Commentario a Gv 15, 9-17: VI Domenica di Pasqua, 10 maggio 2015
Continuiamo la lettura del vangelo di Giovanni, come nelle domeniche precedenti, ma questa volta passiamo dalle allegorie (Buon Pastore, Vite e tralci) a una diretta e commovente dichiarazione di amicizia in un circolo formato da Gesù, il Padre e i discepoli. V’invito a leggere questo testo, come se ognuno di noi fosse presente in quella stanza del “piano superiore” di quella casa di Gerusalemme, dove il Maestro era con i suoi amici, prima di affrontare l’ora decisiva della sua vita. Vediamo alcuni spunti:
1. L’ora decisiva, l’ora della verità
Dal capitolo 13 al capitolo 17, Giovanni ci racconta gesti, sentimenti e parole di Gesù in quelle ultime ore della sua vita, quando Lui aveva già percepito la gravità del conflitto con le autorità del suo popolo e quando sembrava che il suo progetto di rinnovamento profondo, il progetto del Regno del suo Padre, stava ormai andando verso il fallimento. Nel testo si sente una speciale forza emotiva, perché c’è in gioco molto di più di un’idea o un progetto; in gioco ci sono le relazioni profonde tra Gesù, i suoi amici e il Padre.
Di fatto, quella sera di Giovedì Santo era uno di quei momenti cruciali che capitano nella nostra vita, nei quali possiamo diventare dei codardi e traditori (fuggendo dal conflitto, per salvare la pelle) o dare il massimo della nostra generosità, re-affermando la nostra fedeltà senza se e senza ma, e la nostra capacità di dare anche la vita in una decisione suprema di fiducia in Dio en nel progetto al quale ci chiama. In questo momento supremo, Gesù celebra con i suoi amici la tradizione religiosa della Pasqua, facendola attutale e propria; e, come il popolo in Egitto, anche Lui si dispone a “passare”, in questo caso, “passare da questo mondo al Padre”. In un momento così non si scherza; la vita è giocata sul suo valore più autentico e si centra sul fondamentale, su quello che più ci importa.
2.- Alla fine, solo rimane l’amore
Gesù ha condiviso tre anni intensi con i suoi discepoli e discepole; assieme fecero lunghi viaggi, guarirono malati, annunziarono il perdono, mangiarono in amicizia, entrarono in discussione con i farisei, fecero proposte di rinnovamento morale… Adesso, quando arriva la fine, tutto questo sembra importante, ma fino a un certo punto anche secondario. Infatti, quello che più sta al cuore di Gesù in questo momento della verità è espresso chiaramente nel testo: “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi”. Rimanete nel mio amore”. Questo è la chiave di tutto.
Questo è il segreto della sua vita. Gesù non dubita, neanche nei momenti più tragici in cui esperimenta il fallimento, di essere amato dal Padre. Questa è la fonte di cui sorge la sua profonda serenità e gioia, che li fa godere la bellezza dei fiori e il canto degli uccelli, lodare Dio perché si manifesta ai piccoli e re-compone i cuori rotti. Questa è la radice della sua libertà di fronte ai moralismi fanatici di sinistra o di destra. Inoltre, questa sua esperienza di essere amato dal Padre, Lui la stende, con naturalità, al piccolo gruppo dei suoi amici, quelli che l’hanno seguito dalla Galilea e che, anche se non sempre lo capiscono cento per cento, li rimangono fedeli. Non c’è bisogno che siano perfetti e bravissimi. In questo momento solo importa una cosa: che Lui li ama sopra ogni cosa e chiede a loro di fare lo stesso. Loro non sono “servi” di un padrone, funzionari di un progetto politico o di una causa. Loro sono “amici”, anzi “fratelli” e condivide con loro tutto: gioie e tristezze, sogni e fallimenti e, sopra di tutto, l’amore del Padre.
