Ancora una volta, noi Consigli generali della Famiglia comboniana, ci siamo incontrati nei giorni 1 e 2 giugno 2019, questa volta a Carraia, nella casa delle missionarie secolari.
Prima dell’incontro, durante il percorso di andata, ci siamo fermati qualche ora a Pisa, dove abbiamo visitato i monumenti più famosi, tra cui la Torre pendente. È stato un primo momento di incontro e di svago allo stesso tempo.
Come sempre, fra i partecipanti c’è stato un bel clima, nonostante ci si veda solo una volta l’anno. L’accoglienza è stata molto buona, anche da parte della comunità comboniana di Lucca.
Nel fine settimana abbiamo lavorato su diversi aspetti. Durante la prima mattinata abbiamo approfondito il tema: “Quale interazione tra MISSIONE KM 0 – intesa come missione dei laici nel proprio territorio e ambiente di vita –, MISSIONE AD GENTES e MISSIONE INTER GENTES?”, aiutati da Luca Moscatelli (teologo laico della diocesi di Milano).
Nel pomeriggio abbiamo riflettuto su “Evoluzione e prospettive dell’animazione missionaria nei nostri Istituti”, condividendo la nostra visione di animazione missionaria e le sfide che ci attendono. Abbiamo anche parlato del prossimo Mese Missionario Straordinario, ad ottobre.
Dopo cena, abbiamo avuto una rappresentazione teatrale sulla vita di Madeleine Delbrêl.
La domenica abbiamo relazionato su quanto stanno portando avanti i diversi rami della Famiglia comboniana e pianificato l’agenda del prossimo anno.
Saluti
Alberto de la Portilla (Coordinatore del Comitato Centrale LMC)
“Partire è anzitutto uscire da sé. Partire è mettersi in marcia e aiutare gli altri a cominciare la stessa marcia per costruire un mondo più giusto e umano” (Mons. Hélder Câmara).
I rappresentanti dei
gruppi dei laici dei vari istituti missionari [Suam – Segretariato unitario
dell’animazione missionaria] e fidei
donum della diocesi di Roma si sono radunati dal 14 al 16 giugno 2019
presso la Casa generalizia dei Missionari Comboniani a Roma. Erano in tutto una
trentina di persone: missionari di Villaregia, Saveriani, Consolata, PIME,
Francescani, Comboniani/e, e altri istituti. Tra questi, due coppie di laici hanno
condiviso le loro esperienze, una a Palermo (Laici Missionari Comboniani) e l’altra a Padova (Comunità Malbes, con
le missionarie comboniane).
L’incontro aveva come obiettivo mettere a confronto le esperienze di
missione all’estero e nel territorio di appartenenza per migliorare la presenza
missionaria nella Chiesa locale, nei gruppi e nella società civile. Sono stati
due giorni di confronto, ascolto, riflessione e programmazione.
È stata un’occasione in cui le diverse realtà, al di là delle proprie
identità, hanno avuto la possibilità di condividere e scambiarsi percorsi,
desideri e preoccupazioni missionarie.
In particolare, i partecipanti sono stati arricchiti dalla riflessione di
Marco Vergottini (teologo laico, stretto collaboratore del cardinale Martini e
Vice-Presidente dell’Associazione Teologica Italiana) il quale, attraverso la sua
relazione dal titolo “Il cristiano testimone. Identità e missione”, li ha guidati
in una rilettura critica di alcuni documenti conciliari, invitandoli a superare
la categoria di “laico”, a favore dell’espressione “testimone cristiano”,
nell’intento di ribaltare distanze gerarchiche che nei secoli hanno determinato
sistemi di potere e incomprensioni.
Testimonianze missionarie ad gentes e in Italia
Ci sono state le testimonianze di una laica dell’Alp (Associazione laici
del PIME), sulle esperienze missionarie nel sud del mondo, e di una coppia,
Fulvio ed Elisa, del CDM (centro missionario diocesano di Roma), che hanno descritto la loro
affascinante esperienza missionaria in Mozambico e il loro ritorno alla Chiesa romana,
con le difficoltà incontrate nell’essere accolti e valorizzati dalla Chiesa
capitolina.
Domenica, infine, due coppie hanno raccontato le esperienze comboniane – di
comunità e condivisione – di Malbes e della Zattera: “esperienze missionarie a
Km0 (kilometro zero)”, hanno detto.
Malbes è la comunità comboniana di Padova, dove vivono una famiglia (Carla
e Mario e le loro figlie) insieme a due suore comboniane (Carmela e Marina) che
da quattro anni fanno un servizio di animazione missionaria a partire dalla
canonica, arricchiti dall’esperienza di accoglienza di due donne africane e dei
loro figli.
Di seguito, è stata raccontata l’esperienza della Zattera, una comunità di
laici missionari comboniani, nella quale la coppia Dorotea e Tony Scardamaglia
e Maria (singola) da più di dieci anni vivono la condivisione e l’interazione tra
di loro e con tanti immigrati/e che giungono dall’Africa, desiderosi di trovare
un futuro migliore.
