Laici Missionari Comboniani

Tanti saluti da Alenga in Uganda

Cari amici,

Spero stiate tutti bene. Io sto molto bene qui. Mi sento come a casa. Sono molto  contenta di essere di aiuto agli scolari  dando lezioni sull’uso del computer.

Grazie agli aiuti dalla Germania sono riuscita ad ottenere 10  computer portatili.

Durante il giorno sono in classe e di sera insegno alle suore e alla gente del vicino villaggio a lavorare con il computer. Sono molto occupata tutto il giorno e sono felice di dare alla gente del posto qualche prospettiva per il loro futuro.

BUONA PASQUA e tanti saluti da Alenga in Uganda,
Elena Fisher!

Missione, Morte e Risurrezione

“La missione ci permette di capire la risurrezione come il miracolo della vita che non si lascia distruggere dall’egoismo e dall’ambizione senza limiti, ma che s’impone come gioia che sorge dal cuore divino che portiamo nella fragilità del nostro essere umano. Per questo non c’è missione vera che non implichi morte in noi, morte non come sinonimo di distruzione, ma che si trasforma in opportunità per rinascere finalmente alla vita vera che solo il Signore può offrirci come dono del Padre”.

Con queste parole finisce il messaggio pasquale inviato da P. Enrique Sánchez G. a tutti i confratelli comboniani.

Di seguito pubblichiamo il messaggio.

Buona Pasqua a tutti.

Jesus

MISSIONE, MORTE E RISURREZIONE

“Le grandi opere di Dio non nascono che appiè del Calvario”

(Scritti 2325)

Celebrazione della Pasqua, mistero per eccellenza, che ci fa entrare nella morte che segna la nostra umanità e nella vita senza limiti, dono di Dio, che nella risurrezione del Signore Gesù ci fa vivere nel tempo della speranza e della fede.

Come vivere questo mistero in modo che diventi sorgente di vita in questo tempo di contrasti, in cui l’aridità delle nostre fragilità si confronta con l’invito a vivere la gioia del Vangelo riscoprendo la presenza sempre nuova del Signore che, dal fondo della tomba vuota, ci ricorda che è vivo in mezzo a noi?

Vita e morte, passato e futuro, dolore e gioia, tenebre e luce, guerra e pace, odio e amore. Quanti altri binomi, oltre a questi, contrassegnano la nostra esistenza, il nostro andare umano sulle strade divine che ci portano verso quell’eternità che non riusciamo a definire e ancor meno a pronunciare, con le povere parole del nostro agire quotidiano?

Immersi nella frenetica corsa delle nostre imprese e dei nostri sforzi per cambiare il mondo, ognuno percorre l’intera giornata con la sua visione, i suoi interessi, le sue idee, i suoi programmi. Con la pretesa di possedere tutta la verità, di sapere e di potere tutto e anche più che gli altri.

Viviamo con un’arroganza diventata malattia infettiva, che non fa distinzione fra ricchi e poveri, piccoli e grandi; tutti ci sentiamo in diritto di criticare, segnalare i limiti, i difetti, i peccati degli altri. I criteri della diffidenza, del sospetto, del vantaggio, della competizione cercano d’imporsi e la fiducia, la condivisione, il sostegno dell’altro, la misericordia e il perdono suonano come musica che disturba l’orecchio e non penetra il cuore.

Non è forse questo lo scenario in cui ci troviamo a vivere la missione come proposta antica e sempre nuova che impedisce di perdersi nella visione tragica, pessimista e deprimente dell’oggi della nostra storia? Non è la missione vissuta nel silenzio, nel nascondimento, nell’anonimato che ci fa diventare “pietre nascoste” che parlano di una vita che non fa rumore, che non ha bisogno di pubblicità? Non è questa la missione che ci fa vivere dall’interno il mistero della morte che diventa vita?

Morte che non ha l’ultima parola

1216025250_448544202_de7945fb21_mOggi più che mai, ci confrontiamo con situazioni che vanno oltre l’immaginabile, le notizie si trasformano in cronaca gialla, rossa, di tutti i colori.

La violenza e la guerra distruggono intere popolazioni e condannano milioni di persone a fuggire, non si sa più dove, come rifugiati, profughi, migranti o semplicemente prigionieri nei propri paesi. Queste immagini sono diventate coreografie di puntate televisive che fanno, dei drammi umani, degli episodi di un film che si svolge realmente ma che a noi viene presentato come se fosse il vincitore dell’Oscar.

Fortunatamente la missione ci permette di raccontare la storia in un altro modo: diventa impossibile far tacere la testimonianza di quanti hanno visto la distruzione e la morte non attraverso uno schermo ma sul volto e nei corpi di fratelli e sorelle con cui fino a poco tempo prima si lavorava, si celebrava l’Eucaristia, si studiava nelle piccole scuole con i tetti in paglia, si festeggiava la vita e la gioia di essere in questo mondo.