3.- Rimanere
Ai suoi amici, Gesù solo chiede questo: Che si amino e chi rimangano nel suo amore. Ma l’amore che circola tra Gesù e i suoi amici, come il sangue del cuore ai membri del corpo, non à un sentimento “buon mercato” per persone superficiali, senza radici (come le piante in terra sabbiosa). E’ un’amicizia salda, radicata nella coscienza di essere figli dello stesso Padre e nella condivisione del sogno divino di una nuova umanità. Non si tratta di un’amicizia di “convenienza” (che dura fin che durano i benefici), ma un’amicizia che va oltre i fallimenti e i successi, un’amicizia che rimane salda nel tempo e che si apre a tutti quelli che vogliono camminare con Gesù e i suoi. Un’amicizia che porta a “accettare i comandamenti”, seguire gli insegnamenti dell’Amico-Maestro, non tanto perché è stato “comandato” quanto perché viene da Lui e a Lui vogliamo essere libera e appassionatamente fedeli. Un’amicizia che deviene vicinanza di cuore, concreto aiuto vicendevole, capacità di perdonare e comprensione, fedeltà gratuita… e tante altre cose di cui che ognuno di noi può esperimentare nella propria vita.
In ogni Eucarestia che celebriamo, noi re-affermiamo quest’amicizia, la facciamo crescere y chiediamo che diventi feconda, facendo che la nostra gioia sia piena, come Gesù ha promesso.
P. Antonio Villarino
Roma
Le riflessioni che seguono vogliono essere semplici commenti al secondo obiettivo proposto da Papa Francesco nella sua Lettera Apostolica a tutti i religiosi in occasione dell’Anno della Vita Consacrata dello scorso novembre 2014, allo scopo di aiutarci a vivere come missionari comboniani il nostro tempo. “La passione per un ideale, nel nostro caso, la missione, è legata all’entusiasmo. La passione non si conquista una volta per sempre. È come una pianta che dobbiamo curare e nutrire ogni giorno. Per questo è necessario trarre profitto da iniziative come quella che ci propone il Papa nell’Anno della Vita Consacrata, per rivedere come stiamo vivendo la nostra consacrazione e qual è il nostro legame con il Vangelo, con l’Istituto e con la missione”, scrive P. Rogelio Bustos Juárez, mccj.
VIVERE IL PRESENTE CON PASSIONE
“Il passato che è memoria e il futuro che è immaginazione li evochiamo dal presente”. (Sant’Agostino)
La sequela di Cristo, come riferimento primario
Quando si parla di nascita dei carismi, la storia della vita religiosa ci insegna che la prima cosa da cui sono partiti i fondatori e le fondatrici è stato il Vangelo. Dalla lettura attenta della Buona Novella hanno conosciuto Gesù Cristo, hanno ricevuto la Parola e hanno scoperto come potevano seguirlo. Alcuni hanno posto attenzione al Gesù taumaturgo che curava gli infermi, altri al Gesù Maestro che, con autorità, insegnava cose nuove; noi siamo stati colpiti dal Gesù itinerante che deve annunciare il Vangelo a tutti i popoli, poiché per questo è stato inviato.
Sono nate da lì le regole o costituzioni come base teorica per rendere viva l’intuizione carismatica. Nelle Regole del 1971, il nostro Fondatore diceva: Di certo uno spirito umile che ami sinceramente la sua vocazione e voglia essere generoso con il suo Dio, le osserverà di cuore considerandole come il cammino tracciato dalla Provvidenza, ma è importante dire chiaramente che le Costituzioni, la Regola di Vita e le tradizioni di qualsiasi Istituto conserveranno il loro vigore solo se e quando continueranno ad ispirarsi ai valori evangelici.
Per questo il Papa scrive: “La domanda che siamo chiamati a rivolgerci in questo Anno è se e come ci lasciamo interpellare dal Vangelo; se esso è davvero il ‘vademecum’ per la vita di ogni giorno e per le scelte che siamo chiamati ad operare. Esso è esigente e domanda di essere vissuto con radicalità e sincerità. Non basta leggerlo (anche se lettura e studio rimangono di estrema importanza), non basta meditarlo (e lo facciamo con gioia ogni giorno). Gesù ci chiede di metterlo in pratica, di vivere le sue parole.
Non sono sicuro se, dopo aver concluso la nostra formazione di base, tutti abbiamo preso sul serio la nostra formazione permanente. Oggi si parla di società liquida e amore liquido (cfr. Z. Bauman) per alludere a quella rapidità con cui stanno cambiando il mondo, la società, la Chiesa e la vita religiosa.