Alla fine, si sono tracciate alcune linee programmatiche future… “Il tutto –
ha detto Tony Scardamaglia – nel desiderio di poter continuare un percorso che ci
aiuti a “meticciarci”, a scambiarci percorsi e cammini per un mondo più giusto
e umano”.
IL CRISTIANO
TESTIMONE. IDENTITÀ E MISSIONE
Marco Vergottini
1. Il messaggio del Concilio Vaticano II: dal
laicus al christifidelis
Molto si potrebbe
dire in merito alla riflessione teologica sui fedeli laici. Ma tutto ciò che
supremamente conta è risalire alla lezione del Vaticano II, che con enfasi
forse eccessiva è stato chiamato il «Concilio dei laici», a motivo del fatto
che su 16 documenti promulgati nelle quattro sessioni conciliari, ben 14 fanno
espressamente riferimento al lemma ‘laico’,
‘laicato’.
Certo i tre
luoghi principali su cui ricostruire la questione dei laici sono Lumen Gentium (= LG), il decreto
sull’apostolato dei laici, Apostolicam
Actuositatem (= AA), senza dimenticare Gaudium
et Spes (= GS), che parla poco di laici, ma nella seconda parte affronta i
temi della cultura, del matrimonio e della famiglia, della pace, dell’impegno
in politica.
Occorre però
risalire a un antefatto che risale alla prima metà del secolo scorso, vale a
dire al riscatto dei laici dalla plurisecolare condizione di sudditanza e di
marginalità nell’ambito ecclesiale, grazie all’attività del laicato cattolico
in forma associata (soprattutto nella forma dell’Azione cattolica), e alla
nascita della cosiddetta ‘teologia del laicato’ in area francese. Quest’ultima
ha il suo apice nell’opera di Yves Congar, che nel 1953 scrisse un ponderoso
volume Jalons pour une théologie du laïcat, in cui veniva specificata
l’indole propria dei laici. Ecco una celebre citazione contenuta nel testo:
Il laico sarà
dunque colui per il quale, nell’opera stessa che Dio gli ha affidato, la
sostanza delle cose in se stesse esiste ed è interessante. Il chierico, e più
ancora il monaco, è un uomo per il quale le cose non sono interessanti in se
stesse, ma in relazione ad altro, cioè nel rapporto che le lega a Dio, che
esse fanno conoscere e possono aiutare a servire [Y. Congar,
Per una teologia del laicato, Morcelliana, Brescia 1966, p. 39].
La formulazione «per il laico le cose esistono in se stesse»
è certamente suggestiva e accattivante; non a caso è una delle espressioni più
gettonate del libro di Congar. Quindi la soluzione proposta dalla teologia del
laicato al fine di restituire credibilità e rilievo alla figura dei cristiani
laici non è altro che l’esito di una concezione assai schematica del binomio
Chiesa-mondo, che poggia sul presupposto di uno schema convenzionale che divide
due ordini, l’ordine soprannaturale e l’ordine naturale. Se i chierici e i
religiosi, secondo questo schema, santificherebbero la loro esistenza nella
dedizione al polo soprannaturale (tanto che si parlava di ‘vocazione di speciale consacrazione’) che si interessa
direttamente dell’annuncio del Vangelo, viceversa ai laici, di cui si dice «attendono alle realtà temporali», è dato
realizzare la loro vocazione cristiana nel quadro dell’opera della creazione.
Essi vivono nel mondo: questo il tratto qualificante dello stato di vita
laicale; col risultato che si cercava di definire la figura dei laici per
differenza rispetto alla vocazione clericale-religiosa, nella linea di una
specializzazione che finiva per sottovalutare l’elemento comune di ogni
vocazione cristiana, l’identità cristiana, che non può essere affatto
considerata alla stregua di una determinazione generica. Un tale (pre)giudizio
trascina con sé l’idea di dover correggere quella deriva clericale che ha fatto
del prete il dominus sulla scena
ecclesiale. Ecco allora per qual motivo Congar ha inteso assegnare ai laici il
compito di testimoniare con la loro opera l’intuizione che la Chiesa, per
giungere alla pienezza della sua missione secondo il piano divino, non può esonerarsi
dall’impegno nelle strutture del mondo e nell’opera temporale. La precarietà
dello schema di Congar non sfuggì a un recensore contemporaneo, che lucidamente
argomentò: «il clero di padre Congar è
platonico, il laicato è aristotelico; il mondo non esiste abbastanza per questo
clero ed esiste troppo per questo laicato» (É. Borne). Una pennellata molto
felice. Del resto lo stesso Congar agli inizi degli anni ’70 fece
un’autocritica, ricordando che «l’inconveniente
della mia posizione era forse di distinguere troppo bene». Però distinguere ‘troppo bene’
significa distinguere ‘male’.
Nella redazione
della LG, si registrò una svolta decisiva allorché nel primitivo schema de Ecclesia il III capitolo (dopo quello
sulla Chiesa-mistero e quello sull’episcopato) si intitolava «Il popolo di Dio e specialmente i laici».
