattia e dalla morte, aprono i loro cuori e la loro speranza a Dio come unica roccia di rifugio. Nella mia vita missionaria in Africa, Europa e America ho trovato parecchie persone che sono come il papà della bambina moribonda o la donna disperata da una malattia che la umilia e la distrugge come donna e persona.
Davanti a una simile situazione, queste persone cercano una via d’uscita: nella medicina, nella preghiera, nel buon consiglio…, ovunque ci sia un’opportunità di ricuperare la vita minacciata o perduta. Molti li dicono che non c’è niente da fare, che accettino la realtà; si beffano di loro e della loro fede… Ma questa sua ricerca va rispettata e pressa sul serio. Ed è questo che fa Gesù: a partire dalla sua estraordinaria esperienza della comunione con il Padre della Vita è capace d’entrare anche in comunione con i suoi figli e figlie che passano per momenti di speciale difficoltà, fino a rischiare di dubitare della propria dignità e di essere amati.

DSC00226Parole e azioni
Tutti gli esseri umani, inclusi quelli più sicuri e prepotenti siamo delle creature deboli, esposte a malattie, sofferenze, disprezzi, pericolo e, per ultimo, la morte, anche se a volte qualche miracolo allontana per un po’ questo finale previsto, com’è successo alla figlia di Gairo, l’emorroissa o Lazaro. Ma io no credo che l’obiettivo dei miracoli di Gesù fosse di prolungare una vita che comunque deve finire, ma quello di dare una vita differente, una vita vissuta nell’amore e nella dignità, come figli e figlie di un Padre amoroso, che prende sul serio ognuno di noi. Le due donne, dopo quel “segno messianico” di Gesù, possono dichiarare con verità: “Io sono importante per Dio, sono importante per Gesù, sono importante per la comunità degli amici di Gesù. Non sono una malata o una moribonda. Sono FIGLIA”.
Questo è il messaggio centrale di Gesù. Per farlo capire usa parole, ma anche “segni” che nei vangeli hanno una doppia condizione:
-Sono concreti a pratici, legati alla vita della gente; aiutano le persone in un modo “fisico”, risolvono un problema reale della vita reale.
-trascendono la materialità, per trasmettere qualcosa che va aldilà del gesto concreto nella sua stretta materialità. Non si riducono a un “aiuto materiale”, senza anima, senza amore; comunicano una fiducia nella persona e la spingono a superare se stessa, alzarsi e mettersi al servizio di altri.
Così, anche la missione cristiana, sull’esempio di Gesù, cammina sempre su questo binario di parola e azione, di fede e di carità, di materia e di spirito. Le due dimensioni sono essenziali e si esigono a vicenda: la parola senza azione diventa bugiarda; l’azione senza parola perde il suo senso.
P. Antonio Villarino
Roma

“Passiamo all’altra riva”

Commentario a Mc 4, 35-41 (XII Domenica del T.O., 21 di giugno 2015)

DSC00962Andare oltre le frontiere
Domenica scorsa abbiamo visto Gesù “lungo il mare” di Galilea conversando con una moltitudine di persone sul Regno di Dio con un linguaggio vicino a contadini e pescatori. Oggi vediamo come Gesù, finita quella sua conversazione, alla sera di quello stesso giorno, invita i discepoli a salire sulla barca e traversare il lago verso “l’altra riva”. Questa espressione –“l’altra riva”- sembra aver un significato molto più profondo di una semplice referenza geografica. Sappiamo che, nell’altra riva abitavano persone di cultura e religione differente, alle quali Gesù vuole incontrare e condividere con loro la stessa vicinanza di Dio. Infatti, nei vangeli ripetutamente Gesù spinge i discepoli a non rimanere nello stesso luogo, ma camminare verso altri villaggi e città e andare all’incontro di samaritani, peccatori, pagani e altri tipi di persone “differenti”.
Quest’atteggiamento missionario di Gesù fu assunto dalla Chiesa già dai primi tempi fino ad oggi. Paolo, per esempio, fu “forzato” dallo Spirito ad andare oltre la frontiera asiatica verso l’Europa (Macedonia); Francesco Xavier fecce un viaggio di mesi per portare il vangelo al Lontano Oriente; Daniel Comboni traversò il deserto africano per aprire alla Chiesa un nuovo continente; e così molti altri.
Anche oggi, la Chiesa non può rimanere attaccata alla sua posizione “di sempre”. Anche oggi lo Spirito spinge la Chiesa a cercare altre rive, superare frontiere geografiche, culturali e religiose, per andare all’incontro dell’umanità del secolo XXI nei cinque continenti: un’umanità di rifugiati a migranti, di giovani che cercano un futuro e di anziani abbandonati, di milioni di persone che sono come “pecore senza pastore” e senza un senso per la vita…. Tutti noi dobbiamo chiederci: Qual è la riva verso la quale Gesù ci invita a remare? Quali frontiere dobbiamo superare come persone, come famiglie, come comunità, come parrocchie?

Entrare nel mare e confrontare le tempeste
Sappiamo che il mare nella Bibbia rappresenta molte volte un’immagine del male che c’è nel mondo, con i suoi pericoli e tempeste, che possono distruggere e affondare la nostra piccola nave personale e anche la stessa fragile Chiesa.
Di fatto, quando uno decide di uscire del suo piccolo “mondo protetto” da tradizioni e costumi, rischia di trovarsi davanti a nuovi ostacoli e problemi, che uno non è sicuro di sapere come superare. Quando si esce dai muri della parrocchia o della comunità (dove ormai ci conosciamo e ci sentiamo abbastanza sicuri), si può trovare un mondo ostile che respinge e si oppone al nostro stile di vita e al nostro messaggio. Qualche volta, il mondo esteriore può scatenare venti fortissimi che minacciano con affondare la nostra debole fede e la fragile comunità.
Un momento come questo è quello che ci descrive Marco oggi. E Marco cci racconta che i discepoli non si comportarono da falsi super-eroi: loro avevano paura e dubitarono. Fu il momento di guardare al Signore a gridare: “Maestro, non t’importa che siamo perduti?”.

galileaAnche se non lo pare, il Signore è con noi
Marco ci racconta quel’esperienza dei primi discepoli, che, sottomessi a persecuzioni a difficoltà insormontabili, dubitarono e avevano paura, ma, alla fine esperimentarono che il Signore non era morto o addormentato, ma vivo e presente con loro nella comunità che viaggiava in mezzo alle tempeste, non ostante la loro poca fede.
Per noi, come per i primi discepoli, è importante che se vogliamo intraprendere nuove iniziative missionarie, non ci dimentichiamo di portare il Signore con noi nella barca. Non dobbiamo andare in missione soltanto con il nostro entusiasmo e la nostra creatività. Se la missione è soltanto iniziativa nostra, quando venga la tempesta, affonderemo. Ma, se portiamo il Signore con noi (nella sua Parola, nei sacramenti, nella comunità, nel suo Spirito), quando arrivi il momento della difficoltà, grideremo in preghiera sincera, il Signore risponderà e con il suo potere arriveremo alla nuova riva per condividere la buona notizia della sua presenza.
P. Antonio Villarino
Roma