Il Vangelo è la fonte che, con il suo dinamismo e la sua attualità, può indicarci sentieri sui quali indirizzare i nostri passi. In proposito, uno strumento utile può essere il terzo capitolo della Evangelii gaudium (n. 111-173) nella quale Papa Francesco ci invita a rivedere il modo in cui ci avviciniamo alla Parola e la annunciamo.
Ma non basta essere esperti di teologia biblica o buoni pastoralisti se non siamo capaci di mettere in pratica quello che annunciamo. Siamo invitati a rivedere il posto che la Parola occupa nella nostra vita; se essa è veramente quella guida sicura alla quale ricorriamo quotidianamente e che a poco a poco ci fa assomigliare al Maestro.
Conformare la nostra vita al modello del Figlio
Se è Gesù Cristo che seguiamo, ci sarà di aiuto riflettere sulla seconda parte del nostro nome, “del Cuore di Gesù”, perché ci permetterà di approfondire la nostra identità. Quando nel 1885, attraverso Mons. Sogaro, la Santa Sede ci concesse di diventare Congregazione religiosa, fummo chiamati: Figli del Sacro Cuore di Gesù. Nel 1979 si giunse alla riunificazione e rinascemmo con il nome di Missionari Comboniani del Cuore di Gesù. È interessante il fatto che si mantenga il riferimento al Cuore di Gesù.
Papa Francesco nella sua lettera sostiene che se il Signore è il nostro primo e unico amore, potremo imparare da lui che cos’è l’amore e sapremo come amare perché avremo il suo stesso cuore, cioè ci identificheremo con Lui. È quanto hanno meditato e condiviso con noi alcuni Padri della Chiesa.
Sant’Ireneo di Lione, ad esempio, parla di “Gesù Cristo che, per la sovrabbondanza del suo amore, è diventato ciò che siamo noi per fare di noi ciò che Lui è” (Contro le eresie, Prefazione del libro V).
San Gregorio Nazianzeno sviluppa un altro aspetto: “Nella mia condizione terrena, sono legato alla vita di quaggiù, ma essendo anche una particella divina, porto in me questo desiderio della vita futura”.
L’uomo non è solo ordinato moralmente, regolato da un decreto sul divino, ma è del ghenos, della stirpe divina, come dice san Paolo, è “stirpe di Dio” (At 17,29).
Sant’Atanasio, nel Trattato sull’incarnazione del Verbo, sostiene che il Logos divino si è fatto carne, diventando come noi, per la nostra salvezza. E, con una frase giustamente divenuta celebre, scrive che il Verbo di Dio “si è fatto uomo perché noi arrivassimo ad essere Dio; si è reso visibile corporalmente perché avessimo un’idea del Padre invisibile, e sopportò la violenza degli uomini perché ereditassimo l’incorruttibilità” (54,3).
Il nostro Fondatore, san Daniele Comboni, facendo sua la spiritualità del suo tempo, seppe rispondere alle sfide della missione ispirandosi alla spiritualità del Sacro Cuore, ampliandone il significato, dandole un’impronta più sociale e missionaria.
Riassumendo, se quelli che hanno approvato il nostro nome hanno giudicato opportuno e necessario includervi il riferimento al Cuore di Gesù, è dunque necessario che ci identifichiamo sempre di più con i suoi sentimenti e li traduciamo in atteggiamenti. Seguiamo Gesù non in qualsiasi modo, ma sforzandoci di essere “cordiali” nel nostro modo di fare, di essere riflesso ed espressione dei sentimenti del Figlio di Dio. Tutto questo ha delle conseguenze nella vita personale e comunitaria. Al punto di farci diventare parabola esistenziale, segno della presenza di Dio stesso nel mondo (cfr. Vita Consecrata n. 22).
3.Fedeli alla missione affidataci
Il terzo punto ci invita a rivedere la nostra fedeltà al mandato che abbiamo ricevuto dai nostri fondatori. Un’intuizione carismatica è, allo stesso tempo, dono e responsabilità. Dono, perché non abbiamo fatto nulla per riceverlo tramite la persona e il lavoro dei nostri fondatori, che però è stato riconosciuto dalla Chiesa, per cui abbiamo la responsabilità di non travisarlo né alterarlo, ma di essere i continuatori di questo regalo che è stato posto nelle nostre mani.