Fu il cardinale Suenens a obiettare che tale successione implicava che dalla
nozione di popolo di Dio fossero esclusi (!) i ministri ordinati, secondo un
ordine piramidale e gerarcologico. Invece sono tutti i battezzati a far parte
del popolo di Dio, così che l’ordine fu così ristabilito: la Chiesa-mistero (I
cap.), la Chiesa-popolo di Dio (II cap.), l’episcopato (III cap.), i laici (IV
cap.), l’universale chiamata alla santità (V cap.), i religiosi (VI cap.) ecc.
Nel II e decisivo
capitolo, LG afferma che le categorie di Gesù Cristo, re, sacerdote e profeta sono da attribuire all’intera Chiesa, così
che ogni christifidelis è re, sacerdote e profeta. Ogni cristiano
è sacerdote (anche le donne!). C’è un sacerdozio universale che è fondamentale,
sul quale poi si innesta il sacerdozio gerarchico. «Partecipando al sacrificio eucaristico, fonte e apice di tutta la vita
cristiana, i credenti offrono a Dio la vittima divina e se stessi con essa»
(LG 11) Quindi a partire dal sacerdozio comune dei fedeli noi possiamo
affermare che la vittima, l’ostia, è principalmente Gesù Cristo, ma è anche la
vita di ogni credente. Dovremmo al riguardo rinviare a Sacrosanctum concilium, dove si dice che a celebrare l’eucaristia è
l’assemblea dei fedeli, non soltanto chi la presiede.
LG 12 è poi un
testo capitale, uno dei germi del Concilio che ancora deve maturare, ma con
papa Francesco siamo autorizzati a sperare nell’idea di una Chiesa sinodale: «La totalità dei fedeli, avendo l’unzione che
viene dal Santo, non può sbagliarsi nel credere». A chi era abituato a
pensare un po’ semplicisticamente che solo il Papa è infallibile, si ricorda
che l’infallibilità riguarda l’intero corpo dei fedeli, che non possono
sbagliarsi nel credere. È questa la dottrina del sensus fidei. E ancora, LG 13 afferma: «Tutti gli uomini sono chiamati a formare il popolo di Dio».
Nel cap. IV di LG
il discorso riprende invece la trattazione tradizionale, laddove si dice:
il carattere
secolare è proprio e peculiare dei laici […] Per loro vocazione è proprio dei
laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo
Dio. Vivono nel secolo, cioè implicati in tutti i diversi doveri e lavori del
mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale, di cui la
loro esistenza è come intessuta (LG 31).
Non sono poche le
difficoltà racchiuse in questo testo, a partire dalla indeterminatezza di
alcune categorie utilizzate. Che cosa sono le «cose temporali»? Ad esempio, il
matrimonio e la famiglia sono realtà temporali? E che cosa significa «ordinare
secondo Dio»? L’edificazione della Chiesa può essere affidata soltanto ai
sacerdoti? O ancora i consigli evangelici (riservati ai religiosi nel cap. VI
di LG) – vale a dire, la povertà, la castità e l’obbedienza – non fanno parte
di quella santità e perfezione di vita evangelica che riguarda tutti? Resta poi
da chiedersi in che senso i compiti affidati ai laici non meritino di essere
riferiti alla responsabilità e alla competenza della Chiesa tutta. Da un lato,
si sostiene che i soli laici sono «implicati
in tutti i diversi doveri e lavori del mondo e nelle ordinarie condizioni della
vita familiare e sociale, di cui la loro esistenza è come intessuta»;
dall’altro, non passa giorno che il papa, i vescovi, i nostri sacerdoti, nella
loro predicazione e nel loro insegnamento esorbitino rispetto alla sfera
strettamente spirituale, mandando dei messaggi per la pace nel mondo, per la
custodia del creato, per l’attenzione, per la responsabilità sul lavoro, per
l’apertura nei confronti dei fratelli immigrati… Dovremmo dire che questi sono
temi che riguardano solo i laici? No, perché è tutta la Chiesa che ha il
compito di vivere la testimonianza cristiana nella storia.
Per concludere.
Nei testi conciliari (e il discorso può essere puntualmente illustrato alla
luce di GS, più ancora nel decreto
AA), è dato riscontrare un duplice movimento, una duplice tensione irrisolta:
da un lato, si focalizza l’attenzione sulla figura del cristiano (christifidelis), quindi in un certo
senso si relativizza e si supera il discorso riguardo alla specificità
dell’essere laico. D’altro lato, il Concilio muove invece nella scia della
tradizionale “teologia del laicato”, mettendo in luce la fisionomia peculiare
del laico (secolarità), riconoscendolo come quel credente che testimonia la
fede cristiana sulla scena del mondo, anche se poi ci si preoccupa di
recuperare il carattere propriamente ecclesiale della sua missione.
