Laici Missionari Comboniani

Seconda Assemblea africana dei LMC

KinshasaI coordinatori dei Laici Missionari Comboniani (LMC) delle province comboniane dell’Africa e i rispettivi responsabili missionari comboniani che li seguono hanno tenuto la loro seconda assemblea africana dal 21 al 26 luglio, nella casa comboniana di Kinshasa-Kimwenza, nella Repubblica Democratica del Congo (RDC). È stato un incontro di riflessione sul passato e di programmazione delle prossime attività dei LMC a livello di continente africano.

Alla seconda assemblea africana dei LMC hanno partecipato 25 persone: 18 laici, 5 comboniani e 2 comboniane, compresi i responsabili della commissione centrale dei LMC, Alberto de la Portilla e P. Arlindo Ferreira Pinto.

La mattinata del primo giorno è stata dedicata a due temi formativi con lo scopo di introdurre i partecipanti ai lavori dell’assemblea, uno sulla realtà congolese attuale e l’altro sulla visione di missione nella Evangelii gaudium.

L’assemblea si è aperta con la presentazione dei partecipanti, guidata dai membri laici della commissione africana dei LMC: Dieudonné Likambo (Dido), congolese, Innocent Mweteise Karabareme, ugandese, e Márcia Costa, portoghese, che lavora in Mozambico. Di questa commissione fanno parte anche i provinciali P. José Luis Rodríguez López, del Mozambico, e P. Joseph Mumbere Musanga, del Congo. P. José Luis si trova in Messico e P. Joseph ha partecipato solo agli ultimi giorni d’assemblea per impegni personali.

Subito dopo sono stati distribuiti i vari incarichi per tutta la settimana.

Márcia Costa ha colto l’occasione per ricordare i principali obiettivi dell’assemblea: approfondire i temi dell’identità, della formazione e dell’indipendenza economica, rivedere e programmare le attività dei LMC a livello di continente africano e delle singole province, tenendo presente le conclusioni delle assemblee intercontinentali dei LMC, in particolare dell’ultima, quella di Maia (Portogallo), nel dicembre 2012, e della prima assemblea africana, nel dicembre 2011, a Layibi (Uganda).

Le parole di benvenuto sono state espresse attraverso il messaggio di P. Joseph Mumbere Musanga (letto da P. Enrique Bayo Mata), e di Suor Espérance Bamiriyo Togyayo, superiori provinciali dei comboniani e delle comboniane in Congo. Entrambi hanno sottolineato il valore della collaborazione fra i due Istituti nati dallo stesso carisma di Comboni e l’importanza della preghiera e della testimonianza missionaria come famiglia comboniana.

P. Arlindo Pinto, coordinatore dei LMC a livello di Istituto comboniano, ha portato a tutti i saluti di P. Enrique Sánchez, superiore generale, e di P. Antonio Villarino, assistente generale, che seguono con attenzione le diverse realtà dei LMC nel continente africano. Da parte sua, Alberto de la Portilla, membro e coordinatore della commissione centrale dei LMC, ha detto che questa assemblea è un evento che interessa non solo i LMC africani, ma tutti gli altri LMC del continente europeo e di quello americano che vivono in contesti e realtà differenti, ma con un forte senso di appartenenza ai LMC.

P. Jean Claude Kobo Badianga, comboniano congolese, ha presentato brevemente la storia della Repubblica Democratica del Congo (RDC) per rendere più comprensibile la situazione sociopolitica ed economica attuale del paese, facendo un confronto con la storia e con i conflitti passati e recenti dei paesi vicini (Angola e Congo Brazzaville, Ruanda e Burundi, Uganda, Sud Sudan e Repubblica Centrafricana). Ha parlato delle principali difficoltà che impediscono una governabilità stabile e veramente democratica nella RDC come, ad esempio, il tribalismo, il regionalismo e la corruzione.

Ha fatto riferimento ai diversi gruppi di ribelli armati attivi soprattutto nel nord e nord-est del Paese con la complicità politica nazionale coniugata con gli interessi internazionali legati alle ricchissime risorse naturali del suolo e sottosuolo congolese. Il petrolio, l’oro, il coltan e tante altre risorse minerarie preziose sono la vera fonte delle contraddizioni sociali, delle disuguaglianze economiche e dei conflitti armati nella RDC.

La Chiesa cattolica e le centinaia di altre chiese e sette religiose prendono posizioni diverse davanti alle realtà che il paese attraversa, la maggior parte delle volte per favorire lo status quo e solo raramente per denunciare le ingiustizie di cui sono vittima i congolesi dal nord al sud del paese.

P. Jean Claude ha ricordato che i LMC hanno qui, in questa realtà sociale, nella RDC e negli altri paesi africani, una responsabilità cristiana e morale che può e deve essere presente nelle loro attività pastorali e professionali.

KinshasaP. Enrique Bayo Mata, comboniano spagnolo, che lavora nella RDC, ha presentato il tema della missione partendo dall’esortazione apostolica “Evangelii gaudium” di Papa Francesco. Dopo una presentazione generale del documento, P. Enrique ha sottolineato la prospettiva della nuova evangelizzazione contrassegnata dalla gioia dell’annuncio e della testimonianza del Vangelo di Gesù Cristo nelle diverse periferie umane del mondo attuale. Ha parlato dell’urgenza della conversione pastorale per portare la Chiesa ad uscire da se stessa per diventare missionaria, porsi cioè al servizio delle persone e dei popoli, soprattutto degli esclusi, di quelli che hanno più bisogno della gioia, della fede e della vita cristiana e di quelli che sono più lontani dai valori del Vangelo.

Ha poi detto che i laici, formati professionalmente e intellettualmente, hanno una missione particolare nel processo pastorale dell’evangelizzazione che mira alla trasformazione della società e all’inclusione sociale dei poveri nella vita attiva dei loro paesi.

Nel pomeriggio del primo giorno, Innocent ha fatto una panoramica generale sui LMC, ricordando che si comincia sempre da una piccola realtà e con poche cose, ma che si cresce e si matura se si ha una visione chiara dell’identità, di chi siamo, e se si ha un piano concreto di azione, di ciò che dobbiamo fare, in un contesto permanente di ascolto della Parola di Dio, di preghiera e di discernimento vocazionale, nello spirito di san Daniele Comboni. Dopo l’intervento di Innocent, c’è stata una lunga condivisione di idee ed esperienze delle diverse realtà dei LMC in africa.

Márcia Costa ha poi presentato una sintesi della prima assemblea africana a Layibi, soprattutto riguardo all’identità e alla missione dei LMC. Ha osservato che fa parte della loro vocazione uscire dalla propria realtà o dal proprio paese, per un determinato periodo, per un’attività missionaria concreta, e che il loro impegno è per tutta la vita.

Il secondo giorno di attività è stato dedicato alla presentazione delle relazioni sulle attività della commissione africana, di quella centrale e delle diverse province africane presenti: Egitto-Sudan, Sud Sudan, Togo-Ghana-Benin, Repubblica Centrafricana, Congo, Mozambico e Uganda. Dido Licambo ha presentato la relazione dei lavori della commissione africana dall’assemblea di Layibi fino alla preparazione dell’attuale assemblea di Kinshasa, e Alberto ha presentato le relazioni della commissione centrale e delle province che non erano rappresentate all’assemblea, ma hanno dei LMC nei loro paesi (Ciad, Malawi-Zambia e Etiopia).