E qui si potranno avere due letture: o aggrapparci al pensiero e all’opera del nostro Padre e Fondatore pretendendo, per fedeltà carismatica, di riprodurre sine glossa quello che lui ha fatto oppure agire in modo tale che tutto quello che facciamo non assomigli affatto a quanto suggerito o proposto dai nostri fondatori e ci muoviamo in totale libertà, interpretando le nuove sfide a nostro piacimento e scarabocchiando l’eredità che abbiamo ricevuto 150 anni fa.
Credo sia bene evitare questi due estremi. È necessario infatti raccogliere la fiaccola dalle mani di quanti ci hanno preceduto conservando la lucidità per scoprire come dobbiamo rispondere alle sfide del presente senza indebolire l’originalità carismatica. È stato questo, mi sembra, l’obiettivo della Ratio missionis e del lavoro di riqualificazione dei nostri impegni su cui l’Istituto ha insistito negli ultimi anni.
Papa Francesco ci esorta a domandarci, in questo Anno della Vita Consacrata, se i nostri ministeri, le nostre opere e presenze rispondono a quelli che lo Spirito Santo ha chiesto ai nostri fondatori. In poche parole, ci invita a vivere in un’attitudine di discernimento costante per non sbagliare e per essere così riflesso ed espressione di quel carisma ecclesiale che abbiamo ricevuto.
4. Diventare esperti di comunione
Stando così le cose e considerando il valore che ha per noi la vita fraterna, sarebbe opportuno che ci interrogassimo sulla qualità della nostra vita in comune. In proposito, il nostro Fondatore è stato molto chiaro nel descrivere le caratteristiche del suo Istituto: “Questo Istituto perciò diventa come un piccolo Cenacolo di Apostoli per l’Africa, un punto luminoso che manda fino al centro della Nigrizia altrettanti raggi quanto sono i zelanti e virtuosi Missionari che escono dal suo seno: e questi raggi che splendono insieme e riscaldano, necessariamente rivelano la natura del Centro da cui emanano” (Scritti 2648).
È interessante l’immagine che san Daniele utilizza: “cenacolo di apostoli”. Il cenacolo è la stanza del piano superiore, dove il Maestro affidò ai suoi discepoli ciò che portava nel cuore alla vigilia del più alto gesto di donazione. Lo stare insieme è quella realtà che ci trascende e ci avvicina a Dio quando viviamo in comunione con i fratelli. È anche spazio d’intimità, dove possiamo aprire il nostro cuore ai compagni di cammino e mostrarci così come siamo. Lì dove condividiamo ciò che siamo, scoprendo i nostri doni e limiti e quelli di quanti vivono con noi. Teologicamente, la Trinità è il nostro modello: tre persone distinte ma un solo Dio. Vivere assieme ci aiuta a condividere i nostri doni e ad accogliere la ricchezza di quanti vivono accanto a noi. Siamo diversi, ma coltiviamo e promuoviamo l’unità, attraverso il rispetto e la tolleranza. In un istituto internazionale come il nostro, la sfida è maggiore ma non impossibile.
Nell’immagine utilizzata si fa riferimento anche all’apostolicità. Da questo “cenacolo di apostoli” usciranno come “raggi” missionari solleciti e virtuosi per illuminare situazioni di oscurità: il Papa parla di scontro, di difficile convivenza fra culture diverse, di sopraffazione sui più deboli, di disuguaglianza e potremmo continuare con un elenco di situazioni che conosciamo e che ci siamo trovati davanti nel nostro servizio nelle diverse parti del mondo, dove lavoriamo. A tutte queste, siamo chiamati a portare una parola di speranza e d’incoraggiamento, illuminando le oscurità e condividendo un’esperienza di fraternità, frutto della comunione che abbiamo sperimentato. E non baseremo la forza e l’efficacia della nostra vocazione missionaria sulle risorse materiali che potremmo portare alla missione, ma sulla disponibilità a condividere l’esperienza autentica di Dio che abbiamo e sulla dose di umanità che possiamo trasmettere. La qualità della vita missionaria dipenderà dal tempo che siamo disposti a dedicare alle persone emarginate dalla società. Il nostro posto, come missionari – e questo ce lo riconoscono la maggior parte delle Chiese locali – è là dove ci sono tensioni e differenze, dove ci sono situazioni che sono contrarie alla condizione umana. È lì che dobbiamo portare la presenza dello Spirito, cercando di dare testimonianza di unità (Gv 17,21), come ci ricorda il Papa.
