Laici Missionari Comboniani

La mano tesa: potere di Dio

Commentario a Mc 1, 40-45: Domenica, 15 febbraio 2015

Leggiamo l’ultima parte del Capitolo primo di Marco, che abbiamo letto dalla terza a questa sesta domenica del tempo ordinario. Meditando questa lettura, che ci parla della esperienza di un lebbroso guarito da Gesù, dopo il suo tempo di preghiera in solitudine, mi fermo a quattro riflessioni:

Riconoscere la propria debolezza e trasformala in supplica
La prima cosa che mi chiama l’attenzione è che il lebbroso –con una malattia considerata allora grave e vergognosa- non nasconde la sua realtà, non dice come l’ubriaco: “io non ho bevuto”; al contrario, si riconosce malato e bisognoso di aiuto; non racchiude se stesso nella solitudine e la disperazione, ma esce del suo isolamento e fa un atto di fiducia in se stesso, nel prossimo, in Gesù.
Lo sappiamo: la prima cosa da fare per guarire è accettare che uno è malato, non auto-ingannarsi mosso da un falso orgoglio. La seconda è riconoscere che uno da solo non riesce a uscire dalla malattia, da una adizione che mi schiavizza, da una situazione di conflitto sterile… Nel nostro tempo, si parala molto di auto-stima e sono tantissimi i libri di auto-aiuto; anche un famoso e rispettato teologo ha scritto un libro di spiritualità col titolo “Bere dal proprio pozzo”. E hanno ragione: ognuno di noi è un figlio/figlia di Dio, ha una dignità inalienabile e i propri doni a risorse…
Ma la mia esperienza mi dice che l’auto-stima e l’auto-aiuto non bastano. In certi momenti, bisogna saper chiedere aiuto; andare da un’altro/a, che è in grado di prestarci il necessario aiuto materiale, una buona parola, una spinta morale… In questa esperienza si trova anche la preghiera di supplica, che soltanto y poveri e umili capiscono veramente. I ricchi e orgogliosi non chiedono, loro comandano. Ma guai di coloro che sempre si considerano ricchi! Sicuramente mentono. La preghiera del lebbroso, invece, è caratteristica della persona umile: “Signore, si vuoi, puoi guarirmi”.

Imagen%20101[1]La mano stesa, potere di Dio
Davanti alla supplica sincera del lebbroso –fatta con il cuore e con la vita, più che con le parole– Gesù stende la mano e lo tocca. “Stendere la mano” su situazioni e persone, è un gesto che nella Bibbia ha molto a ché vedere con il potere salvatore di Dio. Lo ha fatto Mosè all’ora di traversare il Mare Rosso; lo facevano i profeti per passare il suo potere spirituale ai successori, lo facevano gli apostoli. Ma noi sappiamo che il vero potere di Dio è il suo amore. In effetti, come ha detto papa Benedetto XVI, “solo il amore redime”. L’amore fatto carezza, l’amore fatto gesto d’incoraggiamento, l’amore fatto benda per le ferite, l’amore fatto parola limpida e veritiera, l’amore fatto comprensione e solidarietà in mille forme diverse.
In Gesù, questo amore di Dio si è fatto persona concreta, carezza, sguardo che capisce e anima, mano che tocca a guarisce. Anche la Chiesa – comunità di discepoli missionari, estensione di Gesù Cristo nel oggi della storia– si fa: mano tesa che si unisce a la parola per dire ai umiliati: coraggio, io voglio, guarisci. Certo, la malattia fa parte di tutta esperienza umana, non sarà mai dal tutto eliminata, ma la parte più difficile della malattia è il sentirsi diminuiti, indifesi, un “nessuno”… In quel momento, la mano di Gesù e della Chiesa si stende per dirci: Non avere paura, tu sei prezioso, avanti.

Ritornare alla comunità
Gesù comanda al lebbroso guarito di presentarsi ai responsabili della comunità e realizzare i riti necessari per la sua re-integrazione alla stessa. Si tratta di riti che, anche se discutibili in se stessi, tengono unita la comunità; sono come i vimini di un canestro: ognuno da solo è poca cosa, ma tutti insieme, adeguatamente organizzati, costituiscono il canestro, bello e utile… Così succede con i riti di una comunità umana e cristiana: in se stessi, isolati, sono discutibili; ma nel suo insieme aiutano a mantenere viva la comunità e fortificano la vita di tutti.
Ricordo che, nei miei tempi di missionario in Ghana, ho dovuto trattare il caso di una donna accusata di stregoneria. Dopo una serie di dialoghi e di riti con la comunità locale, l’ho accompagnata a casa e l’ ho capito il problema: per certe ragioni, che non è il caso di menzionare adesso, quella signora era diventata una “lebbrosa”, isolata dalla comunità. La soluzione per il suo problema includeva la sua re-integrazione alla vita della comunità: lavori, riti, feste, problemi, gioie… Molti di noi abbiamo bisogno con una certa frequenza di una spinta spirituale per ritornare pienamente alla comunione: in famiglia, in comunità, nei gruppi, in parrocchia… E per fare questo abbiamo bisogno della mano e della parola di Gesù.