La morte di Cristo non la vediamo più sulla croce di legno. Come missionari abbiamo scoperto, attraverso gli occhi e il dolore del cuore di tanti nostri confratelli, che oggi il Signore sale sulla croce dell’indifferenza dei potenti del nostro tempo, della dimenticanza dei più poveri, dell’esaltazione del potere e dell’idolatria del denaro.

Le rivolte, le proteste, le contestazioni, raccolgono il grido disperato di tanti fratelli e sorelle che non ce la fanno più, che non sanno come fare per sopravvivere in una realtà che sembra negare quelle condizioni minime che servono per chiamare l’esistenza, vita.

La grande tentazione è di cadere nella trappola di pensare che l’ombra della morte si sia impadronita del nostro tempo e si sia imposta come criterio per governare la nostra storia.

Ma quante altre morti scopriamo, più vicine a noi? Non è forse morte, la distruzione delle missioni in cui siamo presenti in Sud Sudan, o la violenza che non finisce, in Centrafrica, dove ci sono ancora tante persone costrette ad abbandonare le loro case per paura di essere uccise?

Non è forse morte, la diminuzione del numero dei missionari nel nostro Istituto? O il dover rinunciare a certe presenze missionarie là dove vediamo chiaramente che potrebbero fare tanto del bene? E non è forse vero che viviamo come un vero e proprio funerale il fatto di dover chiudere delle comunità, perché non abbiamo nessuno da inviare?

Non ci sentiamo forse morire quando ci viene rifiutato il permesso per entrare in un determinato paese o ci è negata la possibilità di continuare il nostro servizio ai poveri, alla Chiesa locale, semplicemente perché i politici di turno vivono di ideologia? Non è forse morte, la mediocrità che ci minaccia ogni volta che cerchiamo di organizzare la nostra vita secondo i nostri interessi personali, quando cerchiamo scuse per giustificare la nostra indisponibilità a partire, a obbedire, ad accettare la missione come un dono che andrebbe accolto senza porre condizioni?

La missione ci introduce e ci accompagna nel mistero della morte, perché quando è vissuta in tutta onestà, non possiamo dire altro che quello che il Signore stesso ha gridato dal profondo del suo spirito: Padre, si compia in me la tua volontà.

San Daniele Comboni lo dice con parole che descrivono lo scenario contemplato nel cuore dell’Africa: “Di fronte a tante afflizioni, fra montagne di croci e di dolori… il cuore del missionario cattolico è rimasto scosso; tuttavia egli non deve per questo perdersi d’animo; la forza, il coraggio e la speranza non possono mai abbandonarlo” (S 5646).

catedral_064La missione ci introduce nel mistero e nella bellezza della risurrezione

C’è un aldilà della morte che per la missione è il fondamento di tutto, la garanzia di un futuro che si costruisce non sulla base delle nostre risorse, capacità o forze.

La missione ci fa toccare con mano e contemplare con i nostri occhi quel progetto sempre attuale di Dio che non si riposa, cercando di costruire un’umanità in cui tutti possiamo scoprirci fratelli e sorelle.

Dio è all’opera e, nonostante il nostro andare per strade che non portano alla vita, Egli non rinuncia al suo sogno di vedere un giorno tutti i suoi figli e figlie radunati in una famiglia, dove non ci sia più bisogno di attaccare etichette di religioni, ideologie, preferenze politiche, razze, culture o colori.

Il Cristo risorto ci ricorda che per Dio il tempo è arrivato, ma che Egli non ha fretta, sarà sempre disposto ad aspettare il nostro arrivo, sperando che, in questo tempo dell’attesa, non vi sia uno spreco di vite sacrificate a causa della nostra incapacità a ragionare meno con la testa e più con il cuore.

La missione ci permette di capire la risurrezione come il miracolo della vita che non si lascia distruggere dall’egoismo e dall’ambizione senza limiti, ma che s’impone come gioia che sorge dal cuore divino che portiamo nella fragilità del nostro essere umano.

Per questo non c’è missione vera che non implichi morte in noi, morte non come sinonimo di distruzione, ma che si trasforma in opportunità per rinascere finalmente alla vita vera che solo il Signore può offrirci come dono del Padre.

“Egli ha portato nel suo corpo i nostri peccati sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, conducessimo una vita secondo giustizia. Infatti siamo stati guariti dalle sue piaghe” (1Pt 2,24-25).

Buona Pasqua a tutti.