Tutto questo si traduce in uno stile proprio che deve essere di ascolto, di dialogo e di collaborazione con le persone con cui veniamo a contatto. Potremo anche essere persone dinamiche e capaci, ma se non sapremo lavorare in gruppo, difficilmente daremo testimonianza dell’amore trinitario sul quale si fonda la vita comunitaria. Le differenze non devono impedirci di dare testimonianza di unità davanti alla Chiesa e al mondo.
5. Appassionati al Regno
Un’ultima considerazione: seguire Gesù, desiderare di assomigliare al suo cuore, rimanere innamorati della missione ed essere costruttori – e non meri consumatori – di comunità, sarà possibile nella misura in cui manterremo sempre viva la passione per il Regno. Se guardiamo bene, molti di noi dimostrano una certa dose di irresponsabilità per il modo in cui amministriamo il tempo e i beni che arrivano nelle nostre mani. Se perdiamo il contatto con le persone, sarà difficile immaginare le mancanze che vive la maggior parte della nostra gente. Nella Lettera, citando Giovanni Paolo II, Papa Francesco afferma: “La stessa generosità e abnegazione che spinsero i Fondatori devono muovere voi, loro figli spirituali, a mantenere vivi i carismi che, con la stessa forza dello Spirito che li ha suscitati, continuano ad arricchirsi e ad adattarsi, senza perdere il loro carattere genuino, per porsi al servizio della Chiesa e portare a pienezza l’instaurazione del suo Regno”.
Perché alcuni dei nostri candidati perdono l’entusiasmo iniziale quando poi fanno parte dell’Istituto? Perché per molti di noi è così facile smettere di essere comboniani, quando compaiono difficoltà o disaccordi? Perché ci è sempre più difficile obbedire e rispondere alle sfide che ci si presentano? Perché è diminuita la nostra passione per il Vangelo e per tutto quello che riguarda la missione? Perché tanti vivono da pensionati prima del tempo? Non sarà forse perché abbiamo trascurato alcuni riferimenti fondamentali legati alla nostra identità, per cui usciamo di strada e perdiamo la rotta?
La passione per un ideale, nel nostro caso, la missione, è legata all’entusiasmo. La passione non si conquista una volta per sempre. È come una pianta che dobbiamo curare e nutrire ogni giorno. Per questo è necessario trarre profitto da iniziative come quella che ci propone il Papa nell’Anno della Vita Consacrata, per rivedere come stiamo vivendo la nostra consacrazione e qual è il nostro legame con il Vangelo, con l’Istituto e con la missione. P. Rogelio Bustos Juárez, mccj
Questa terra si chiama Pau Brasil, Irajà, Comboios, Caeiras, Olho d’ Agua, villaggi indigeni situati nello stato dell’ Espirito Santo.
Ho trascorso 9 giorni passati da un villaggio all’altro, dormendo nelle famiglie, di casa in casa, celebrando insieme la settimana santa, celebrando insieme la Vita e la sua vittoria contro la morte.
Sono stati giorni intensi, veloci, importanti, belli, carichi di amicizia e di condivisione, noi piccola equipe della famiglia Comboniana (padri, suore, laici, escolasticos) e il popolo indigeno Tupinikim, popolo di questa terra santa. Semplicità, umiltà, condivisione, accoglienza sono le parole che predominano rivivendo quei giorni. La disponibilità e l’affetto delle famiglie incontrate, visitate, vissute, non fa che crescere dentro me la bellezza di quei valori veri e sinceri che valorizzano l’incontro con l’Altro e la sacralità del saper accogliere l’Altro. Il popolo Tupinikim, come tutti i popoli indigeni, è un popolo che ha lottato per far si che la propria terra fosse riconosciuta, fosse rispettata e curata da quegli abitanti che da secoli, ancor prima della colonizzazione portoghese, ci abitavano. Terra indigena, terra santa. Una lotta iniziata dal 1979 fino al 1981 per riconquistare un territorio sempre più ingoiato e sfruttato da una multinazionale straniera, appoggiata da un potere politico ed economico lobbistico. Tanti i tentativi da parte della polizia con armi in spalla, tante le minacce, le violenze, per scacciare le occupazioni dei Tupinikim. Tanti i processi, la ricerca di carte e documenti per dimostrare che era terra indigena e finalmente, nel 1993, la demarcazione della terra, il riconoscimento che è territorio indigeno protetto, con le sue Comunità e i suoi villaggi (aldeias). Lotta per la Vita, lotta per i diritti, per il rispetto di una cultura che si sta perdendo e che sta resistendo ad una omologazione sempre più dominante, quella che ci vedi tutti come merci e consumatori.