Il segreto messianico
Gesù dice al lebbroso di fare silenzio su quello che è avvenuto. Si tratta del famoso “segreto messianico”, con cui, secondo gli esperti, Gesù voleva proteggersi da una falsa interpretazione (politica, trionfalista) della sua missione.
Mi pare che in questa nostra epoca noi siamo troppo preoccupati di apparire nei media. Esagerando, si può dire che qualche volta sembra che siamo disposti a “vendere l’anima” per apparire sulla TV o altri media di comunicazione. Alcuni artisti dicono: “Che parlino di me, anche male; l’importante è che parlino”. Gesù ci mostra una altra strada: quella dell’autenticità, della verità di vita, della trasparenza… Quello non vuol dire fuggire dalla piazza pubblica o dai media. Ma cercare la pubblicità in se stessa non sembra essere il metodo missionario di Gesù. E neanche quello di una santa del nostro tempo, molto “coccolata” dai media, come Teresa di Calcuta. L’importante è cercare la verità di Dio, il resto arriverà quando dio vorrà.
P. Antonio Vilalrino
Roma

La casa-comunità, “ospedale di campagna”

Commentario a Mc 1, 29-39: DOMENICA, 8 FEBBRAIO 2015

Continua, in questa V Domenica ordinaria, la lettura del primo capitolo di Marco, che ci racconta una giornata tipica di Gesù a Cafarnao. La domenica scorsa avevamo letto la prima parte, contemplando Gesù nella sinagoga, che confrontava lo spirito “impuro”. Oggi lo vediamo fuori dalla sinagoga.
Nel mio commentario, seguirò quattro termini di riferimento:

La casa Cafarnaum, la tierra de Jesús

Gesù lascia la sinagoga per entrare nella casa di Simone Pietro, in compagnia di Andrea, Giacomo e Giovanni, oltre a Simone stesso, la cui casa diventa per un può di tempo il centro di operazioni di quella prima comunità di discepoli missionari. Nei vangeli, si ripete con una certa frequenza questa esperienza di Gesù che entra nelle case, particolarmente di persone riconosciute come “peccatori pubblici”: Levi, Zaccheo, Simone il fariseo… I suoi pranzi nelle case sono segni di fraternità, di festa, di perdono e di vita nuova. Anche la prime comunità cristiane si radunavano nelle case di qualche discepolo o discepola. In questo modo, la Chiesa aveva un aria di famiglia e fraternità, di vita vicina alle gioie e alle sofferenze delle persone.
Anche oggi, conosciamo tante famiglie che accolgono il Signore nelle loro case in mille modi, famiglie che fanno della loro casa un luogo d’incontro per coloro che seguono Gesù o per persone bisognose. Queste famiglie sono vere chiese domestiche, discepole di Gesù. Assieme a queste famiglie, io sogno una Chiesa laicale, “casalinga”, molto vicina alla vita concreta delle persone; una Chiesa fatta di piccole comunità di discepoli e discepole, amici e amiche, che si visitano, si aiutano a vicenda, si proteggono nei momenti di debolezza, si alzano per servirsi a vicenda, come ha fatto la suocera di Simone.

La casa che diventa “ospedale di campagna”.
Con la presenza di Gesù, la casa di Simone e della sua suocera, diventa un luogo sorgente di salute, dignità (la suocera malata “si alza in piedi”) e servizio. Nella casa di Simone, come nella sinagoga, Gesù appare come la rivelazione della bontà del Padre, del suo amore gratuito, che guarisce, dignifica, perdona, riconcilia, anima e invita a servire.
Questo è quello che Papa Francesco, con il suo linguaggio concreto ed efficace, ha definito come “ospedale di campagna”, una Chiesa serva in mezzo a un mondo ferito per le molte violenze fisiche, economiche, morali… Infatti, Quanti centri di salute nei luoghi più emarginati del mondo ha promosso la Chiesa! Quante scuole per bambini poveri! Quanti anziani accompagnati nei momenti più duri della loro esistenza! Quante persone illuminate con la parola, consolate, ascoltate con pazienza, perdonate! In un certo modo, possiamo essere orgogliosi di una Chiesa che nel mondo è veramente una comunità al servizio della vita e dei figli più bisognosi del Padre.
Ma, allo stesso tempo, sento che questo vangeli ci chiama anche a una conversione costante, personale e comunitaria: La chiesa di cui io sono parte (nella famiglia, nella comunità, nella parrocchia) non può diventare un castello chiuso, ma deve essere una casa aperta, una casa diventata “ospedale di campagna”.

Alba e tramonto, lavoro e preghiera, parola e silenzio.
P1060605All’alba, Gesù sparisce per andare in un luogo solitario, evidentemente, per trovare nell’intimità la Sorgente della sua vita interiore, per ristabilire (dopo la lotta di ogni giornata) i lacci affettivi con il Padre, per discernere e aggiornare il senso di tutto quello che dice e fa, evitando di perdersi in un attivismo senza direzione.

Qualcuno ha detto che il futuro sarà dei contemplativi, non di quelli che corrono da una parte all’altra, moltiplicando le parole vuote e i cuori risecchiti. Mi pare che investire in preghiera, con una fedele disciplina, è uno dei migliori investimenti per noi stessi, per la comunità e per la missione. Senza la preghiera diventiamo come delle foglie secche che il vento trascina senza nessun senso di direzione.

Varcare nuove frontiere.
Nelle lettura di oggi, i discepoli, assieme alle masse di beneficiati, vogliono ritenere Gesù, acchiapparlo nelle reti del loro interessato affetto. “Come si sta bene qui, facciamo tre tende!”, sembrano dire. Ma Gesù non si lascia “imprigionare”, si mantiene libero per annunciare il Regno altrove, senza confondere missione con soddisfazione personale o con l’applauso dei supposti tifosi…
Il successo può diventare una trappola, che ci fa accomodarci in quello già acquisito e dimenticare di continuare a camminare, a cercare nuovi orizzonti. Questo accade alle persone e alle comunità. Penso a tante parrocchie che si mostrano contente e orgogliose perché la loro chiesa si riempie durante le cinque messe della domenica. Ma attorno a quella parrocchia vivono più di 30.000 persone, delle quali forse mille o due mila vanno a Messa… Dove sono gli altri?
La passione missionaria di Gesù ci spinge a andare sempre oltre, a rompere le frontiere di ogni tipo, a aprirci a persone, gruppi a popoli nuovi, a non accontentarci di quello già acquisito per cercare nuovi orizzonti, sia nella vita personale sia nella comunità cristiana.
P. Antonio Villarino
Roma

La Giornata de Cafarnao

Mc 1, 21-28: DOMENICA 1 DI FEBBRAIO 2015

Cafarnaum

Abbiamo letto oggi dal capitolo primo di Marco la prima parte della prima giornata di Gesù a Cafarnao. Per riflettere su questo testo, vi propongo tre brevi spunti: sul luogo, sulla parola autorevole a sulla lotta tra spirti immondi e il santo di dio.