Uno dei problemi più discussi è stata la mancanza di comunicazione fra la commissione africana e le diverse province dell’Africa, dovuta soprattutto alle difficoltà derivanti dalla differenza di lingue parlate nelle varie province e al difficile accesso alle nuove tecnologie della comunicazione, soprattutto con Internet, nella maggior parte dei paesi africani.

Per le conclusioni dell’assemblea, è stato adottato il metodo degli incontri di gruppo seguiti da plenaria, il 23 e 24, per poter successivamente rispondere alle seguenti domande: qual è il rapporto che esiste fra i LMC locali e i LMC stranieri che si trovano nel tuo paese? Quali sono le sfide e le strategie di cui tener conto per fare un cammino comune? Come possiamo condividere i contenuti della formazione dei vari paesi per riuscire ad avere una stessa base formativa a livello continentale? Che cosa ci manca per vivere la vocazione di LMC secondo le conclusioni di Layibi? Quali strategie seguire per poter vivere pienamente la vocazione LMC? Quali strategie adottare per arrivare all’indipendenza economica? Come possiamo organizzare il movimento dei LMC a tutti i livelli, formazione, rapporto fra LMC di diversi Paesi dell’Africa, vocazione, organizzazione, economia?

Nel pomeriggio del 24 e nella mattinata del 25, i laici si sono incontrati fra di loro per formulare le conclusioni mentre i comboniani e le comboniane ne hanno approfittato per parlare della loro collaborazione con i LMC e condividere alcune idee ed esperienze su come aiutarli a rafforzarsi in tutte le province comboniane.

È stato ricordato che questo impegno è stato assunto dai comboniani nel Capitolo Generale del 2009.

L’ultimo pomeriggio dei lavori sono state lette, discusse e approvate le conclusioni. Si è poi passati all’elezione della commissione africana: sono stati rieletti per i prossimi tre anni Dieudonné (Congo), Innocent (Uganda) e Márcia (Mozambico).

Infine è stato suggerito che il prossimo incontro si svolga nel luglio 2017 a Lomé (Togo); data e luogo dovranno comunque essere confermati dai superiori provinciali del settore.

Kinshasa

Sabato, il gruppo ha visitato il giardino botanico di “Kisantu-bas Congo” e la cattedrale di Kisantu, a circa 120 km da Kinshasa.

L’assemblea si è conclusa domenica con un incontro congiunto con i LMC congolesi di Kinshasa, nella sede provinciale di Kinshasa-Kingabwa, seguito dall’Eucaristia, presieduta da P. Joseph Mumbere, e da un pranzo fraterno.

Arlindo Ferreira Pinto.

In cammino con il Comboni

Mozambique

Ciao compagni di viaggio, la pace sia con voi!

In questi giorni si è tenuta l’Assemblea MCCJ nella Provincia del Mozambico. Come Famiglia Comboniana , le Suore Comboniane e noi LMC siamo stati invitati a partecipare alle prime due giornate. Questo ci ha permesso di conoscere meglio la nostra Provincia e i Missionari Comboniani che lavorano qui.

In quest’anno giubilare in cui si celebra il 150° anniversario del piano di Comboni, iniziamo con una riflessione di Padre Vitor Dias, educatore del noviziato di Santarém in Portogallo. Come sognare, fare esperienza ed annunciare Cristo, Comboni e la gioia del Vangelo di oggi, nella nostra vita quotidiana, nelle nostre azioni?

Abbiamo condiviso i nostri sentimenti, le nostre esperienze di Cristo nella missione, e così, come gli artigiani realizzano un tappeto, abbiamo condiviso questa riflessione. Termino qui, consapevole del fatto che molte cose restano ancora da dire. Ecco qualche punto:

Siamo invitati, come Comboni, all’incontro con Dio, senza farci condizionare dai nostri impegni, in modo che insieme a Lui abbiamo sempre questo atteggiamento: “Io sono qui per qualunque cosa Tu voglia”, quindi lasciamoci ogni giorno, ispirare, innamorare, appassionare, sfidare dal Signore della missione.

Una metodologia di incontro, che ci permetta di vivere la Pastorale dell’incontro con le persone in un atteggiamento di ascolto e di dialogo. Osare vivere la missione come “saluto”, iniziare un “cammino” con le comunità, in modo che nelle riunioni informali, annunciamo Cristo e permettiamo a noi stessi di essere evangelizzati da coloro che ci accolgono.

Vi ricordate l’atteggiamento di Papa Francesco quando lasciando l’auto andò dall’anziana signora? Ciò non ebbe un maggiore impatto sulle persone, non rivestì carattere di grande annuncio di Cristo, piuttosto che mille parole pronunciate ad un microfono?

Per questo, anche noi dobbiamo lasciare la nostra “auto”, spogliarci di ciò che siamo e abbiamo (educazione, stile di vita, esperienze personali) per trovare l’altro, la nostra comunità e le persone che ci hanno accolto, dall’essenza di ciò che le persone sono. E’ un invito ad un atteggiamento di umiltà; a trovare l’altro partendo da ciò che l’altro è. Una sfida importante, non è vero?

Piano di Comboni: riproduzione o attualizzazione? Potremmo dire entrambi gli atteggiamenti. Un atteggiamento di riproduzione rispetto al piano di Comboni in ciò che è la sua massima espressione: la libertà della persona umana. D’altra parte uno degli aspetti fondamentali del Piano è la dimensione dell’oggi. Un piano che non è solo carta, ma azioni che generano vita, una vita che vogliamo in abbondanza: per questo è essenziale partire da ciò che si è già costruito per contestualizzare la nostra realtà di oggi, dove si è. Cerchiamo di lasciare il “vecchio” per iniziare il “nuovo” partendo da un atteggiamento di continuo discernimento.

Qual’è il nuovo atteggiamento? Cosa vogliamo? Realizzare strutture o costruire con la gente? Edifici in pietra o insediamenti umani?

Questa la sfida: cerchiamo di non diventare semplici amministratori di strutture create ma cerchiamo, inventiamo nuove opportunità, senza paura, con speranza e fiducia, non in un atteggiamento di “chi viene per dare” ma di chi “viene per imparare e camminare insieme”.

Cogliere la ricchezza della diversità, in modo che possiamo impostare il ritmo per una missione in crescente collaborazione e reciproca assistenza fra le persone con cui lavoriamo, in modo che essi siano sempre più i protagonisti della missione e della loro vita.

Vi lasciamo con la domanda: “Come incarniamo il Vangelo oggi?”

Nella consapevolezza che nessuno di noi ha tutto e che nessuna cultura impoverisce il Vangelo, camminiamo con il timore del viandante e il cuore pieno di fiducia nel Signore della missione, che ci chiama ad affrontare le sfide con fiducia e ottimismo.

“La pace sia con voi” e “Non abbiate paura!”

Vi aspetto in Mozambico  😉

MozambiqueMárcia Costa. LMC in Mozambico.

Saluti dall’Africa!!!

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Finalmente i nostri sogni si sono avverati. Siamo di nuovo in Africa. Siamo nella Casa provinciale a Kampala da sabato. Trascorreremo qui circa 2 settimane. Il nostro tempo è prevalentemente impegnato nella visita a luoghi diversi e ad incontrare persone nuove. A poco a poco si entra nell’atmosfera e nella cultura dell’Uganda. Tutto è nuovo, tutto ci attrae, ci sono talmente tante cose da vedere, da conoscere che a volte è impossibile ricordare tutto, soprattutto i nomi. Ma poco a poco, lentamente stiamo imparando tutto.