Le minacce sono finite, la legge ha finalmente scritto su carta una verità sempre esistita, ora è il tempo di recuperare un territorio sfruttato da una fabbrica (straniera) che ha piantato eucalipti in ogni luogo, per interessi di mercato, per la fabbricazione di cellulosa, carbone e pellets. Il problema di questi alberi è che crescono molto velocemente, tolgono spazio alla flora autoctona e danneggiano il suolo. Questi alberi, belli a vedersi, gradevoli per la salute, in realtà, prosciugano il terreno, “bevono” molta acqua, impoveriscono la terra e la rendono “sterile”, difficile da coltivare.
Quando il clima, poi, fa la sua parte, con periodi di siccità, tutto diventa difficile e complicato, soprattutto per chi vive dell’aiuto della terra.
Ricominciare, curare la terra e i suoi frutti, attraverso una tradizione indigena che ha sempre rispettato PachaMama, sempre si è presa cura di lei, vivendo nell’essenzialità e questo lo si sente molto in alcuni villaggi ed è una bella lezione di vita.
In questa terra siamo stati accolti, ci siamo sentiti a casa, perché ci hanno fatto sentire a casa, non c’è cosa più bella per un viandante, per uno straniero, per chi viene da fuori, l’essere accolto e preso per mano.
Commentario a Gv 15, 1-8: Quinta Domenica di Pasqua, maggio 2015
Se nella domenica scorsa Gesù usava un’immagine sorta del mondo culturale dei allevatori di bestiame (per costruire l’allegoria del Buon Pastore), quest’oggi l’immagine scelta è quella della vite, legata alla vita degli agricoltori della riva orientale del Mediterraneo, dove è cresciuto Gesù stesso. Oggi il vino è molto conosciuto e consumato ovunque e penso che, anche se molti no conoscono direttamente la pianta che produce questa deliziosa bevanda, l’immagine usata da Gesù diventa significativa per tutti noi, di qualunque cultura. Vediamo di usarla per approfondire il nostro discepolato:
La vite, la pianta capace di trasformare gli elementi chimici in nuova vita
Gesù compara se stesso con la vite, che viene piantata e coltivata dal Padre perché dia buoni grappoli ‘uva. Gesù Cristo, con la sua personalità radicata nel Amore del Padre, passa ai suoi amici, comparati con i “rami” di un albero, la sua stessa vita ricevuta dal Padre, in modo che anche noi possano dare frutti abbondanti. Ci sono alcuni oggi che sembrano pensare che la vita può crescere e svilupparsi “autonomamente”, come se la vite potesse crescere e dare frutto senza una terra o senza un “coltivatore”. I discepoli di Gesù, invece, sappiamo molto bene che, senza l’amore fondante del Padre e senza la “vite” Gesù Cristo, noi non diamo frutto o i nostri frutti diventano acervi.
Altri, alcuni cristiani inclusi, sembrano confondere la Chiesa con una associazione politica, un’organizzazione umanitaria o un club di filosofi. Ma la Chiesa è, in primo luogo e soprattutto, la comunità di coloro, la cui vita è legata a Dio per mezzo di Gesù Cristo. Certamente, la Chiesa è e fa molte cose: La Chiesa possiede, per esempio, molte scuole e ospedali, e porta avanti molte altre attività con effetti sociali, economici, culturale or anche politici… Ma non confondiamo le cose: La Chiesa è, in primo luogo, un spazio di fede e di relazione con il Padre per mezzo di Gesù Cristo. Se venisse a mancare questa fede, subito mancherebbe anche la Chiesa e i suoi frutti sociali.