P. Enrique Sánchez G., mccj Superiore Generale

Lutto e guarigione

CandelLe tradizioni per celebrare il lutto di un caro defunto qui in Etiopia sono molto differenti da quelle europee. Un funerale diventa un’occasione importante e coinvolge tutta quanta la comunità. Una tenda bianca eretta a fianco di casa lungo la strada è un chiaro segno di una famiglia in lutto. Quando una persona muore, molte persone si radunano nella casa del morto per dare conforto alla famiglia. La tenda, segno di lutto rimane piantata vicino alla casa per più di una settimana e per tutto questo tempo la famiglia non è mai lasciata sola. Amici e parenti (e lontani parenti e conoscenti) vengono a sedersi sotto la tenda ogni giorno: parlano e fanno le condoglianze, ma più spesso rimangono in silenzio con la famiglia in lutto. Migliaia di persone possono partecipare a un comune funerale.

La famiglia di solito è associata a un gruppo locale chiamato Idir. E’ una specie di “fai-da-te” assicurazione per il funerale I cui membri si riuniscono mensilmente per prendere decisioni circa I fondi depositati presso l’associazione. A discrezione del comitato direttivo, questi fondi possono essere usati anche per prestiti  in tempi difficili. In media un Idir è composto da circa una cinquantina di famiglie. Ogni mese, una famiglia versa all’Idir circa 15 birr (1$) e se qualcuno muore, una somma di denaro viene devoluta alla famiglia come contributo verso i costi del funerale e della sepoltura. Mentre la famiglia è in lutto, l’Idir si darà da fare per provvedere la tenda, le grosse pentole per cuocere il cibo per tutti, gli utensili, le sedie, le panche e I tavoli. La vera ragion d’essere dell’Idir e quella di provvedere un dignitoso e appropriato tempo di lutto alla famiglia, prendendosi cura della logistica e delle spese del funerale.

Quando si visita la casa della famiglia in lutto, si rimane colpiti dal fatto che nessuno parla. La gente va e viene e non dice una parola, spesso non saluta nemmeno I membri della famiglia in lutto. Spesso le parole non sono sufficienti a esprimere il cordoglio e gli Etiopi preferiscono non dire niente quando si è in lutto. L’importante è essere presenti. E’ successo qualche volta che io (Mark) ho dovuto chiudere l’ufficio perché tutti I miei dipendenti erano andati a un funerale. Siamo andati come gruppo, le donne si coprivano la testa con uno scialle nero, siamo entrati nella casa, ci siamo seduti in silenzio su delle lunghe panche di legno, disposte vicino ai membri della famiglia in lutto e siamo stati presentati agli anziani e notabili. Siamo rimasti in silenzio forse per una mezz’ora mentre ci veniva offerto un pezzo di pane e dell’orzo arrostito. Poi, dopo un tempo sufficientemente lungo, P. Sisto, il nostro direttore e il più anziano del gruppo (con i capelli bianchi) si è alzato, ha detto alcune parole di convenienza, recitato una preghiera per il defunto e la sua famiglia e siamo usciti tutti in silenzio.

Quaranta giorni dopo la morte viene fatta un’altra celebrazione per porre termine al periodo di lutto. Durante il lutto, la famiglia del defunto si veste in maniera da mostrare il lutto (per lo più in nero) e le donne evitano le pettinature complesse (spesso si tagliano I capelli a zero). Spesse volte alcuni parenti vengono a vivere nella casa in lutto per tutti i 40 giorni per non lasciare mai soli i famigliari del morto. Di solito la foto del defunto con accanto una candela viene messa su una specie di altarino votivo. La celebrazione di fine lutto include la messa in chiesa (per Ortodossi e cattolici) seguita da un pranzo in casa del defunto. La stessa tenda bianca viene di nuovo piantata e i membri dell’Idir aiutano nella preparazione del cibo.

In ottobre il papà di una delle nostre più care amiche è morto mentre io (Maggie) stavo lavorando al sud del paese. Dal momento che ero lontana non avevo ricevuto la notizia della morte se non alcuni giorni dopo il funerale. Al ritorno dal sud del paese, ho voluto essere presente alla celebrazione di fine lutto per portare la mia solidarietà alla mia amica e alla sua famiglia.

Il nostro amico vive in Awassa, ma la sua famiglia viene dalla piccolo città di Kebre Mengist, lontana 10 ore da Awassa. Ho dormito nella sua casa in Awassa per poter prendere il pullman delle 4 di mattina per Kebre Mengist. Siamo arrivate due giorni prima della celebrazione e abbiamo aiutato nella preparazione. Siamo andati a piedi dalla stazione alla casa della mia amica, parlando del più e del meno, ma quando siamo arrivate, tutti i presenti sono scoppiati in lacrime. E’ stato l’ultimo pianto per il defunto che veniva a completare il dolore per la perdita. Dopo di che un anziano, uno zio, ha detto semplicemente “basta così” e siamo andati oltre.