Prima di tutto, rendiamoci conto del luogo dove ci porta la narrazione di Marco.

Siamo a Cafarnao, una città al nord della Galilea, sulla riva del Lago di Genesaret, crocevia commerciale e culturale tra Palestina, Libano e Asiria . Cafarnao, come tutte le città di oggi, era un luogo dove bolliva la vita con tutti i suoi elementi, positivi e negativi.  Sicuramente, c’era una certa richezza, scambio di culture, presenza del Impero Romano (che era la grande potenza del momento), con la sua apertura alla modernità e alla globalizzazione. Ma c’era anche, sicuramente, molta  confusione, corruzione, ingiustizia, disprezzo dei poveri, miscredenza e presenza del male in generale, nelle persone e nelle strutture pubbliche… In questa città pluri-culturale, c’era anche una sinagoga, nella quale si ascoltava la parola di Dio ogni sabato, anche se forse con un atteggiamento di troppa sonnolenza e rutine.

Cafarnao può essere l’immagine della nostra propria città, della nostra civiltà attuale: anche in questa città c’è tanta vita, buona e meno buona; c’è tanta ricchezza, ma  anche tanta povertà, c’è generosità e c’è grande egoismo, c’è confusione e ricerca di novità. C’è miscredenza, ma anche fedeltà religiosa  desideriodi trovare Dio. E in questa nostra città c’è sicuramente Dio. C’è Gesù vivo nello Spirito, c’è il corpo di Cristo che è la Chiesa, che siamo noi chiamati a fare presenti in questo ambiente la verità e l’amore di Dio. Noi siamo, come Gesù e con Lui,  chiamati a essere missionari in questo ambiente, in queste nostre città, in questo nostro mondo in trasformazione. Come Gesù a Cafarnao, anche noi dobbiamo essere testimoni di Dio nella grande città, perché anche qui le persone cercano verità, bellezza, amore e liberazione.

La parola di autorità

Nella sinagoga di Cafarnao, dove tanti erano andati con fedeltà, ma anche forse con una certa rassegnazione, a sentire le solite parole del rabbino di turno, si trovano che quella giornata non è come tutti i sabati, che quel profeta che parla è differente, che in Gesù si fa presente una parola nuova, che stupisce e fa lodare Dio, perché parlava con autorità.

Possiamo domandarci dove stava quella autorità di Gesù, quella novità d’insegnamento?

A me pare che la parola, qualunque parola, ha autorità, diventa autorevole quando è vera, quando è autentica, quando corrisponde alla verità della vita. Non si tratta di concetti nuovi o di parole brillanti, ma di parola legata alla vita.

Io ho ascoltato una volta Madre Teresa di Calcuta. Come sapete, era una donna piccola, vecchia, per niente brillante, ma tutti la ascoltavamo con devozione. Diceva cose molto semplici, non erano “trovate” molto originali. Era la dottrina che tutti sappiamo. E invece: tutti noi, che eravamo lì a ascoltarla, ascoltavamo con molta attenzione, come dicendo: “é vero, quello che dice è vero”; e ci sentivamo illuminati, consolati, animati, incoraggiati. Il motivo era che quelle parole semplici e conosciute uscivano da una vita vissuta in sincerità e generosità. Quelle parole avevano lo stampo, la autorevolezza, dell’autenticità.

Così, penso io, erano le parole di Gesù, ma in un grado più alto. E, grazie alla risurrezione, le parole di Gesù, possono essere ascoltate ancora oggi e, se ascoltate da un cuore sincero, mostrano la sua verità e autorevolezza. E’ lui il maestro che ci guida nella vita, come nessun altro può fare. Ed è per questo che veniamo tutte le domeniche ad ascoltare la sua parola, proclamata dalla Chiesa. Ed è per questo che leggiamo il vangelo frequentemente, perché sappiamo che è parola di verità  e di vita.

Con Gesù anche noi siamo chiamati a diventare portatori, nelle Cafarnao di oggi, di parole autentiche. In certo modo, tutti noi abbiamo l’opportunità e il dovere di parlare e di insegnare, specialmente alcuni: preti, insegnanti, genitori…

Come fare perché la nostra parola sia autorevole? Penso che l’unica risposta sia: Quello che fa la nostra parola autorevole, con autorità, e la sua autenticità e la sua verità. I figli, per esempio, capiscono subito quando il papà dice verità  o quando racconta bugie. Ricordo quando ero in Ghana, i maestri obbligavano i bambini ad andare in chiesa la domenica, ma loro non andavano. Erano parole buttate al vento, come seminare nel mare.

Il discepolo missionario ogni giorno si affida a Gesù, Parola vera del Padre,  e chiede la grazia di diventare anche lui portatore di parole vere, che illuminano, guariscono, incoraggiano: in chiesa, a casa, nel lavoro, ovunque.

Il terzo punto è la prima battaglia che Marco ci racconta tra gli “spiriti immondi” e “il santo di Dio”.