2.- I tralci, che sorgendo dalla pianta e danno frutto
Gesù ci dice, che se Lui è la vite, noi siamo i tralci. San Paolo, usando un’altra immagine, dice che noi siamo i membri del suo corpo. Le due immagini sono molto efficaci per farci capire che senza Gesù noi non abbiamo vita né siamo capaci di dare frutto. Per questo dobbiamo evitare due pericoli:
-Rompersi, separarsi dalla pianta: Mi ricordo di quando ero giovane e accompagnavo mio padre a lavorare nella vigna. Quanta attenzione facevamo a non rompere y tralci, specialmente quelli molto carichi! Era tanto facile strapparli e perdere il promissorio frutto che portavano nella loro fragilità. La stesa cosa succede con noi, quando per incoscienza or orgoglio, arriviamo a pensare che possiamo arrangiarci fare da soli e ci separiamo da Gesù. Se cadiamo in questa tentazione, molto presto diventiamo secchi e sterili, incapaci di dare frutto o di maturare quelli che abbiamo già prodotto. E’ fondamentale rimanere uniti a Gesù nell’amore personale, nell’obbedienza ai suoi comandamenti, nella comunione ecclesiale, nella apertura allo Spirito Santo.
-Dimenticarsi la potatura: Gli agricoltori sanno molto bene che una vigna non potata diventa subito una vigna invecchiata e incapace di fare uve. Io stesso ricordo una vite che avevamo in una delle nostre comunità. Per qualche anno, nessuno si è preoccupato di potarla, con il risultato che, non solo non dava più uve, ma la vite stessa stava morendo. Quando abbiamo deciso di potarla, in molto poco tempo la vite si riprese vigorosamente e diede già al primo anno frutto abbondante. Il significato di questa allegoria per la nostra vita è molto chiaro, se vogliamo ascoltarlo: una vita che si “abbandona”, che non viene “potata” mediante la preghiera, l’ascolto della parola, il discepolato continuo… è una vita che diventa sterile e muore.
La vita e la missione del discepolo trovano la sua forza nella unione con Gesù; questa vita non darà frutto e muore, se non viene continuamente coltivata con l’ascolto della Parola, l’apertura allo Spirito, l’obbedienza ai comandamenti, la fedeltà alla comunità…
3.- Il frutto: l’uva che produce il vino, capace di trasformare la vita in un banchetto di festa
Tutti noi vogliamo dare frutto, essere portatori di vita per noi e per gli altri. Ma bisogna ricordare che il frutto non è qualcosa di artificiale che si può “appicciare “dal esterno sui rami degli alberi. Il frutto non viene dall’esterno ma dall’interno. Soltanto la vita interiore della pianta può portare la pianta a dare frutto. Lo stesso succede con il discepolo/discepola: darà frutto soltanto se ha una vita interiore, una relazione profonda con Gesù Cristo, e se si fa potare dal Padre continuamente. Se così fa, la sua vita darà molti frutti, come dice S. Paolo, frutti di bontà e generosità, di gioia e di pace, di umiltà e di servizio… frutti di vita nuova, la cui radice sta in Gesù Cristo, e i cui rami sono continuamente potati e coltivati dal Padre mediante il suo Spirito.
Commentario a Gv 10, 11-18: Quarta DOMENICA di Pasqua, 26 aprile 2015
Leggiamo oggi il capitolo decimo del vangelo di Giovanni, che ci riferisce l’allegoria del Buon Pastore, un’immagine molto significativa per i popoli antichi, che dipendevano molto da pecore, capre e vacche. Noi che abitiamo maggiormente in grandi città non abbiamo esperienza diretta dell’importanza dei pastori, ma l’immagine rimane comunque assai ricca a ispiratrice anche per noi. A questo proposito, vorrei offrirvi tre punti di meditazione:
1.- Il salariato e il pastore “di-centrato”
Gesù, camminando per i popoli e le città della Galilea e della Giudea, osservava, come lo facciamo noi oggi, che c’erano molti “salariati”, persone che lavoravano “solo per la paga”, che erano centrate su se stessi, sul suo denaro, il suo prestigio, la sua fama… senza interessarsi veramente a le persone che dovevano servire e che “andavano come pecore senza pastore”: molti politici pensavano più ai suoi interessi che a organizzare onestamente la società; molti genitori erano più preoccupati della loro “auto-realizzazione” e immagine che della vocazione dei loro figli; molti dirigenti religiosi agivano, non a partire dal cuore di Dio, ma come “salariati”, più preoccupati di accumulare ricchezza, onori o potere che di cercare il bene integrale delle persone.