Siamo molto felici di essere qui. Ad ogni passo ci si sente come a casa. La gente ci sorprende  per la loro apertura, l’accoglienza, il sostegno e la cortesia.

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Durante la prima settimana abbiamo potuto visitare diverse comunità e vedere alcuni dei progetti realizzati dai Comboniani non solo a Kampala. Abbiamo incontrato anche gli LMC che vivono e lavorano a Kampala. Hanno la loro casa, dove si svolgono gli incontri e dove alcuni laici vivono. Alcuni hanno una famiglia, e vivono in altro luogo, ma ogni giorno vengono nella casa degli LMC. Inizialmente ci hanno parlato di loro, degli LMC in Uganda, degli ambienti in cui lavorano, che cosa fanno e come si svolge la loro formazione. Subito ci siamo sentiti a casa, ci sentiamo una comunità, che ha lo stesso obiettivo e la stessa motivazione. Grazie a loro, abbiamo avuto la possibilità di conoscere la vita e la cultura dell’Uganda, grazie ad una serie di incontri svoltisi su vari argomenti. Grazie a tutto questo possiamo conoscere l’atmosfera che è presente a Kampala, in Uganda.

kampala2Siamo anche in attesa del fratello Elio, che torna da una vacanza e con lui andremo a Gulu, il luogo dove trascorreremo i prossimi due anni. Non vediamo l’ora di vedere la nostra missione… ma dobbiamo pazientare ancora. Al momento stiamo cercando di sfruttare al massimo il tempo qui a Kampala. Abbiamo iniziato a conoscere i padri e le suore comboniane che vivono qui. Naturalmente, tutti conoscono Gulu, e quindi da loro otteniamo anche informazioni sulla nostra nuova casa – l’orfanotrofio di St. Jude. Abbiamo imparato la storia, ma anche le importanti sfide che sicuramente incontreremo. Gli incontri sono stati estremamente fruttuosi, perché tutti ci hanno dato consigli; e, grazie a questo, siamo sempre più consapevoli di ciò che vivremo a St. Jude, ma anche delle iniziative cui saremo coinvolti.

Saluti e grandi abbracci per tutti gli LMC.

Asia e Ewa

Con il cuore nella missione

P._Enrique_Sanchez

“Con l’avvicinarsi della festa del Sacro Cuore – venerdì 27 giugno – desidero condividere con voi questa piccola riflessione perché ci aiuti a prepararci a questa celebrazione fissando il nostro sguardo in quel Cuore aperto da cui nasce la nostra vocazione missionaria, per attingere le forze di cui abbiamo bisogno in questo momento del nostro cammino come eredi di san Daniele Comboni”. P. Enrique Sánchez G., mccj.

Con il cuore nella missione

“Io non voglio tacerle qui che, allorché la S. Sede mi ha affidato questa vasta e laboriosa Missione, la mia coscienza era un po’ titubante, perché conoscevo la mia piccolezza di fronte a questo mandato enorme che Dio mi ha affidato tramite il suo augusto Vicario Pio IX. Allora io ho pensato che con le nostre forze non riusciremo mai a fondare il cattolicesimo in queste immense regioni dove la Chiesa, malgrado gli sforzi di tanti secoli, non è giammai riuscita. Allora ho gettato tutta la mia confidenza nel Sacro Cuore di Gesù e ho stabilito di consacrare tutto il Vicariato al Sacro Cuore di Gesù il 14 settembre prossimo. A questo scopo ho inviato una circolare per fare questa grande solennità e ho pregato l’apostolo ammirabile del S. Cuore, il P. Ramière, a redigere l’atto di Consacrazione solenne, ciò che egli ha fatto” (Scritti3318).

Cari confratelli,
Con l’avvicinarsi della festa del Sacro Cuore desidero condividere con voi questa piccola riflessione perché ci aiuti a prepararci a questa celebrazione fissando il nostro sguardo in quel Cuore aperto da cui nasce la nostra vocazione missionaria, per attingere le forze di cui abbiamo bisogno in questo momento del nostro cammino come eredi di san Daniele Comboni.

Il 31 luglio del 1873, san Daniele Comboni scrisse una lettera a Mons. Joseph De Girardin, dalla quale ho preso il testo con cui inizio questa mia riflessione. L’ho scelto perché mi sembra che contenga alcuni elementi che corrispondono alla realtà che ci troviamo ad affrontare in questo momento della nostra vita e della nostra missione e che meritano una riflessione da parte nostra.

Come a quel tempo, anche oggi non è difficile affermare che la missione a noi affidata continua ad essere vasta e laboriosa; spesso essa ci appare molto più esigente e al di là delle nostre forze. E questo – lo dico subito – non è un aiuto a viverla con responsabilità ed efficacia.

Negli ultimi trent’anni, infatti, l’Istituto si è sviluppato considerevolmente e nel suo processo di crescita si è impegnato in tanti settori, su molti fronti e in tante e diverse realtà missionarie la cui vastità è evidente. L’immenso Vicariato dell’Africa centrale è diventato per noi ancora più immenso, con una presenza in quattro continenti e una diversità d’impegni missionari tale da farci credere di essere presenti su tutti i fronti della missione. Questo fatto, per alcuni di noi, è un bene, sembra rispondere al bisogno di affermare un ego, ci fa credere che siamo grandi missionari perché portiamo il Vangelo in tutti gli angoli del pianeta e in tutte le periferie dell’umanità, per usare un’espressione cara a Papa Francesco.

Alla vastità, bisogna poi aggiungere la laboriosità, la complessità di una missione che è esigente, sfidante e in profondo cambiamento per la frenetica trasformazione del mondo e della società. La missione sta cambiando senza darci il tempo di capire in quale direzione orientarci e il grande rischio sembra essere un’incapacità, da parte nostra, a essere in anticipo su questi mutamenti.

Ma la laboriosità che oggi la missione esige diventa sfida alla nostra creatività, alla nostra capacità di metterci in discussione, di sognare per intraprendere sentieri nuovi che possono costringerci a camminare su terreni sconosciuti, inauditi – come ci è stato detto qualche tempo fa – invitandoci a non vivere del lascito che abbiamo ereditato e che può ingannarci con una pretesa di onnipotenza missionaria.

Comboni, in quella lettera del 1873, si diceva titubante perché conosceva la sua piccolezza. Anche noi oggi stiamo diventando più consapevoli della nostra piccolezza, e non solo perché le statistiche ci ricordano la costante diminuzione del personale. Non penso sia solo questione di numeri. Credo che questa piccolezza possa farci capire che le nostre forze non saranno mai sufficienti per rispondere alle esigenze della missione e che il Signore non fa i suoi calcoli usando la matematica.

Sagrado CorazónAllora, come orientare il nostro sguardo, dove attingere le forze e la luce per vivere radicalmente la nostra vocazione missionaria comboniana?

Penso che per noi, oggi, la piccolezza debba essere misurata guardando alla nostra qualità di vita, alla coerenza nel portare avanti i nostri impegni personali e le opzioni di vita che abbiamo fatto, alla capacità di non essere superficiali nel vivere la nostra consacrazione religiosa per la missione, alla nostra totale disponibilità nell’andare a servire i più poveri, alla libertà di non lasciarci confondere dalle facili suggestioni del nostro mondo: consumismo, apparenza, superficialità, ecc.