Nella Bibbia, anche nei Vangeli, si parla parecchio di “spiriti immondi” o di “spiriti impuri”. E’ un linguaggio che non usiamo nei nostri tempi. Ma la realtà e l’esperienza che quel linguaggio racconta è oggi tanto reale come ai tempi di Gesù. Possiamo dire che con queste parole si fa riferimento a tutta quella realtà del mondo che si oppone a Dio e alla felicità dell’essere umano: che crea confusione, ingiustizia, disordine, caos, come succedeva al inizio della creazione, che in realtà ci fa schiavi e ci impedisce di diventare figli, liberi e liberatori.

Penso che nel mondo di oggi troviamo tanti spiriti immondi che ci appartano da Dio, ci fanno schiavi e creano confusione e caos. In questi giorni, subito viene a la nostra mente la violenza cecca che abbonda nel mondo di oggi. Ma ci sono tante altre cose “impure”, “immonde”, che ci opprimono: le dipendenze dalla droga, dal alcol, dal sesso senza controllo, da un consumo sfrenato… Penso alla corruzione politica, a la corruzione religiosa, alla arroganza che umilia e distrugge in poveri e i semplici…

Questo mondo corrotto, immondo, impuro, che è attorno a noi, ma anche in noi, diventa nervoso, violento, aggressivo, quando  si trova davanti al “santo di Dio”, quando si trova davanti a Gesù, che rappresenta la verità, la purezza, la libertà  e la santità di Dio.

Ma Gesù è capace di fare tacere questo spirito noioso, falsamente arrogante, distruttivo. Il potere di Dio è più forte ed e capace di vincere il male. A volte parliamo di Gesù come una persona buona, ma nel fondo forse pensiamo che è un debole, confondendo bontà con inconsistenza, invece Gesù si rivela anche come il potere di Dio, capace di liberarci dal male che è in noi e in torno a noi.

Noi come Chiesa, siamo eredi di questo potere di Gesù, che si manifesta nella carità attiva, nella parola giusta al tempo giusto, nei sacramenti del perdono  e del pane eucaristico, nella preghiera sincera e impegnata… Nutriti con la  parola e il corpo di Gesù, anche noi, come Gesù, nelle Cafarnao di oggi, siamo, non solo portatori della sua parola, ma anche guerrieri del su esercito di amore per vincere il male. La vittoria sul male esige una sua lotta, una sia consistenza, una sua perseveranza. A volte ci sentiamo mancare le forze, ma, fiduciosi nella presenza del Risuscitato, abbiamo la speranza di vincere.

P. Antonio Villarino MCCJ. Roma

 

Incontro dei Consigli Generali della Famiglia Comboniana

Consejos FamiliaComboniana

Sabato 24 gennaio 2015 i Consigli Generali della Famiglia comboniana si sono riuniti a Roma, nella casa della Curia Generalizia.

La mattinata è stata dedicata alla riflessione sulle sfide che ogni ramo della Famiglia si trova ad affrontare nei vari contesti di presenza e sulla necessità di vivere la missione a partire dai bisogni reali della gente. Abbiamo riflettuto anche sul fatto di essere diminuiti di numero, da qualche anno; d’altronde, una differenziazione dei nostri membri – sempre meno europei e sempre più americani e africani – ci porta a dover prendere in considerazione questa diversità e ad un nuovo stile di missione. Infine, ci siamo soffermati sulla nostra realtà di Famiglia carismatica, sul nostro stile di presenza e soprattutto sul nostro puntare ad essere seme di una Chiesa più comunitaria, nella quale sacerdoti, religiosi, religiose, secolari e laici possano condividere responsabilità e servire la gente in funzione, ciascuno, delle proprie capacità e specificità.

Nel pomeriggio abbiamo avuto l’opportunità di condividere gli eventi più rilevanti del 2014 e di essere aggiornati dalla commissione che prepara l’evento celebrativo del 150° Anniversario del Piano, che si svolgerà a Roma dal 13 al 15 marzo.

La giornata si è conclusa con un momento di preghiera e dandoci appuntamento per la fine dell’anno.

Messaggio del Papa per la Giornata della pace 2015

Papa Francisco“La globalizzazione dell’indifferenza, che oggi pesa sulle vite di tante sorelle e di tanti fratelli, chiede a tutti noi di farci artefici di una globalizzazione della solidarietà e della fraternità, che possa ridare loro la speranza”. Messaggio di Papa Francesco per la celebrazione della XLVIII Giornata mondiale della pace del 1 gennaio 2015.

Non più schiavi, ma fratelli

All’inizio di un nuovo anno, che accogliamo come una grazia e un dono di Dio all’umanità, desidero rivolgere, ad ogni uomo e donna, così come ad ogni popolo e nazione del mondo, ai capi di Stato e di Governo e ai responsabili delle diverse religioni, i miei fervidi auguri di pace, che accompagno con la mia preghiera affinché cessino le guerre, i conflitti e le tante sofferenze provocate sia dalla mano dell’uomo sia da vecchie e nuove epidemie e dagli effetti devastanti delle calamità naturali.

Prego in modo particolare perché, rispondendo alla nostra comune vocazione di collaborare con Dio e con tutti gli uomini di buona volontà per la promozione della concordia e della pace nel mondo, sappiamo resistere alla tentazione di comportarci in modo non degno della nostra umanità.

Nel messaggio per il 1° gennaio scorso, avevo osservato che al «desiderio di una vita piena … appartiene un anelito insopprimibile alla fraternità, che sospinge verso la comunione con gli altri, nei quali troviamo non nemici o concorrenti, ma fratelli da accogliere ed abbracciare».[1] Essendo l’uomo un essere relazionale, destinato a realizzarsi nel contesto di rapporti interpersonali ispirati a giustizia e carità, è fondamentale per il suo sviluppo che siano riconosciute e rispettate la sua dignità, libertà e autonomia.