2. In vista di un’autentica consapevolezza
della vocazione cristiana
A nessuno sfugge che il discorso non è affatto concluso, allorché si è
pervenuti sul piano dei principi a recuperare la prospettiva che ultimamente
contrassegna l’esistenza dei credenti in Cristo. Se è vero infatti che
sussistono tuttora non poche resistenze nell’assimilare e interiorizzare questa
esigenza della chiamata universale alla radicalità evangelica, occorre
realisticamente interrogarsi sulle ragioni che hanno concorso a relegare in una
condizione passiva e gregaria la maggioranza dei credenti, al fine poi di
promuovere tutte quelle dinamiche ed energie che possono contribuire a fare sì
che tutti i battezzati divengano sempre più consapevoli delle responsabilità
spirituali, ecclesiali ed etiche connesse all’opzione cristiana.
Nella congiuntura odierna della Chiesa, l’istanza di una fattiva
abilitazione dei fedeli laici alla missione e alle responsabilità che competono
loro in quanto credenti nel Signore suggerisce di affrontare alcune questioni
irrisolte sul fronte dell’appartenenzaecclesiastica, della
qualità dell’agire morale, e della vita
secondo lo Spirito.
2.1 Appartenenza ecclesiastica
Riguardo al primo aspetto, il discorso deve procedere dalle condizioni di
obiettivo disagio vissuto dalla maggioranza dei credenti, i laici, in ordine al
problema dell’appartenenza alla comunità cristiana e dei rapporti con le altre
componenti. In chiave di ricognizione fenomenologica occorre impegnarsi in una puntuale
diagnosi dei molti effetti distiorti che si riproducono nella vita
ecclesiastica (per es. basti solo accennare a questioni quali la scarsa
valorizzazione delle donne, la divaricazione che disingue i cosiddetti laici
“impegnati” dai cristiani “solo praticanti”, il persistere dello scoglio del
clericalismo, la tensione istituzione/movimenti, ecc.). Se il traguardo da raggiungere è di restituire
piena responsabilità e competenza ecclesialea ogni credente, i problemi
nascono precisamente quando ci si chiede a quali condizioni, attraverso quali
itinerari formativi e alla luce di quale pedagogia ecclesiastica è possibile
realizzare, o almeno favorire il più possibile, un tale modello di partecipazione
corresponsabile nella Chiesa.
2.2 La qualità dell’agire morale
Sul secondo aspetto, quello tradizionalmente assegnato ai laici in virtù
della loro più diretta immersione nelle vicende civili, il discorso dovrà
muovere dal diffuso senso di estraneità patito oggi dalla coscienza credente
nei confronti delle dinamiche del vivere sociale e politico. Nell’attuale
contesto epocale, contrassegnato dalla conflittualità-complessità del sistema
sociale e della vicenda storico-civile, per il cristiano il vero nodo sotto il
profilo etico va rinvenuto nella possibilità di individuare, oltre la
prospettiva di un “impossibile” radicalismo evangelico, come pure di un troppo accomodante
spirito di adattamento o di
compromesso una terza via, la via buona, praticabile dell’esistenza
morale. Anche qui, si tratta del compito ecclesiale di formare nei cristiani
una coscienza retta e matura,
istruita nell’esercizio del discernimento e capace
di rendere testimonianza alla sequela di Gesù
2.3 La vita secondo lo Spirito
In terzo luogo, una volta dissipato l’equivoco di una via minore o
maggiore alla chiamata del Signore, si deve riconoscere come l’unica spiritualità
evangelica è quella di chi si dispone a seguire Gesù nella declinazione
concreta della propria esistenza. La possibilità di questa figura spirituale –
ma che poi è la stessa possibilità della fede in quanto tale – è legata
precisamente alla formazione del cristiano, anche sotto il profilo
teologico. Si tratta dunque di rendere possibile, praticabile, plausibile ciò
che è doverosamente richiesto dall’Evangelo. Ora questa possibilità dev’essere
reclamata e promossa non già per qualche vocazione cristiana o per qualche élite,
ma per ogni cristiano: al di là di questo niente infatti dev’essere richiesto
di più, ma niente dovrebbe essere richiesto di meno.
Parlare di
“vocazione universale alla santità nella Chiesa” richiede, per un verso, di
porre l’accento sul carattere di universalità di tale chiamata, escludendo,
dunque, ogni prospettiva elitaria, come pure qualsiasi interpretazione di tipo
individualistico della vita spirituale: se è un popolo ad essere chiamato alla
santità, dev’essere rimarcato il carattere di effettiva possibilità e
praticabilità della risposta, di tutti e di ciascuno, alla elezione del
Signore; il Signore chiama tutti, nessuno escluso.
3. La lezione dell’A Diogneto
Con un’efficacia insuperata nella Lettera A Diogneto – scritta da un autore
cristiano anonimo del II secolo – è messo a fuoco il carattere originale,
“paradossale”, dell’identità e della prassi dei cristiani, sollecitati da una
fedeltà alla cittadinanza celeste e, insieme, da una lealtà nei confronti della
“città dell’uomo”. In primo luogo, la coscienza credente invoca l’esistenza di
un «luogo» – vale a dire il territorio, ma anche la lingua, l’ethos – per vivere e praticare i
comandamenti di Dio; in questo senso i cristiani non rivendicano paese, lingua
e costume propri. In secondo luogo, però, essi professano la trascendenza del
comandamento di Dio rispetto a qualsiasi norma sancita dalla tradizione civile;
al punto che, riconoscendosi ultimamente estranei rispetto a ogni patria, i
cristiani sperimentano nei loro confronti una consistente ragione di ostilità
da parte dei pagani.