Senza far riferimento a nessuno in particolare e senza voler rimproverare, penso che ognuno di noi debba riconoscere la propria povertà, la propria fragilità e il proprio limite, la tentazione di far diventare la missione qualcosa che mi serve e non invece quella realtà che mi chiama a donarmi senza condizioni e senza usare pretesti per farla diventare una “missione su misura”.

Ho una profonda ammirazione per tanti confratelli che vivono con enorme entusiasmo, dedizione e spirito di sacrificio in situazioni di indicibile violenza e pericolo. Sono quelle pietre nascoste di cui – ci ricorda Comboni – c’è bisogno per costruire la missione. È alla luce di queste testimonianze che dobbiamo misurare la nostra risposta alla chiamata che abbiamo ricevuto e riusciremo a scoprire quanto grandi, forti e capaci potremo essere per abbracciare la missione che ci viene affidata oggi.

Comboni dice con molta umiltà: “ho pensato che con le nostre forze non riusciremo mai”. Non è un’espressione di scoraggiamento, è anzi la convinzione di portare con sé una missione che non dipende da noi. “Allora ho gettato tutta la mia confidenza nel Sacro Cuore di Gesù”. Forse, e senza il forse, penso sia il momento per noi di fare quest’esperienza di abbandono e di fiducia, di fede e di apertura all’azione di Dio nella nostra vita, che non vuol dire rifugiarsi in una spiritualità che ci porta fuori dalla realtà o dalla responsabilità di impegnarsi nella costruzione del Regno.

Confidare nel Sacro Cuore di Gesù è, anche per noi oggi, la sfida che ci obbliga a sporcarci le mani nella trasformazione della nostra umanità, attraverso il nostro servizio missionario, senza dimenticare che l’unico e vero protagonista della missione è e sarà sempre il Signore.

Se Comboni ha voluto consacrare il suo Vicariato a questo Cuore, che non è altro che l’amore senza limiti di Dio per ognuno di noi e per tutti quelli ai quali ci manda come suoi missionari, penso che valga la pena vivere questa festa rinnovando la nostra disponibilità perché il Signore realizzi i suoi piani su di noi, riconoscendo che la missione che nasce dal suo Cuore ha un bel futuro. Per questo dobbiamo viverla nella fiducia che il Signore non ci deluderà.
Buona festa a tutti.
P. Enrique Sánchez G. mccj

La nuova evangelizzazione alla luce di Evangelii Gaudium

Ir EnzoI responsabili delle pubblicazioni comboniane europee – Germania (DSP), Spagna, Italia, Polonia, Portogallo e Regno Unito (LP) – si sono riuniti dal 26 al 30 maggio a Londra. Il tema scelto per la riflessione di quest’anno, “La nuova evangelizzazione e i mezzi di comunicazione sociale comboniani”, è stato presentato da Fr. Enzo Biemmi (nella foto), religioso della Congregazione dei Fratelli della Sacra Famiglia. Pubblichiamo qui di seguito il testo del suo intervento.

La nuova evangelizzazione alla luce di Evangelii Gaudium

In questo mio intervento cerco di indicarvi alcune linee importanti sulla nuova evangelizzazione così come le percepisco partendo dalla mia sensibilità e dai miei punti di osservazione. Ho partecipato nel 2012 al Sinodo sulla nuova evangelizzazione. Tengo conto ancora di più della forte novità costituita da Papa Francesco e in particolare dalla Evangelii Gaudium.

Divido in cinque parti il mio intervento. Segnalo prima di tutto il contesto nel quale ci troviamo, contesto che segna la fine di un certo cristianesimo. Preciso poi l’orizzonte, che è quello missionario. In terzo luogo indico le condizioni che rendono possibile l’annuncio del vangelo nel cuore delle donne e degli uomini di oggi. Ricupero alcuni aspetti di contenuto, che permettono di introdurre e chiarire la nozione di primo e secondo annuncio. Infine delineo alcuni tratti di stile, in modo che sia un secondo annuncio evangelico.

1. Il contesto

Vorrei delineare il contesto attuale attraverso un’immagine. In un incontro di formazione che ho avuto il 24 giugno scorso con il clero della diocesi di Rovigo, nel Triveneto, don Luigi, parroco della parrocchia di Ramodipalo di Lendinara mi raccontava che proprio quel giorno, 20 anni prima, la sua chiesa aveva subito una vera catastrofe. I fedeli se ne erano già andati e lui aveva appena chiuso la porta. Improvvisamente tutto diventò nero, poi un grande boato e una nuvola di polvere. Quando la polvere si fu diradata don Luigi rimase senza fiato. Non c’era più il campanile! Una tromba d’aria lo aveva sradicato e lasciato cadere rovinosamente sul tetto della chiesa. Gli chiesi se avevano ricostruito il campanile. Mi disse che avevano ristrutturato la chiesa, riaperta 12 anni dopo, ma il campanile no, per mancanza di soldi. Ho iniziato il mio intervento con i parroci della diocesi di Rovigo con quel ricordo. La chiesa ha conosciuto in questi ultimi anni un vero e proprio tornado. Quel campanile, simbolicamente al centro di ogni paese, segnava una coincidenza tra il civile e il religioso e faceva della chiesa il centro della vita della gente. Quel campanile crollato è una realtà di ogni comunità ecclesiale nella cultura annuale, sicuramente in quella europea. Ho terminato il mio incontro con i preti di Rovigo invitando a trasformare una disgrazia in una scelta e a ristrutturare la pastorale non ricostruendo più il campanile, e non per mancanza di risorse economiche e umane, ma per scelta, per quella che possiamo chiamare una nuova figura di comunità ecclesiale tra le case della gente.

Questa immagine esprime bene dal mio punto di vista sia la situazione attuale rispetto alla fede, sia l’approccio di Evangelii Gaudium.

Siamo a pochi passi dalla fine del cristianesimo sociologico. Di quel cristianesimo, cioè, nel quale cristiano e cittadino coincidevano e nel quale non si poteva essere altro che cristiani: la fede ereditata, e di conseguenza dovuta, scontata, obbligata. È terminato il tempo del «catecumenato sociologico» (Joseph Colomb). Siamo in un tempo nel quale le persone, immerse in un pluralismo culturale e religioso, scelgono se essere cristiani o meno, perché la cultura attuale non trasmette più la fede, ma la libertà religiosa. La risposta inadeguata a questa situazione è quella della nostalgia, che pastoralmente si traduce nel moltiplicare l’impegno pastorale per riportare le cose riguardanti la fede a come erano prima, quando tutti e tutte si riferivano alla chiesa. Si tratta di una generosità pastorale mal orientata. Se la Chiesa continua a rimanere fissata su ciò che le sta alle spalle, sarà trasformata ben presto in una statua di sale (Gn 19,26).

La direzione giusta è invece quella di una pastorale della proposta, di una comunità che nel suo insieme, in tutte le sue espressioni e dimensioni, si fa testimone del Vangelo dentro e non contro il proprio contesto culturale.