Purtroppo, la sempre diffusa piaga dello sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo ferisce gravemente la vita di comunione e la vocazione a tessere relazioni interpersonali improntate a rispetto, giustizia e carità. Tale abominevole fenomeno, che conduce a calpestare i diritti fondamentali dell’altro e ad annientarne la libertà e dignità, assume molteplici forme sulle quali desidero brevemente riflettere, affinché, alla luce della Parola di Dio, possiamo considerare tutti gli uomini “non più schiavi, ma fratelli”.

PazIn ascolto del progetto di Dio sull’umanità

Il tema che ho scelto per il presente messaggio richiama la Lettera di san Paolo a Filemone, nella quale l’Apostolo chiede al suo collaboratore di accogliere Onesimo, già schiavo dello stesso Filemone e ora diventato cristiano e, quindi, secondo Paolo, meritevole di essere considerato un fratello. Così scrive l’Apostolo delle genti: «E’ stato separato da te per un momento: perché tu lo riavessi per sempre; non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo» (Fm 15-16). Onesimo è diventato fratello di Filemone diventando cristiano. Così la conversione a Cristo, l’inizio di una vita di discepolato in Cristo, costituisce una nuova nascita (cfr 2 Cor 5,17; 1 Pt 1,3) che rigenera la fraternità quale vincolo fondante della vita familiare e basamento della vita sociale.

Nel Libro della Genesi (cfr 1,27-28) leggiamo che Dio creò l’uomo maschio e femmina e li benedisse, affinché crescessero e si moltiplicassero: Egli fece di Adamo ed Eva dei genitori, i quali, realizzando la benedizione di Dio di essere fecondi e moltiplicarsi, generarono la prima fraternità, quella di Caino e Abele. Caino e Abele sono fratelli, perché provengono dallo stesso grembo, e perciò hanno la stessa origine, natura e dignità dei loro genitori creati ad immagine e somiglianza di Dio.

Ma la fraternità esprime anche la molteplicità e la differenza che esiste tra i fratelli, pur legati per nascita e aventi la stessa natura e la stessa dignità. In quanto fratelli e sorelle, quindi, tutte le persone sono per natura in relazione con le altre, dalle quali si differenziano ma con cui condividono la stessa origine, natura e dignità. E’ in forza di ciò che la fraternità costituisce la rete di relazioni fondamentali per la costruzione della famiglia umana creata da Dio.

Purtroppo, tra la prima creazione narrata nel Libro della Genesi e la nuova nascita in Cristo, che rende i credenti fratelli e sorelle del «primogenito tra molti fratelli» (Rm 8,29), vi è la realtà negativa del peccato, che più volte interrompe la fraternità creaturale e continuamente deforma la bellezza e la nobiltà dell’essere fratelli e sorelle della stessa famiglia umana. Non soltanto Caino non sopporta suo fratello Abele, ma lo uccide per invidia commettendo il primo fratricidio. «L’uccisione di Abele da parte di Caino attesta tragicamente il rigetto radicale della vocazione ad essere fratelli. La loro vicenda (cfr Gen 4,1-16) evidenzia il difficile compito a cui tutti gli uomini sono chiamati, di vivere uniti, prendendosi cura l’uno dell’altro».[2]

Anche nella storia della famiglia di Noè e dei suoi figli (cfr Gen 9,18-27), è l’empietà di Cam nei confronti del padre Noè che spinge quest’ultimo a maledire il figlio irriverente e a benedire gli altri, quelli che lo avevano onorato, dando luogo così a una disuguaglianza tra fratelli nati dallo stesso grembo.

Nel racconto delle origini della famiglia umana, il peccato di allontanamento da Dio, dalla figura del padre e dal fratello diventa un’espressione del rifiuto della comunione e si traduce nella cultura dell’asservimento (cfr Gen 9,25-27), con le conseguenze che ciò implica e che si protraggono di generazione in generazione: rifiuto dell’altro, maltrattamento delle persone, violazione della dignità e dei diritti fondamentali, istituzionalizzazione di diseguaglianze.

Di qui, la necessità di una conversione continua all’Alleanza, compiuta dall’oblazione di Cristo sulla croce, fiduciosi che «dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia … per mezzo di Gesù Cristo» (Rm 5,20.21). Egli, il Figlio amato (cfr Mt 3,17), è venuto per rivelare l’amore del Padre per l’umanità. Chiunque ascolta il Vangelo e risponde all’appello alla conversione diventa per Gesù «fratello, sorella e madre» (Mt 12,50), e pertanto figlio adottivo di suo Padre (cfr Ef 1,5).

Non si diventa però cristiani, figli del Padre e fratelli in Cristo, per una disposizione divina autoritativa, senza l’esercizio della libertà personale, cioè senza convertirsi liberamente a Cristo. L’essere figlio di Dio segue l’imperativo della conversione: «Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo» (At 2,38).

Tutti quelli che hanno risposto con la fede e la vita a questa predicazione di Pietro sono entrati nella fraternità della prima comunità cristiana (cfr 1 Pt 2,17; At 1,15.16; 6,3; 15,23): ebrei ed ellenisti, schiavi e uomini liberi (cfr 1 Cor 12,13; Gal 3,28), la cui diversità di origine e stato sociale non sminuisce la dignità di ciascuno né esclude alcuno dall’appartenenza al popolo di Dio. La comunità cristiana è quindi il luogo della comunione vissuta nell’amore tra i fratelli (cfr Rm 12,10; 1 Ts 4,9; Eb 13,1; 1 Pt 1,22; 2 Pt 1,7).