Mettiamoci in ascolto di questa straordinaria
pagina della tradizione della Chiesa apostolica:
V. Il mistero cristiano
1. I cristiani né per regione, né
per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini.
2. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si
differenzia, né conducono un genere di vita speciale.
3. La loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini
multiformi, né essi aderiscono ad una corrente filosofica umana, come fanno gli
altri.
4. Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e
adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto,
testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale.
5. Vivono nella loro patria, ma
come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati
come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera.
6. Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati.
7. Mettono in comune la mensa, ma non il letto.
8. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne.
9. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo.
10. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le
leggi.
11. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati.
12. Non sono conosciuti, e vengono condannati. Sono uccisi, e riprendono
a vivere.
13. Sono poveri, e fanno ricchi molti; mancano di tutto, e di tutto
abbondano.
14. Sono disprezzati, e nei disprezzi hanno gloria. Sono oltraggiati e
proclamati giusti.
15. Sono ingiuriati e benedicono; sono maltrattati ed onorano.
16. Facendo del bene vengono puniti come malfattori; condannati gioiscono
come se ricevessero la vita.
17. Dai giudei sono combattuti come stranieri, e dai greci perseguitati,
e coloro che li odiano non saprebbero dire il motivo dell’odio.
VI. L’anima del mondo
A
dirla in breve, come è l’anima nel corpo,
così nel mondo sono i cristiani.
4. Retta ermeneutica del Decretum Gratiani e
svolta tridentina
Una rivisitazione
critica della «storia del laicato» suggerisce di prendere le distanze da quel
procedimento che si prefigge di descrivere tale vicenda come un continuum
dalla fase post-apostolica fino ad oggi.
In prima battuta,
è importante disinnescare il celebre topos
del duo sunt genera christianorum, come ritorna icasticamente nel Decretum Gratiani (1140), divenuto un
vero locus theologicus della
storiografia sul laicato:
Due sono i generi dei cristiani. C’è infatti
un genere che, riservato per il divino ufficio e dedito alla contemplazione e
all’orazione, conviene che si sottragga da ogni tumulto delle cose temporali:
sono i chierici e i votati a Dio, cioè coloro che hanno mutato radicalmente
vita convertendosi. Κλῆρος infatti in greco è sors in latino. Perciò gli uomini di questo tipo sono chiamati
chierici, cioè scelti per sorte; tutti questi, infatti, Dio scelse come suoi
[…] Invece c’è un altro genere di cristiani, come sono i laici. Λαός infatti è
popolo. A costoro è lecito possedere i beni temporali, ma soltanto in uso. Non
vi è nulla infatti di più meschino che disprezzare Dio per denaro. Ad essi è
concesso prender moglie, coltivare la terra, giudicare le controversie fra uomo
e uomo, intraprendere azioni legali, deporre sull’altare le oblazioni, pagare
le decime; e così potranno salvarsi, se eviteranno tuttavia i vizi facendo il
bene [Decretum Magistri Gratiani,
Secunda Pars, XII, q. I, c. VII].
Ora l’ambiente originario del celebre passo non avvalora la pretesa
avanzata da Congar – e dalla storiografia teologica che da lui dipende – di
ritrovare qui il teorema della strutturale bipartizione del popolo cristiano,
poiché il contesto immediato del cap. XII del Decretum Gratiani non
sarebbe affatto da collocare sul piano ecclesiologico, bensì su quello piano delle azioni lecite e del diritto puramente patrimoniale. Si
potrebbe persino azzardare che il vero interesse del ragionamento di Graziano
verta non soprattutto sui laici, ma
sui chierici che come tali non possono possedere beni temporali, né disporre a loro riguardo. Di conseguenza, la
distinzione tra laici e chierici obbedisce a una logica puramente
funzionale: ai primi è consentito possedere e, se del caso, difendere anche
legalmente i beni materiali di loro proprietà; ai secondi, invece, non è lecito
possedere alcunché, dovendo essere del tutto distaccati, anche giuridicamente,
dai beni secolari. L’estrapolazione dal contesto originario della
formula duo sunt genera christianorum disattende non soltanto l’intentio auctoris, ma opera
un’indebita forzatura concettuale in ordine all’identità dei laici che
si trascinerà per secoli.
Una nuova pista
interpretativa sostiene che il costituirsi della nozione laico/laicato
(nell’uso invalso ancor oggi) è da individuare con l’ingresso nell’età moderna,
rispettivamente con la vicenda della Riforma protestante, nonché con l’imporsi
del nuovo clima spirituale della modernità. La fisionomia dei laici nasce con la Riforma cattolica,
nel senso che l’investimento di energie a favore di una formazione liturgica,
dottrinale e spirituale del clero comportò un processo di gerarchizzazione
della Chiesa cattolica, col risultato di confinare i comuni fedeli in un ruolo
subordinato e passivo. In un senso, col risultato di far ‘nascere’ il laicato.