Noi siamo nati come lievito; nel tempo siamo diventati pasta; diventando pasta (cristianesimo sociologico) abbiamo perduto la nostra forza lievitante. Il Signore sta riconducendo la sua Chiesa a vivere come una minoranza. La tentazione ecclesiale può essere quella di ripiegarci in una “minoranza setta”, cioè “a parte” della storia e della cultura, o, peggio, una minoranza “contro”. Come essere minoranza lievito e non minoranza setta o minoranza contro? Questa è la posta in gioco. È su questo punto che si gioca il futuro della fede cristiana. L’appello, di cui il papa si fa autorevole eco, è di divenire una minoranza “per”, a favore della pasta. Ricuperiamo allora lo spirito della lettera a Diogneto, che così si esprimeva: «i cristiani sono, nel mondo, ciò che è l’anima nel corpo»[1] (Lettera a Diogneto, 6).

C’è da rammaricarsi di fronte all’attuale scenario non più cristiano? Per Evangelii Gaudium c’è da gioire, perché quello che ci aspetta è potenzialmente meglio di quello che stiamo perdendo. Usciamo dal cristianesimo dell’abitudine e dell’obbligo, andiamo verso una adesione alla fede segnata da libertà e gratuità. Mi sembra questo un primo elemento decisivo da accogliere da Evangelii Gaudium: esprime fin dal titolo la gioia, una gioia che manifesta la disponibilità ad abitare questa cultura senza più campanili come situazione favorevole per l’annuncio del Vangelo.

Occorre però riconoscere, per una corretta lettura pastorale, che non siamo ancora del tutto in una situazione di fine della cristianità, almeno in una parte dell’Europa. Noi dobbiamo ancora gestire, nel bene e nel male, i riflessi condizionati del cristianesimo sociologico, che in alcuni paesi europei e come strato presente in molte persone porta ancora a riferirsi alla sfera del religioso come elemento di tradizione. Considerare questo come negativo sarebbe un errore di valutazione. È piuttosto un dato ambivalente. Questa ambivalenza tra il permanere di alcune abitudini religiose e la secolarizzazione delle mentalità è, al contempo, risorsa e fatica nella pastorale ecclesiale. Di fronte a tale situazione dobbiamo, da una parte, valorizzare quanto ancora permane di tradizione (ad esempio, non disprezzando la domanda di riti, che «permangono credibili e incidono più a lungo di tutti i nostri discorsi teologici»[2]); d’altra parte eviteremo di lasciarci ingannare dall’effetto polverone (del campanile caduto) o dall’“effetto miraggio”.

Ciò che resta di « cristianità » nelle abitudini sociali deve essere valorizzato per il passaggio da una fede frutto di convenzione ad una fede di convinzione. Fin d’ora lavoriamo per un cristianesimo che verrà. Questo atteggiamento esige coraggio e saggezza pastorale.

2. La svolta missionaria

Evangelii gaudium assume questa prospettiva e invita a una svolta: da una pastorale di conservazione a una pastorale della proposta.

«… è necessario passare « da una pastorale di semplice conservazione a una pastorale decisamente missionaria » (EG 15).

«Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. La riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie, che la pastorale ordinaria in tutte le sue istanze sia più espansiva e aperta, che ponga gli agenti pastorali in costante atteggiamento di “uscita” e favorisca così la risposta positiva di tutti coloro ai quali Gesù offre la sua amicizia. Come diceva Giovanni Paolo II ai Vescovi dell’Oceania, « ogni rinnovamento nella Chiesa deve avere la missione come suo scopo per non cadere preda di una specie d’introversione ecclesiale ». (EG 27).

Si colloca su questo punto la differenza forte tra il Sinodo sulla nuova evangelizzazione e Evangelii gaudium. Il Sinodo aveva dato una risposta spirituale alla sfida: perché l’evangelizzazione sia nuova occorre che diventino “nuovi” gli evangelizzatori. L’invito alla conversione è stato la parola d’ordine (si veda il Messaggio al popolo di Dio). I motivi sono noti: la celebrazione del Sinodo ha coinciso con una grave crisi interna alla Chiesa: pedofilia, lotte di potere in Vaticano, scandalo dello IOR. Ma il Sinodo aveva fatto metà strada. Papa Francesco va oltre e propone l’altra metà: la conversione personale chiede la conversione istituzionale, cioè la riforma.

È la ripresa di quanto affermato nell’Enciclica di Giovanni Paolo II Ut unum sint del 1995: «Nel magistero del Concilio vi è un chiaro nesso tra rinnovamento, conversione e riforma. Esso afferma: “La Chiesa peregrinante è chiamata da Cristo a questa continua riforma di cui essa stessa, in quanto istituzione umana e terrena, ha sempre bisogno…”» (9). Il nesso rinnovamento – conversione – riforma risulta determinante perché la Chiesa sia “sacramento”, cioè segno e strumento. Nel nostro caso, il rinnovamento dell’evangelizzazione (“nuova”) richiede innanzitutto la conversione dei singoli credenti (auto evangelizzazione) e prende corpo come riforma della figura di Chiesa, affinché tutto in essa parli del Vangelo, affinché le parole siano visibili nella forma di vita e il modo di vivere sia esplicitato nelle parole. Non è altro che la conseguenza per la Chiesa dello stesso stile di Dio: «eventi e parole intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, mentre le parole proclamano le opere e illustrano il mistero in esse contenuto» (Dei Verbum, 2).

È questo un punto decisivo e la sfida più importante dell’evangelizzazione ed è anche la sfida di Papa Francesco.

3. La visione di fede e di evangelizzazione

Ma c’è un secondo aspetto di novità notevole nell’approccio di Papa Francesco. Rigurada ciò che motiva la Chiesa al compito dell’annuncio. Delineo quindi l’orizzonte nel quale si colloca Evangelii gaudium.

A)– La condizione fondamentale: Lo Spirito è stato diffuso in tutti i cuori

L’orizzonte corretto per ogni azione di evangelizzazione è la consapevolezza che la Chiesa in senso proprio non dona la fede, ma la testimonianza della fede. È lo Spirito Santo che genera la fede, in quanto è il solo che può aprire la libertà delle persone e renderle disponibili alla grazia della Pasqua. Quindi, se noi possiamo con tranquillità testimoniare la fede è perché siamo consapevoli che lo Spirito è stato effuso in tutti i cuori, e che quindi la “grazia prima” della Pasqua ha già misteriosamente raggiunto tutti e lo Spirito agisce in tutti. Su questa realtà poggia ogni atto di evangelizzazione. Noi non facciamo che rendere possibile quello che già è in atto.

«Cristo, infatti, è morto per tutti e la vocazione ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella divina, e perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire a contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale» (GS 22).

B)– La fede “non necessaria”

Per questo motivo, se noi partiamo dalla consapevolezza che la “grazia prima” (secondo l’espressione di André Fossion) o fede elementare (secondo l’espressione di Christophe Theobald) è diffusa in tutti i cuori, dobbiamo anche concludere che si può essere umani, si può vivere la vita senza un riferimento esplicito al Signore Gesù, in quanto è il Dio stesso di Gesù Cristo a essersi reso “non necessario” (questo è appunto il senso profondo del dono dello Spirito a Pentecoste: Il Risorto sottrae la sua vicinanza fisica perché sia possibile la sua “presenza”, una presenza nella forma della discrezione assoluta, della disponibilità senza necessità). Questa affermazione, per chi ha incontrato il Signore Gesù, non significa affatto che Gesù Cristo non sia necessario, ma che l’adesione esplicita a lui non ne condiziona l’amore, la disponibilità e la salvezza. Fuori di Lui non c’è salvezza, fuori dalla Chiesa sì[3]. Gli uomini e le donne di oggi perseguono la loro felicità spesso fuori dalla mediazione della Chiesa e della fede esplicita nel Signore Gesù. Dentro le loro traversate umane (le stesse incrociate dal secondo annuncio) possono trovare un senso anche senza la fede.