Tutto ciò dimostra come la Buona Novella di Gesù Cristo, mediante il quale Dio fa «nuove tutte le cose» (Ap 21,5)[3], sia anche capace di redimere le relazioni tra gli uomini, compresa quella tra uno schiavo e il suo padrone, mettendo in luce ciò che entrambi hanno in comune: la filiazione adottiva e il vincolo di fraternità in Cristo. Gesù stesso disse ai suoi discepoli: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15).

manifestacionI molteplici volti della schiavitù ieri e oggi

Fin da tempi immemorabili, le diverse società umane conoscono il fenomeno dell’asservimento dell’uomo da parte dell’uomo. Ci sono state epoche nella storia dell’umanità in cui l’istituto della schiavitù era generalmente accettato e regolato dal diritto. Questo stabiliva chi nasceva libero e chi, invece, nasceva schiavo, nonché in quali condizioni la persona, nata libera, poteva perdere la propria libertà, o riacquistarla. In altri termini, il diritto stesso ammetteva che alcune persone potevano o dovevano essere considerate proprietà di un’altra persona, la quale poteva liberamente disporre di esse; lo schiavo poteva essere venduto e comprato, ceduto e acquistato come se fosse una merce.

Oggi, a seguito di un’evoluzione positiva della coscienza dell’umanità, la schiavitù, reato di lesa umanità,[4] è stata formalmente abolita nel mondo. Il diritto di ogni persona a non essere tenuta in stato di schiavitù o servitù è stato riconosciuto nel diritto internazionale come norma inderogabile.

Eppure, malgrado la comunità internazionale abbia adottato numerosi accordi al fine di porre un termine alla schiavitù in tutte le sue forme e avviato diverse strategie per combattere questo fenomeno, ancora oggi milioni di persone – bambini, uomini e donne di ogni età – vengono private della libertà e costrette a vivere in condizioni assimilabili a quelle della schiavitù.

Penso a tanti lavoratori e lavoratrici, anche minori, asserviti nei diversi settori, a livello formale e informale, dal lavoro domestico a quello agricolo, da quello nell’industria manifatturiera a quello minerario, tanto nei Paesi in cui la legislazione del lavoro non è conforme alle norme e agli standard minimi internazionali, quanto, sia pure illegalmente, in quelli la cui legislazione tutela il lavoratore.

Penso anche alle condizioni di vita di molti migranti che, nel loro drammatico tragitto, soffrono la fame, vengono privati della libertà, spogliati dei loro beni o abusati fisicamente e sessualmente. Penso a quelli tra di loro che, giunti a destinazione dopo un viaggio durissimo e dominato dalla paura e dall’insicurezza, sono detenuti in condizioni a volte disumane.

Penso a quelli tra loro che le diverse circostanze sociali, politiche ed economiche spingono alla clandestinità, e a quelli che, per rimanere nella legalità, accettano di vivere e lavorare in condizioni indegne, specie quando le legislazioni nazionali creano o consentono una dipendenza strutturale del lavoratore migrante rispetto al datore di lavoro, ad esempio condizionando la legalità del soggiorno al contratto di lavoro… Sì, penso al “lavoro schiavo”.

Penso alle persone costrette a prostituirsi, tra cui ci sono molti minori, ed alle schiave e agli schiavi sessuali; alle donne forzate a sposarsi, a quelle vendute in vista del matrimonio o a quelle trasmesse in successione ad un familiare alla morte del marito senza che abbiano il diritto di dare o non dare il proprio consenso.

Non posso non pensare a quanti, minori e adulti, sono fatti oggetto di traffico e di mercimonio per l’espianto di organi, per essere arruolati come soldati, per l’accattonaggio, per attività illegali come la produzione o vendita di stupefacenti, o per forme mascherate di adozione internazionale.

Penso infine a tutti coloro che vengono rapiti e tenuti in cattività da gruppi terroristici, asserviti ai loro scopi come combattenti o, soprattutto per quanto riguarda le ragazze e le donne, come schiave sessuali. Tanti di loro spariscono, alcuni vengono venduti più volte, seviziati, mutilati, o uccisi.

Niño soldadoAlcune cause profonde della schiavitù

Oggi come ieri, alla radice della schiavitù si trova una concezione della persona umana che ammette la possibilità di trattarla come un oggetto. Quando il peccato corrompe il cuore dell’uomo e lo allontana dal suo Creatore e dai suoi simili, questi ultimi non sono più percepiti come esseri di pari dignità, come fratelli e sorelle in umanità, ma vengono visti come oggetti. La persona umana, creata ad immagine e somiglianza di Dio, con la forza, l’inganno o la costrizione fisica o psicologica viene privata della libertà, mercificata, ridotta a proprietà di qualcuno; viene trattata come un mezzo e non come un fine.

Accanto a questa causa ontologica – rifiuto dell’umanità nell’altro –, altre cause concorrono a spiegare le forme contemporanee di schiavitù. Tra queste, penso anzitutto alla povertà, al sottosviluppo e all’esclusione, specialmente quando essi si combinano con il mancato accesso all’educazione o con una realtà caratterizzata da scarse, se non inesistenti, opportunità di lavoro.

Non di rado, le vittime di traffico e di asservimento sono persone che hanno cercato un modo per uscire da una condizione di povertà estrema, spesso credendo a false promesse di lavoro, e che invece sono cadute nelle mani delle reti criminali che gestiscono il traffico di esseri umani. Queste reti utilizzano abilmente le moderne tecnologie informatiche per adescare giovani e giovanissimi in ogni parte del mondo.