Infatti, quanto più rispetto al passato il ministro ordinato divenne il
rappresentante ideale e consapevole dell’identità cristiana, tanto più la
condizione laicale venne connotandosi per sottrazione dal modello clericale (e
religioso).
5. La teologia che «serve» alla spiritualità
e alla pastorale
Quanto alla
teologia, il suo esercizio di sapere
critico non può affatto concludersi con la ricostruzione analitica e l’ascolto
fedele dei pronunciamenti conciliari, ma deve puntare in chiave critica a coglierne
la portata e la logica intrinseca, senza sottrarsi alla fatica di avallare le
acquisizioni obiettive, di indagare eventuali inconseguenze e, soprattutto, di
esplorare nuovi sviluppi e auspicabili incrementi.
Il discorso non può essere liquidato in poche
battute. Nel quadro della svolta
ecclesiologica di LG, una corretta ermeneutica dell’apporto conciliare
suggerisce di mettere fine alla ricerca di una definizione dottrinale e
normativa di laico, invitando a
ricentrare l’attenzione sulla figura del christifideles.
In questa linea la questione laicale dovrebbe essere ricollocata non più
all’interno della trattazione sistematica,
bensì nel quadro della riflessione teologico-pratica,
cioè a partire dalle condizioni obiettive dell’esistenza cristiana ed
ecclesiale e dalla qualità dell’agire credente (ecclesiologia pratica,
spiritualità e riflessione morale).
Un’ulteriore
possibilità è di intraprendere un itinerario
teologico-fondamentale, che punti a mettere in luce l’impensato che resta
sottotraccia alla trattazione tradizionale del capitolo dei laici. Dopo aver esaminato le
potenzialità offerte (e, in un senso, esaurite) dalle cifre dell’apostolato
e dell’impegno (engagement), v’è merito di accordare
credito alla nozione giovannea di testimonianza nel quadro di una teoria
della coscienza credente. Nel suo dinamismo tale categoria dischiude in modo
promettente il profilo dell’annuncio dell’evangelo come attestazione ad altri
(appunto, testimonianza) dell’evento Gesù Cristo (il testimoniato),
scoprendosi autorizzata e legittimata come atto della libertà che si affida
all’incondizionato rivelarsi di Dio.
Si avverte
l’esigenza di tracciare una mappa delle diverse vocazioni particolari che
nascono all’interno della Chiesa in un’epoca contrassegnata da grandi
rivolgimenti culturali e spirituali, rispetto a stagioni della storia in cui la
divisione dei ruoli e il rapporto fra gli «stati di vita» erano sostanzialmente
assodati. Non ha però più senso distinguere fra coloro che ricoprirebbero il
ruolo di occuparsi delle cose di questo mondo e coloro che sarebbero gli
specialisti della vita eterna: sulle questioni essenziali della vita, tutti i
credenti si trovano nella medesima situazione.
All’origine della
pluralità delle forme di esperienza credente stanno l’iniziativa imprevedibile
di Dio e l’agire degli uomini, che risente dell’influsso biografico e della
congiuntura storica. La ricognizione dell’esperienza credente lungo l’asse
delle diverse vocazioni e forme di vita cristiana suggerisce che se la fede si
dà in figura, non può darsi un’unica e omnicomprensiva figura della fede, dato che il carattere figurale della fede
chiama in causa una pluralità di figure
della fede, fra loro diverse e complementari. In questa prospettiva, il
ripensamento di una teologia delle vocazioni, dei ministeri e dei carismi è
questione decisiva per rilanciare con creatività le diverse figure e vissuti di
fede che trovano il loro grembo nella Chiesa. Nella vita di coppia e nella
famiglia si dischiudono forme specifiche di ministerialità: il legame
coniugale, l’educazione dei figli, la cura delle relazioni, la solidarietà
verso poveri e anziani, costituiscono luoghi e momenti in cui la Chiesa si
rigenera e scopre la sua vocazione di «famiglia di Dio». La fede cristiana è
per sua natura esperienza personale e originale del legame con il Signore Gesù,
ma insieme è esperienza condivisa, ecclesiale se è vero che ogni vocazione
cristiana deve lasciarsi plasmare dal legame decisivo con il Signore nella
comunità dei discepoli. In tale ottica, occorre ripensare il nesso fra
esistenza del singolo e legame comunitario, nonché fra appartenenza ecclesiale
e ministero apostolico, per mostrare la circolarità di istanza soggettiva e
mediazione oggettiva che istituisce la coscienza ecclesiale e l’agire di ogni
credente.