Di fronte a questa situazione, Gesù, Figlio amato dal Padre, che da tempo si era dichiarato, attraverso i profeti, “pastore del suo popolo” (Ezechiele 34, salmo 23), si presenta come un pastore “di-centrato”, il cui centro non è lui stesso ma le “pecore” del suo Padre: malati, peccatori, discepoli… Per Lui le persone non sono strumentali ad altri fini: personali, politici, religiosi… Per Lui le persone sono, in primo luogo, figli del Padre, e non dubita di metterli al centro della su vita, disposto anche a sacrificarla per loro, libera e gratuitamente.
A me questa riflessione mi porta a due conclusioni: – Gesù è il vero pastore della mia vita. Nessun’altro. Certo, tutti abbiamo bisogno degli altri: famigliari, amici, professori, politici, dottori, preti… Tutti loro sono, in qualche modo, “pastori” della nostra vita. Ma per me una cosa è chiara: Solo Gesù è la persona in cui io metto tutta la mia fiducia. Da lui mi faccio guidare ed amare, sicuro che mi porterà a buoni “pasti”: Parole di Verità e Amore gratuito e incondizionato. Questo fa di me una persona libera, che non si lascia trascinare dalla voce di molti pretesi pastori che vogliono usarmi come strumento per il suo interesse e gloria. -Anche io mi sento chiamato a diventare pastore “di-centrato”. Anche io sono chiamato a fare il pastore, stile Gesù, con altri a altre. Guardando Gesù voglio imparare a pensare negli altri, non come strumenti per la mia auto-realizzazione, ma come persone con vita e vocazione propria, a cui io posso contribuire con parole e azioni e, soprattutto, con affetto sincero e testimonianza umile.
2.- Conoscere ed essere conosciuto: “Io conosco le mie pecore, come il Padre mi conosce”
Lo scrittore uruguayano, Eduardo Galeano, racconta la storia di un ragazzo che, solo in ospedale nella vigilia di Natale, dice a un dottore che lo saluta prima di andarsene a casa: “Dite a qualcuno che io sono qui”… Penso che anche a voi ha colpito vedere come la gente saluta con tanto entusiasmo quando s’accorgono di essere stati ripresi dalla televisione in un atto pubblico. Mi pare che la ragione è che siamo fatti per essere “qualcuno” agli occhi di qualcuno, per essere guardati, riconosciuti da qualcuno. Senza lo sguardo di qualcuno su di noi ci sentiamo persi, insignificanti, abbandonati, come “pecore” senza un pastore che li guardi. A volte possiamo sentirci soli e che neanche le persone più vicine a noi ci conoscono veramente o ci conoscono solo “dal di fuori”.
Quello che Gesù ci dice oggi è che Lui ci conosce, che noi non siamo anonimi, persi nella massa; che siamo QUALCUNO per Lui. Gesù mi assicura che mi conosce dal di dentro e che ha con me la stessa relazione che il Padre ha con Lui: di conoscenza vera, di amore limpido, di mutua appartenenza.
3.-Una comunità non esclusiva né escludente
La comunità dei discepoli di Gesù è precisamente quel gruppo di persone, in cui ognuno à conosciuto e accettato per quello che è, senza maschere, molto aldilà del suo valore “strumentale”. In una comunità cristiana le persone non vengono misurate per la sua utilità, ma per il suo essere figli amati dal Padre. In questo senso, è bello quando in una comunità, dopo la Messa, le persone rimangono salutarsi a vicenda, conoscersi e diventare qualcuno importante in mezzo ad altri ugualmente “importanti ”.
Questa comunità di persone “conosciute” dal Pastore Gesù è una comunità aperta, no esclusiva né escludente; sempre disponibile ad accettare altre “pecore”, non perché vogliamo accrescere i numeri (per potere e prestigio), ma perché vogliamo che tutti godano di questo meraviglioso Pastore e perché con Lui anche noi siamo diventati pastori-missionari “di-centrati”, perché altri “abbiano vita a l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10).
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