C)– La fede determinante e l’evangelizzazione necessaria

La fede in Cristo sarebbe dunque secondaria? E l’annuncio sarebbe facoltativo? Non necessario? Chi ha incontrato il Signore Gesù è vincolato al suo comando: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15); «Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt 28,19). Tale comando sembra in contrasto con quanto detto sopra sulla fede “non necessaria”. Qual è dunque il senso di questo comando del Risorto?

Paolo VI si esprimeva così:

«Non sarà inutile che ciascun cristiano e ciascun evangelizzatore approfondisca nella preghiera questo pensiero: gli uomini potranno salvarsi anche per altri sentieri, grazie alla misericordia di Dio, benché noi non annunziamo loro il Vangelo; ma potremo noi salvarci se, per negligenza, per paura, per vergogna – ciò che s. Paolo chiamava “arrossire del Vangelo” – o in conseguenza di idee false, trascuriamo di annunziarlo?» (EN 80).

Il senso di questo testo è il seguente: Dio può salvare e salva al di là del nostro annuncio; ma se noi non annunciamo, potremo essere salvi? Non nel senso che non evangelizzando manchiamo a un dovere, ma nel senso che noi, oggetto grazioso della grazia seconda, non l’abbiamo fatta nostra, non ci ha raggiunto. E allora è legittima la domanda sulla nostra salvezza. Se l’incontro con il Signore Gesù ha raggiunto la nostra vita, questo non può essere tenuto per se stessi. Se è tenuto per noi stessi, allora non ci ha raggiunto, e quindi è legittima la domanda sulla nostra salvezza.

«L’entusiasmo nell’evangelizzazione si fonda su questa convinzione. Abbiamo a disposizione un tesoro di vita e di amore che non può ingannare, il messaggio che non può manipolare né illudere. È una risposta che scende nel più profondo dell’essere umano e che può sostenerlo ed elevarlo. È la verità che non passa di moda perché è in grado di penetrare là dove nient’altro può arrivare … non è la stessa cosa aver conosciuto Gesù o non conoscerlo, non è la stessa cosa camminare con Lui o camminare a tentoni, non è la stessa cosa poterlo ascoltare o ignorare la sua Parola, non è lo stessa cosa poterlo contemplare, adorare, riposare in Lui, o non poterlo fare. Non è la stessa cosa cercare di costruire il mondo con il suo Vangelo piuttosto che farlo unicamente con la propria ragione. Sappiamo bene che la vita con Gesù diventa molto più piena e che con Lui è più facile trovare il senso ad ogni cosa. E’ per questo che evangelizziamo» (Evangelii Gaudium, 264-266).

D)– La motivazione: la gioia

La motivazione dell’annuncio è duplice: la gioia di quanto ci è stato dato gratuitamente e la carità, vale a dire il desiderio di donare agli altri quanto di più prezioso abbiamo senza merito nostro:

«perché la nostra gioia sia piena» (1 Gv1,1-4).

Questo è l’orizzonte dell’evangelizzazione secondo Evangelii gaudium. Il testo infatti ècaratterizzata da un’inclusione: inizia con la gioia del Vangelo, termina con lo Spirito Santo: evangelizzatori con Spirito. Inizia dicendo che tutto parte dalla gioia della scoperta di Gesù Cristo, finisce dicendo che l’evangelizzazione è l’azione misteriosa dello Spirito e che l’annuncio da parte della comunità ecclesiale è una “diaconia dello Spirito”, un servizio di mediazione alla sua opera.

Veniamo così sganciati da ogni “necessità” nel campo della fede (sia ricevuta che donata) e ci poniamo nella linea della gratuità. Consideriamo la fede come supplemento di grazia, paradossalmente “non necessaria ma determinante” (André Fossion). Questa esperienza di un gratis determinante (“non è la stessa cosa…”) è fonte della nostra gioia e della necessità intrinseca di comunicarla.

4. Le condizioni

A)– C’è un tempo per…

Se guardiamo alle condizioni perché l’annuncio raggiunga gli uomini e le donne di oggi dobbiamo tornare a quanto dice la parabola del seminatore (Mc 4). La libertà è condizionata da molti aspetti (l’amore avuto o non avuto, l’educazione, il carattere, le situazioni concrete…) e i ritmi sono per ognuno diversi. Il tempo opportuno non può essere programmato. Per questo la parabola del seminatore sceglie la logica dello spreco, distribuendo con ampi gesti il seme della parola su ogni terreno, senza distinzioni (lettura cristologica della parabola del seminatore, Mc 4, 3-9).

B)– Il tempo opportuno: le crepe

Sappiamo però con sufficiente certezza (partendo ciascuno dalla nostra esperienza) che il tempo opportuno sono normalmente le “crepe” che si aprono dentro le esperienze umane che come adulti e adulte viviamo nell’arco della nostra vita. Non è di solito nei periodi di stabilità (culturale, affettiva, economica, fisica…) che l’annuncio può farsi sentire in noi, ma quando gli equilibri raggiunti vengono sconvolti. A queste rotture noi diamo il nome di “crisi”, intese come l’intervenire di una discontinuità nella propria vita, una discontinuità per eccesso o per difetto. Per eccesso: l’apparire di un di più gratis che sorprende (come un amore che si affaccia improvviso, un figlio che nasce, una causa che appassiona, una cosa bella che sorprende). Per difetto: l’affacciarsi di una minaccia di morte (una perdita, una situazione di solitudine, una ferita, un fallimento, una malattia, un lutto). Le sorprese sono delle possibili aperture, le ferite possono diventare feritoie. Le “crisi” intese come interruzione dell’ordinario sono possibili “soglie di accesso alla fede”[4]. Dentro queste esperienze ci viene incontro il mistero umano nelle sue due facce: quello della vita e quello della morte. In ognuno di questi passaggi è in gioco un’esperienza pasquale: il desiderio di vita e la minaccia della morte: vale per un innamoramento, la nascita di un figlio, una crisi affettiva, una malattia, ecc[5].

Si colloca in questi passaggi il tempo favorevole per l’annuncio. Esso presuppone dei testimoni e una comunità che in queste pasque umane proclamino la pasqua del Signore: «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato. Ora, come potranno invocarlo senza aver prima creduto in lui? E come potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi?» (Rom 10,13-14).

5. Il contenuto

È utile a questo punto introdurre due nozioni che ci aiutino a comprendere meglio in cosa consiste l’evangelizzazione secondo Evangelii Gaudium: sono le espressioni di primo e secondo annuncio.

A)– Il primo annuncio

Papa Francesco si esprime così:
«Abbiamo riscoperto che anche nella catechesi ha un ruolo fondamentale il primo annuncio o “kerygma”, che deve occupare il centro dell’attività evangelizzatrice e di ogni intento di rinnovamento ecclesiale… Sulla bocca del catechista torna sempre a risuonare il primo annuncio: “Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti, e adesso è vivo al tuo fianco ogni giorno, per illuminarti, per rafforzarti, per liberarti”». (Evangelii gaudium, 164).