L’illustrazione
di tale dialettica può essere esplorata con qualche guadagno a partire dal
dinamismo che sta alla base della coppia rappresentazione/i e
rappresentanza. Il primo termine rappresentazione/i restituisce il
carattere di oggettività dell’evento cristiano proprio quando ne realizza
l’universalità, allorché ogni credente (per la parte che gli spetta) è
convocato e abilitato a professare, a ‘dar forma’, appunto a ‘rappresentare’ il
messaggio della salvezza in tutti gli spazi e i momenti della sua esistenza nel
mondo. D’altra parte, la struttura dell’identità cristiana prende sempre forma
storicamente in un profilo specifico e si presenta con i tratti singolari del
vissuto storico; tale per cui esiste di necessità una pluralità di
interpretazioni e raffigurazioni (rappresentazioni)
che con tonalità diverse tutte dicono
e attuano l’unica figura cristiana.
Il secondo polo, rappresentanza,
rinvia al carattere normativo dell’esercizio della memoria Jesu,
conseguente al mandato apostolico di cura per l’oggettività e di fedeltà
all’evento della salvezza, onde salvaguardare il carattere indisponibile e
gratuito del Dio di Gesù e garantire le condizioni di un’esperienza
autenticamente cristiana. Ora, l’ipotesi di una rappresentazione senza rappresentanza
si espone al rischio di un’affermazione di sé autoreferenziale e irrelata,
carica magari di autenticità a livello di vissuto biografico, ma priva di
rilevanza simbolica e di legame ecclesiale con altre necessarie
rappresentazioni; rispettivamente, l’eventualità di una rappresentanza
priva di rappresentazione/i rischia a sua volta di sequestrare la verità
indisponibile entro una logica monistica, che fonda un formale principio di
legittimità, ma dimentica di essere istituita in un’ottica di comunione e di
servizio per custodire l’assolutezza e la ricchezza della rivelazione, proprio
assicurandone la sua plurale e universale destinazione (nella forma delle
inesauribili e complementari rappresentazioni del discepolato nella
storia della Chiesa e del mondo).
Entrambe le
dinamiche della «rappresentazione non senza rappresentanza» e della
«rappresentanza non senza (plurali) rappresentazioni» sono possibili solo come
operazione dello Spirito, nella forma del discernimento storico della referenza
all’inesauribilità del mistero di Cristo. Questo è propriamente ciò che
significa il topos kierkegaardiano la «contemporaneità» di Cristo ai credenti e
dei credenti a Cristo, che come tale è continuamente da ri-comprendere nella
storia della fede e del discepolato nello snodarsi della vicenda del
cristianesimo lungo i secoli.
Una tale
dialettica nel suo dinamismo interno costituisce la grammatica che sta alla
base di una varietà infinita di figure e di pratiche di vita cristiana in cui
risplende e si manifesta la partecipazione dei credenti al mistero di Cristo.
Se ripensata come attitudine del cristianesimo a divenire l’anima del processo
storico-sociale, dunque come sfida per la fede cristiana di dire oggi come
sempre la verità dell’umano, una siffatta dialettica è in grado di intercettare
l’interrogativo sul futuro stesso dell’agire credente nella Chiesa e nella
storia. Sotto tale profilo, l’archiviazione della teologia del laicato diviene
un congedo inevitabile, perché inverato in una teologia della testimonianza
credente nella storia.
6. Tre citazioni fulminanti
La cosa più importante da dire è che non c’è definizione
del cristiano che non sia in rapporto a Cristo: non ci sarà mai una definizione
esaustiva del cristiano che riguardi soltanto la sua diversificazione o il suo comportamento
rispetto all’ambiente che lo circonda. Da questa affermazione tutto il resto
viene condizionato. Ogni tentativo di definire la nostra posizione deve partire
dalla persuasione che noi siamo sostanzialmente ‒ e quasi unicamente ‒ delle
persone che sono afferrate da Cristo, che aspettano la manifestazione della sua
gloria, che attendono la trasformazione di ogni cosa nel Regno di Cristo. [C.M.
Martini, Che cosa significa
essere cristiani (1969)].
Nella sua accezione
originaria, senza distinzione obbligatoria tra chierico e laico, l’ecclesiastico, è l’uomo di Chiesa,
l’uomo nella Chiesa: egli è l’uomo della
Chiesa, l’uomo della comunità cristiana. [H. de Lubac, Meditation sur l’Église (1953)].
Celestino V. Io non posso trattare i cristiani come oggetti, come
pietre, come sedie, come utensili, e neanche come sudditi… Posso ammettere che
questo modo di vedere sia scomodo dal punto di vista della rapidità e
disinvoltura nel comandare, ma mi pare che anche in questo debba esserci una
differenza tra i cristiani e i pagani. Per i cristiani il valore supremo sono
le coscienze: esse meritano dunque il massimo rispetto. [I. Silone, L’avventura
di un povero cristiano (1968)].