Anche la corruzione di coloro che sono disposti a tutto per arricchirsi va annoverata tra le cause della schiavitù. Infatti, l’asservimento ed il traffico delle persone umane richiedono una complicità che spesso passa attraverso la corruzione degli intermediari, di alcuni membri delle forze dell’ordine o di altri attori statali o di istituzioni diverse, civili e militari. «Questo succede quando al centro di un sistema economico c’è il dio denaro e non l’uomo, la persona umana. Sì, al centro di ogni sistema sociale o economico deve esserci la persona, immagine di Dio, creata perché fosse il dominatore dell’universo. Quando la persona viene spostata e arriva il dio denaro si produce questo sconvolgimento di valori».[5]

Altre cause della schiavitù sono i conflitti armati, le violenze, la criminalità e il terrorismo. Numerose persone vengono rapite per essere vendute, oppure arruolate come combattenti, oppure sfruttate sessualmente, mentre altre si trovano costrette a emigrare, lasciando tutto ciò che possiedono: terra, casa, proprietà, e anche i familiari. Queste ultime sono spinte a cercare un’alternativa a tali condizioni terribili anche a rischio della propria dignità e sopravvivenza, rischiando di entrare, in tal modo, in quel circolo vizioso che le rende preda della miseria, della corruzione e delle loro perniciose conseguenze.

BakhitaUn impegno comune per sconfiggere la schiavitù

Spesso, osservando il fenomeno della tratta delle persone, del traffico illegale dei migranti e di altri volti conosciuti e sconosciuti della schiavitù, si ha l’impressione che esso abbia luogo nell’indifferenza generale. Se questo è, purtroppo, in gran parte vero, vorrei ricordare l’enorme lavoro silenzioso che molte congregazioni religiose, specialmente femminili, portano avanti da tanti anni in favore delle vittime.

Tali istituti operano in contesti difficili, dominati talvolta dalla violenza, cercando di spezzare le catene invisibili che tengono legate le vittime ai loro trafficanti e sfruttatori; catene le cui maglie sono fatte sia di sottili meccanismi psicologici, che rendono le vittime dipendenti dai loro aguzzini, tramite il ricatto e la minaccia ad essi e ai loro cari, ma anche attraverso mezzi materiali, come la confisca dei documenti di identità e la violenza fisica. L’azione delle congregazioni religiose si articola principalmente intorno a tre opere: il soccorso alle vittime, la loro riabilitazione sotto il profilo psicologico e formativo e la loro reintegrazione nella società di destinazione o di origine.

Questo immenso lavoro, che richiede coraggio, pazienza e perseveranza, merita apprezzamento da parte di tutta la Chiesa e della società. Ma esso da solo non può naturalmente bastare per porre un termine alla piaga dello sfruttamento della persona umana. Occorre anche un triplice impegno a livello istituzionale di prevenzione, di protezione delle vittime e di azione giudiziaria nei confronti dei responsabili. Inoltre, come le organizzazioni criminali utilizzano reti globali per raggiungere i loro scopi, così l’azione per sconfiggere questo fenomeno richiede uno sforzo comune e altrettanto globale da parte dei diversi attori che compongono la società.

Gli Stati dovrebbero vigilare affinché le proprie legislazioni nazionali sulle migrazioni, sul lavoro, sulle adozioni, sulla delocalizzazione delle imprese e sulla commercializzazione di prodotti realizzati mediante lo sfruttamento del lavoro siano realmente rispettose della dignità della persona. Sono necessarie leggi giuste, incentrate sulla persona umana, che difendano i suoi diritti fondamentali e li ripristinino se violati, riabilitando chi è vittima e assicurandone l’incolumità, nonché meccanismi efficaci di controllo della corretta applicazione di tali norme, che non lascino spazio alla corruzione e all’impunità.

E’ necessario anche che venga riconosciuto il ruolo della donna nella società, operando anche sul piano culturale e della comunicazione per ottenere i risultati sperati. Le organizzazioni intergovernative, conformemente al principio di sussidiarietà, sono chiamate ad attuare iniziative coordinate per combattere le reti transnazionali del crimine organizzato che gestiscono la tratta delle persone umane ed il traffico illegale dei migranti. Si rende necessaria una cooperazione a diversi livelli, che includa cioè le istituzioni nazionali ed internazionali, così come le organizzazioni della società civile ed il mondo imprenditoriale.

Le imprese[6], infatti, hanno il dovere di garantire ai loro impiegati condizioni di lavoro dignitose e stipendi adeguati, ma anche di vigilare affinché forme di asservimento o traffico di persone umane non abbiano luogo nelle catene di distribuzione. Alla responsabilità sociale dell’impresa si accompagna poi la responsabilità sociale del consumatore. Infatti, ciascuna persona dovrebbe avere la consapevolezza che «acquistare è sempre un atto morale, oltre che economico».[7]

Le organizzazioni della società civile, dal canto loro, hanno il compito di sensibilizzare e stimolare le coscienze sui passi necessari a contrastare e sradicare la cultura dell’asservimento.

Negli ultimi anni, la Santa Sede, accogliendo il grido di dolore delle vittime della tratta e la voce delle congregazioni religiose che le accompagnano verso la liberazione, ha moltiplicato gli appelli alla comunità internazionale affinché i diversi attori uniscano gli sforzi e cooperino per porre termine a questa piaga.[8] Inoltre, sono stati organizzati alcuni incontri allo scopo di dare visibilità al fenomeno della tratta delle persone e di agevolare la collaborazione tra diversi attori, tra cui esperti del mondo accademico e delle organizzazioni internazionali, forze dell’ordine di diversi Paesi di provenienza, di transito e di destinazione dei migranti, e rappresentanti dei gruppi ecclesiali impegnati in favore delle vittime. Mi auguro che questo impegno continui e si rafforzi nei prossimi anni.