Attraverso una semplicità disarmante, Evangelii Gaudium riconduce all’essenziale: in un contesto missionario occorre tornare all’essenziale, al fondamento della fede, che non è la dottrina, ma un evento testimoniato nel kerigma.

B)– Il secondo annuncio

Papa Francesco prosegue così:
«Quando diciamo che questo annuncio è “il primo”, ciò non significa che sta all’inizio e dopo si dimentica o si sostituisce con altri contenuti che lo superano. È il primo in senso qualitativo, perché è l’annuncio principale, quello che si deve sempre tornare ad ascoltare in modi diversi e che si deve sempre tornare ad annunciare durante la catechesi in una forma o nell’altra, in tutte le sue tappe e i suoi momenti….

Tutta la formazione cristiana è prima di tutto l’approfondimento del kerygma che va facendosi carne sempre più e sempre meglio, che mai smette di illuminare l’impegno catechistico, e che permette di comprendere adeguatamente il significato di qualunque tema che si sviluppa nella catechesi» (Evangelii gaudium, 164-165).

Da questi testi possiamo trarre tre connotazioni:

a)– Il primo annuncio è tale non solo in senso cronologico ma prima di tutto in senso genetico. Evangelii gaudium parla di primo qualitativo, i Vescovi italiani nella nota sul primo annuncio parlano di primo in senso genetico o fondativo: « La “priorità” del primo annuncio – scrivono – va intesa soprattutto in senso genetico o fondativo: alla base di tutto l’edificio della fede sta il «fondamento… che è Gesù Cristo» (1Cor 3,11) (CEI, Questa è la nostra fede, 6).

b)– Il secondo annuncio è il primo che “si fa carne sempre più e sempre meglio” nelle differenti traversate e situazioni della vita umana. Come c’è un primo sì ma quello decisivo è speso il secondo, così ci sono primi annunci ma quelli decisivi sono spesso i secondi, che quindi per molti sono i primi effettivi. Possiamo allora parlare di “secondo primo annuncio”.

c)– Per questi motivi diventa chiaro che il primo annuncio e il secondo primo annuncio mirano a una totalità intensiva, che è di tipo relazionale: l’affidamento della propria vita al Signore Salvatore. Annunciano la bella notizia della pasqua del Signore Gesù dentro l’esistenza umana.

« Una pastorale in chiave missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine che si tenta di imporre a forza di insistere. Quando si assume un obiettivo pastorale e uno stile missionario, che realmente arrivi a tutti senza eccezioni né esclusioni, l’annuncio si concentra sull’essenziale, su ciò che è più bello, più grande, più attraente e allo stesso tempo più necessario. La proposta si semplifica, senza perdere per questo profondità e verità, e così diventa più convincente e radiosa» (Evangelii gaudium 35).

Di conseguenza vengono riviste tutte le priorità dell’evangelizzazione: l’annuncio dell’amore di Dio precede la richiesta morale; la gioia del dono precede l’impegno della risposta; l’ascolto e la prossimità precedono la parola e la proposta.

«La centralità del kerygma richiede alcune caratteristiche dell’annuncio che oggi sono necessarie in ogni luogo: che esprima l’amore salvifico di Dio previo all’obbligazione morale e religiosa, che non imponga la verità e che faccia appello alla libertà, che possieda qualche nota di gioia, stimolo, vitalità, ed un’armoniosa completezza che non riduca la predicazione a poche dottrine a volte più filosofiche che evangeliche. Questo esige dall’evangelizzatore alcune disposizioni che aiutano ad accogliere meglio l’annuncio: vicinanza, apertura al dialogo, pazienza, accoglienza cordiale che non condanna» (Evangelii gaudium 165).

C)– “Soccorso simbolico” e annuncio di salvezza

Ma di fatto, quale contenuto hanno il primo annuncio e il secondo primo annuncio? Che apporto danno alla vita delle persone?

Daniele Loro (docente di pedagogia degli adulti all’Università di Verona) con molta pertinenza definisce l’apporto dell’annuncio cristiano come “proposta interpretativa”, come offerta di significato religioso nei passaggi della vita.

Egli afferma che la condizione per vivere una transizione come opportunità di crescita e come secondo annuncio è che la persona acceda ad una lettura simbolica di quello che vive. Non basta vivere delle transizioni, bisogna poterne interpretare il senso, afferma Loro. Potremmo allora dire che l’apporto del secondo primo annuncio è un “soccorso simbolico”.

Alla luce delle Scritture noi possiamo dire che il primo annuncio è certamente un soccorso interpretativo. I racconti postpasquali lo certificano. Si veda ad es. il “soccorso simbolico” del risorto ai due di Emmaus, soccorso che avviene aiutandoli ad interpretare i fatti recenti di Gerusalemme aprendo loro le Scritture. Ma questa prospettiva è solo un aspetto del dono del kerigma. C’è un di più determinante: è l’annuncio che dentro le morti umane il Signore morto e Risorto si presenta come il Salvatore, colui che libera dalla morte. Il kerigma non aiuta solo a trovare un senso nei passaggi della vita, annuncia una Presenza che tira fuori e salva. Afferma che nel Crocifisso Risorto la morte non ha più l’ultima parola. Questo è il di più del kerigma della fede rispetto ad una prospettiva di accompagnamento pedagogico delle persone, un di più non in contrasto con tale accompagnamento umano, ma in un rapporto di continuità e di eccedenza con esso. La differenza è che Gesù Cristo non è solo il compagno di viaggio dell’uomo (colui che si fa vicino e spiega), è soprattutto il suo Salvatore (colui che assume e salva).

È chiaro che questo è anche il salto della fede: l’affidamento o meno di se stessi a tale annuncio.

5. Lo stile missionario

Possiamo ora accennare, ma solo come promemoria, alcuni tratti conseguenti dello stile dell’annuncio nella prospettiva di Evangelii Gaudium.

È il contenuto stesso del primo annuncio e l’orizzonte sopra indicato che dettano lo stile della missione, ciò che André Fossion definisce “evangelizzare in maniera evangelica”. Questo stile può essere indicato con tante sfaccettature. Ne sottolineo tre.

A)– La sospensione del giudizio: speranza

Il primo tratto dello stile dell’evangelizzazione è la sospensione del giudizio. Ogni persona è adatta al vangelo a partire dalla situazione nella quale si trova. È amata da Dio a prescindere. L’annuncio parte dalla partenza e non dal traguardo. E punta sulla speranza intesa come scommessa affidabile.

B)– Fuori da ogni contratto: gratuità

L’annuncio non chiede condizioni preliminari. È unilaterale. È donato in atteggiamento di assoluta gratuità. A monte, l’annuncio chiede di uscire da ogni prospettiva di cristianità, nella quale si esigevano alcune condizioni morali per essere cristiani. A valle non calcola risultati, non fa censimenti. Lascia che la parola donata porti il suo frutto nella misura della possibilità della libertà umana e dell’azione dello Spirito Santo. Per questi motivi il vangelo rende l’evangelizzatore totalmente libero.