Questi tre tratti
– l’appartenenza a Cristo, la titolarità di tutti i battezzati a essere
riconosciuti senza discriminazioni come uomini e donne di Chiesa, la logica
sinodale che deve improntare il vissuto della comunità dei credenti nel
riconoscimento della dignità inviolabile di ciascuno – costituiscono
altrettante acquisizioni a cui non è dato rinunciare nel quadro di una communio
che è originata dalla grazia dello Spirito Santo. Una communio che non livella
tutte le possibili diverse vocazioni e ministerialità ecclesiali, bensì
assicura a tutti la sua presenza nella pluralità dei doni personali per
l’edificazione della Chiesa in un’ottica di condivisione sinodale della logica
e delle dinamiche dell’unica missione.
E così ci ricorda
papa Francesco nella sua esortazione apostolica programmatica del pontificato:
Lo Spirito Santo
arricchisce tutta la Chiesa che evangelizza anche con diversi carismi. Essi
sono doni per rinnovare ed edificare la Chiesa. Non sono un patrimonio chiuso,
consegnato ad un gruppo perché lo custodisca; piuttosto si tratta di regali
dello Spirito integrati nel corpo ecclesiale, attratti verso il centro che è
Cristo, da dove si incanalano in una spinta evangelizzatrice […] Quanto più un
carisma volgerà il suo sguardo al cuore del Vangelo, tanto più il suo esercizio
sarà ecclesiale. È nella comunione, anche se costa fatica, che un carisma si
rivela autenticamente e misteriosamente fecondo. Se vive questa sfida, la
Chiesa può essere un modello per la pace nel mondo [Evangelii gaudium, 130].
La mia scelta nasce da un percorso personale che ha i suoi passi nelle varie esperienze di volontariato fatte in Tanzania e in Etiopia e con il gruppo dei laici missionari Comboniani, di cui faccio parte.
Questo cammino nel corso del tempo mi ha portato a maturare l’idea di fare una scelta missionaria a lungo termine, così nel dicembre 2013 sono partita per il Brasile, destinazione Minas Gerais e ci sono rimasta fino a dicembre 2016, tre anni! Tre anni che mi hanno letteralmente cambiato la vita, perché la missione ti cambia, se ti lasci cambiare, quello che vedi, quello che tocchi, quello che senti, quello che vivi ti trasforma e ti porta a scoprire un Dio che cammina attraverso i tuoi passi, un Dio che ha i volti delle persone e delle storie che incontri, un Dio di straordinaria bellezza nella difesa della Vita e per la Vita e un impegno di servizio e di condivisione così concreto e così forte, che te ne innamori. Io ne sono rimasta innamorata!
Ho vissuto tre anni in un bairro povero e violento, in una periferia di mondo esistenziale e strutturale, ma piena di umanità e di forza. Oltre alle varie attività pastorali legate alla parrocchia, portata avanti dai padri Comboniani, mi sono inserita principalmente nella pastorale carceraria, della diocesi di Belo Horizonte. Non ero mai entrata in un carcere, la mia prima volta è stato in Brasile, dove la realtà carceraria è una delle peggiori al mondo, intrisa di violenza e criminalità, soprusi e violazione di diritti umani. Il nostro compito era quello di accompagnare i detenuti sia da un punto di vista spirituale, sia umano e molte volte di denuncia, incontrando situazioni che non rispettavano la dignità delle persone. La quasi totalità della popolazione carceraria brasiliana proviene da situazioni di vita dove il tessuto familiare e sociale è fragile e vulnerabile. Provengono tutti da favelas o quartieri estremamente difficili. I detenuti e le loro famiglie che ho incontrato, avevano ferite profonde fatte di violenze, mancanze e povertà. Questa pastorale mi ha insegnato tanto e in particolare che nessuno è irrecuperabile, perché solo l’Amore cura, solo chi è accolto e amato può rinascere, perché dall’Amore nessuno fugge, ne sono convinta! Missione per me è stato soprattutto condivisione, camminare insieme agli altri e condividere i problemi e le speranze. Non è fare grandi cose, è soprattutto un Esserci, Esserci con il cuore, con la testa e con le mani!
Cuore per amare, testa per capire e comprendere senza pregiudizi, mani per poter accompagnare e costruire insieme. Oggi la mia scelta missionaria mi porta a partire una seconda volta, sempre per tre anni e sempre in Brasile, in una nuova esperienza, in un nuova città, Salvador, Bahia, dove andrò a vivere in una Comunità, che accoglie moradores de rua, persone di strada. L’anno scorso con il centro missionario siamo andati a visitare questa Comunità ed è nato il progetto di fare esperienza e condivisione con loro, mettendomi al servizio di chi si occupa del reinserimento delle persone di strada, che decidono di riprendere in mano la loro vita e ricominciare da capo. Sono pronta a mettermi di nuovo in cammino, a vivere la gioia dell’incontro e della scoperta, ma soprattutto la gioia del condividere e del camminare assieme.
Giugno – Perché i piccoli passi di apertura tra il Vaticano e la Repubblica Popolare Cinese facciano crescere la comprensione e il rispetto del governo verso tutti i cristiani che vivono in Cina. Preghiamo.
Maggio – Perché la donna sia sempre più consapevole della sua specificità e ricchezza e possa partecipare pienamente alla vita e alla leadership della Chiesa. Preghiamo.
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