PalomaGlobalizzare la fraternità, non la schiavitù né l’indifferenza

Nella sua opera di «annuncio della verità dell’amore di Cristo nella società»[9], la Chiesa si impegna costantemente nelle azioni di carattere caritativo a partire dalla verità sull’uomo. Essa ha il compito di mostrare a tutti il cammino verso la conversione, che induca a cambiare lo sguardo verso il prossimo, a riconoscere nell’altro, chiunque sia, un fratello e una sorella in umanità, a riconoscerne la dignità intrinseca nella verità e nella libertà, come ci illustra la storia di Giuseppina Bakhita, la santa originaria della regione del Darfur in Sudan, rapita da trafficanti di schiavi e venduta a padroni feroci fin dall’età di nove anni, e diventata poi, attraverso dolorose vicende, “libera figlia di Dio” mediante la fede vissuta nella consacrazione religiosa e nel servizio agli altri, specialmente i piccoli e i deboli.

Questa Santa, vissuta fra il XIX e il XX secolo, è anche oggi testimone esemplare di speranza[10] per le numerose vittime della schiavitù e può sostenere gli sforzi di tutti coloro che si dedicano alla lotta contro questa «piaga nel corpo dell’umanità contemporanea, una piaga nella carne di Cristo».[11]

In questa prospettiva, desidero invitare ciascuno, nel proprio ruolo e nelle proprie responsabilità particolari, a operare gesti di fraternità nei confronti di coloro che sono tenuti in stato di asservimento. Chiediamoci come noi, in quanto comunità o in quanto singoli, ci sentiamo interpellati quando, nella quotidianità, incontriamo o abbiamo a che fare con persone che potrebbero essere vittime del traffico di esseri umani, o quando dobbiamo scegliere se acquistare prodotti che potrebbero ragionevolmente essere stati realizzati attraverso lo sfruttamento di altre persone.

Alcuni di noi, per indifferenza, o perché distratti dalle preoccupazioni quotidiane, o per ragioni economiche, chiudono un occhio. Altri, invece, scelgono di fare qualcosa di positivo, di impegnarsi nelle associazioni della società civile o di compiere piccoli gesti quotidiani – questi gesti hanno tanto valore! – come rivolgere una parola, un saluto, un “buongiorno” o un sorriso, che non ci costano niente ma che possono dare speranza, aprire strade, cambiare la vita ad una persona che vive nell’invisibilità, e anche cambiare la nostra vita nel confronto con questa realtà.

Dobbiamo riconoscere che siamo di fronte ad un fenomeno mondiale che supera le competenze di una sola comunità o nazione. Per sconfiggerlo, occorre una mobilitazione di dimensioni comparabili a quelle del fenomeno stesso. Per questo motivo lancio un pressante appello a tutti gli uomini e le donne di buona volontà, e a tutti coloro che, da vicino o da lontano, anche ai più alti livelli delle istituzioni, sono testimoni della piaga della schiavitù contemporanea, di non rendersi complici di questo male, di non voltare lo sguardo di fronte alle sofferenze dei loro fratelli e sorelle in umanità, privati della libertà e della dignità, ma di avere il coraggio di toccare la carne sofferente di Cristo[12], che si rende visibile attraverso i volti innumerevoli di coloro che Egli stesso chiama «questi miei fratelli più piccoli» (Mt 25,40.45).

Sappiamo che Dio chiederà a ciascuno di noi: “Che cosa hai fatto del tuo fratello?” (cfr Gen 4,9-10). La globalizzazione dell’indifferenza, che oggi pesa sulle vite di tante sorelle e di tanti fratelli, chiede a tutti noi di farci artefici di una globalizzazione della solidarietà e della fraternità, che possa ridare loro la speranza e far loro riprendere con coraggio il cammino attraverso i problemi del nostro tempo e le prospettive nuove che esso porta con sé e che Dio pone nelle nostre mani.
FRANCISCUS

[1] N. 1.

[2] Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2014, 2.

[3] Cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 11.

[4] Cfr Discorso alla Delegazione internazionale dell’Associazione di Diritto Penale, 23 ottobre 2014: L’Osservatore Romano, 24 ottobre 2014, p. 4.

[5] Discorso ai partecipanti all’Incontro mondiale dei Movimenti popolari, 28 ottobre 2014: L’Osservatore Romano, 29 ottobre 2014, p. 7.

[6] Cfr Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, La vocazione del leader d’impresa. Una riflessione, Milano e Roma, 2013.

[7] Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 66.

[8] Cfr Messaggio al Sig. Guy Ryder, Direttore Generale dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, in occasione della 103ª sessione della Conferenza dell’O.I.L., 22 maggio 2014: L’Osservatore Romano, 29 maggio 2014, p. 7.

[9] Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 5.

[10] «Mediante la conoscenza di questa speranza lei era “redenta”, non si sentiva più schiava, ma libera figlia di Dio. Capiva ciò che Paolo intendeva quando ricordava agli Efesini che prima erano senza speranza e senza Dio nel mondo – senza speranza perché senza Dio» (Benedetto XVI, Lett.enc. Spe salvi, 3).

[11] Discorso ai partecipanti alla II Conferenza Internazionale Combating Human Trafficking: Church and Law Enforcement in partnership, 10 aprile 2014: L’Osservatore Romano, 11 aprile 2014, p. 7; cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 270.

[12] Cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 24; 270.

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http://w2.vatican.va/content/francesco/it/messages/peace/documents/papa-francesco_20141208_messaggio-xlviii-giornata-mondiale-pace-2015.html