C)– La testimonianza: santità (corrispondenza)

Il terzo tratto dello stile dell’evangelizzazione che mi piace ricordare è sicuramente la santità (personale, ecclesiale) intesa come corrispondenza tra forma e contenuto (Christophe Theobald). La Chiesa e ogni singolo testimone sono nella loro vita la visibilità (e dunque la prova della verità) del contenuto che annunciano. Tale esigenza è insita alla fede, perché il Gesù Cristo annunciato è l’icona stessa della santità di Dio, in quanto nella sua vita c’è stata perfetta autenticità, perfetta corrispondenza tra contenuto e forma del suo annuncio[6].

Riportata alla Chiesa (e a ogni singolo credente) tale santità resta una “corrispondenza salvata”, quindi mai compiuta. In questo senso possiamo dire che la debolezza di chi annuncia è a sua volta testimonianza della gratuità dell’annuncio.

Questa “corrispondenza salvata” a mio parere è un punto decisivo di Evangelii Gaudium e segna la differenza dell’approccio di Papa Francesco al tema dell’evangelizzazione rispetto al Sinodo sulla nuova evangelizzazione. Io posso testimoniare che Evangelii Gaudium è andata molto oltre il Sinodo sulla nuova evangelizzazione, a cui ho partecipato come esperto, e ha spazzato via ogni forma di equilibrismo ecclesiastico e di compromesso, cosa che spesso avviene nella composizione dei documenti ecclesiali. Il Sinodo aveva detto che l’evangelizzazione richiede la conversione personale. Evangelii Gaudium dice che la conversione esige la riforma, perché le parole della fede personale siano confermate dalle parole della fede inscritte nelle strutture ecclesiali. Papa Francesco parla di consuetudini, stili, orari, linguaggio e strutture. Si tratta di una ripresa decisa di quanto affermava Evangelii Nuntiandi: la Chiesa evangelizza non solo con le parole, ma con la forma che essa si dà dentro la storia. La sua organizzazione esprime la sua missione. Evangelii Gaudium appare molto più che una esortazione apostolica postsinodale (termine che è stato volutamente omesso nel documento). È piuttosto una dichiarazione della forma che la Chiesa è chiamata ad assumere in tutte le sue dimensioni e quindi di una vera ri-forma. La missione diventa così la chiave di ripensamento della figura del cristianesimo, della Chiesa, della sua pastorale.

D)– Implicito e esplicito

Infine vale la pena ricordare che un tratto decisivo dell’annuncio sta nell’assumere volentieri il rapporto tra implicito e esplicito, vale a dire tra le parole esplicite quando è possibile dirle e quelle implicite. “Annunciate sempre il Vangelo, se necessario anche con le parole” (Papa Francesco ai catechisti, settembre 2013, riprendendo un’espressione di san Francesco). Le parole sono importanti, lo sappiamo per esperienza. Quando è il momento non devono mancare, perché hanno una forza sacramentale. Ma spesso la parola più profonda e l’unica possibile è quella di una presenza che custodisce per l’altro la speranza. L’annuncio implicito che si esprime nella prossimità ci fa custodi di speranza per coloro che in quel momento, in quel passaggio di vita non sono in grado di sperare. Questa custodia è il kerigma.

È per questo che la carità è la parola ultima dell’evangelizzazione, non un passaggio per arrivare ad essa. La carità è la forma che l’evangelizzazione prende quando essa parte dalle periferie e non dal centro.

Conclusione

Evangelii Gaudium segna una forte discontinuità con la concezione di evangelizzazione diffusa nella Chiesa, soprattutto occidentale. Tale discontinuità è basata prima di tutto su uno sguardo di speranza sull’attuale cultura, cioè sulle donne e sugli uomini di oggi. Eravamo ormai assuefatti dai lunghi elenchi degli “ismi”, stanchi delle continue denunce contro la cultura attuale da parte di una Chiesa che si riteneva indenne dalla storia. Lo sguardo di Francesco non è ingenuo, ma punta su quanto lo Spirito può fare nei cuori, a partire dai nostri cuori, dalle persone che sono nella chiesa e che in essa svolgono un servizio di diaconia o di profezia. Dentro una situazione ecclesiale depressa egli parte dall’annuncio della gioia, la gioia di avere scoperto il tesoro e la perla rara, e di non poterli tenere per se stessi. È a questa esigenza intrinseca che egli dà il nome di “missione”, chiedendo che ogni aspetto renda visibile e possibile per tutti di essere raggiunti dall’amore di Dio. A partire da questo orizzonte è in grado di riportare ogni espressione ecclesiale al suo giusto posto, distinguendo l’essenziale dal consequenziale, ristabilendo la gerarchia delle verità della fede.

Evangelii Gaudium ha una falcata di vantaggio rispetto alla concezione di evangelizzazione e di pastorale diffusa nelle nostre chiese. Papa Francesco sta provocando la Chiesa con un testo magisteriale carico di profezia. Era da tempo che non avevamo insieme queste due dimensioni: quella magisteriale e quella profetica. Ora, che la profezia diventi un atto di magistero è veramente una novità. Evangelii Gaudium ci obbliga ad allungare il passo.

 

 

[1] Lettera a Diogneto, 6.

[2] S. Tremblay, Le dialogue pastoral, Bruxelles, Lumen Vitae – Montréal, Novalis 2005, p. 40.

[3] «Dio ha legato la salvezza al sacramento del battesimo, tuttavia egli non è legato ai suoi sacramenti» (Catechismo chiesa cattolica, n. 1257).

[4] VESCOVI DELLE DIOCESI LOMBARDE, La sfida della fede: il primo annuncio, EDB 2009, 11-26.

[5] Sto personalmente coordinando un progetto di raccolta e interpretazioni di pratiche di evangelizzazione detto “progetto secondo annuncio” (www.secondoannuncio.it) . Abbiamo selezionato cinque esperienze “soglia”:
* generare e lasciar partire (l’esperienza della genitorialità nelle sue varie fasi)
* errare (nel significato di esplorare e di sbagliare)
* legarsi, lasciarsi, essere lasciati (l’esperienza degli affetti)
* appassionarsi e compatire (il lavoro e la festa, la politica, il volontariato…)
* sperimentare la fragilità e vivere il proprio morire.

[6] Theobald parla di tre aspetti della credibilità assoluta di Gesù e del suo messaggio. Il primo è «l’ “autorità” (Mc 1,21.27, ecc. e parall.) di colui che brilla con la sua semplice presenza, perché in lui pensieri, parole ed azioni sono assolutamente coerenti in una sorta di semplicità di coscienza immediatamente accessibile agli altri: Gesù dice quello che pensa e fa quello che dice, niente di più, niente di meno»; il secondo è che « egli è anche in grado di imparare da un altro ciò che egli stesso è e ciò che “può” fare (cfr. ad esempio Mc 1,40ss; 5,30; 6,34; 7, 29; ecc., e parall.)»; il terzo indice di credibilità è che «Gesù non si attribuisce mai la capacità di convincere dall’esterno i suoi interlocutori della fondatezza della notizia di bontà. Al contrario, egli risveglia ciò che già vive nel loro cuore o nella loro coscienza, la “fede”, della quale egli così riconosce che ha la sua origine “altrove”», cioè dal Padre («Figlia, la tua fede ti ha salvata» (Mc 5,34; Lc 8,43; Mt 9,22). Theobald chiama tutto questo “santità”, corrispondenza perfetta tra contenuto e forma. Si veda: Theobald C., L’annuncio del Vangelo in un contesto secolarizzato, relazione tenuta a Verona, 12 marzo 2014.