Il giorno dopo, all’alba, hanno portato un bue e lo hanno sgozzato. Le donne hanno cominciato ad arrivare in gran numero con cesti di cipolle, aglio, pomodori e  carote portati a spalla. Si sono sedute all’ombra degli alberi, pelando e affettando i vegetali, pulendo le lenticchie in coloratissimi cesti piatti e chiacchierando mentre intente al lavoro. Hanno lavorato tutto il giorno per preparare lo stufato e la injera per il giorno dopo. Mi sono unita a loro e mi hanno messo a mescolare la carne in una enorme pentola di 200 litri. Il lavoro veniva interrotto diverse volte dalla cerimonia del caffè. C’era odore di incenso un po’ dappertutto. La gente stava seduta a parlare.

Hanno apprezzato il fatto che volevo essere con loro e mi è stato anche offerto un posto d’onore per dormire: un letto (… con la mia amica e sua zia!) Otto altri parenti  hanno dormito per terra attorno a noi su vari tipi di tappeti e materassi. La messa nella chiesa Ortodossa la mattina dopo e stata semplice e significativa, poi centinaia di persone sono arrivate  per condividere con noi il pranzo. In quanto a noi, praticamente non abbiamo lasciato la camera per tutto il giorno. Eravamo sedute e la gente veniva, si riposava e raccontava storie e condivideva ricordi. La gente parlava molto più che nei giorni immediatamente dopo la morte, a significare che i 40 giorni di lutto intenso avevano fatto sì che il pianto e le lacrime per la perdita venissero fuori tutte e il dolore fosse sanato, cosa che non sarebbe accaduta senza questo viaggio.

– Maggie

Maggie, Mark and Emebet Banga, Comboni Lay Missionaries, Awassa, Ethiopia

Animazione Missionaria con i giovani della parrocchia di Carapira (Mozambico)

03-Animacao ChegadaIl 16 marzo di quest’anno si è tenuta la riunione dei giovani del distretto di Mutoro, una delle 3 aree della parrocchia, che coinvolge 96 giovani compresi i coordinatori e gli animatori dell’infanzia e adolescenza missionaria e giovani provenienti da 40 comunità presenti in 10 aree di questa regione. A questa riunione, gli LMC e i candidati alla formazione hanno partecipato a un momento di animazione missionaria con i giovani. L’incontro è iniziato alle 13 con la presentazione dei partecipanti, dove i laici in formazione hanno parlato della loro storia nel gruppo.

Dunque in Mozambico sono presenti 3 LMC stranieri e 4 missionari laici mozambicani in formazione. I Laici Missionari Comboniani hanno condiviso la storia di San Daniele Comboni, figlio di una famiglia povera italiana. Si è anche detto che la famiglia comboniana è composta da sacerdoti, fratelli, suore, laici e secolari.

Durante la conversazione, un giovane ha chiesto di conoscere il significato dell’essere secolare. Secolare significa essere missionario laico consacrato che vive la sua vocazione all’interno della sua famiglia senza l’unione coniugale.

Si è parlato anche di alcuni requisiti per diventare Missionari laici Comboniani.

Infine la riunione di animazione missionaria si è conclusa con la canzone <<Rallegratevi sempre nel Signore.>>

Flavio, gli LMC e Zeferino, candidato in formazione dei Laici Missionari Comboniani

Non chiuderTi alla Tua stessa carne

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NON CHIUDERTI ALLA TUA STESSA CARNE 

Il 6 febbraio, 15 persone sono morte a “El Tarajal”, la spiaggia di Ceuta. Alcuni media hanno dichiarato che erano sub sahariani, immigrati senza documenti… ma fondamentalmente erano 15 persone, con 15 storie, con altrettante 15 famiglie. Ciascuno di essi con la propria dignità, i propri diritti e, soprattutto, con le proprie vite. Di quanto accaduto quel giorno, fu fatto un gran discutere, soprattutto a livello politico dove si è data la responsabilità all’avversario politico cercando di approfittare in tutti i modi di questa sciagura.

L’Arcivescovo di Tangeri, Monsignor Santiago Agrelo ha pubblicato una lettera che non contiene dispersioni e che Vi riportiamo qui di seguito.

E il Signore disse: condividi il tuo pane e la tua luce sorgerà

Non c’è bisogno di interpretazioni perché è stato detto in modo che lo comprendano anche i bambini. “Condividi il pane con l’affamato, ospita i poveri senza tetto, vesti chi è nudo” e a questo comandamento comprensibile a tutti, se fosse necessario, si aggiunge il motivo che lo sostiene: “Non chiuderTi alla tua stessa carne”. Gli affamati, gli oppressi e i senzatetto, i nudi sono “la nostra stessa carne”!

“Non chiuderTi alla tua stessa carne”: riconoscere solo questo sarebbe sufficiente a far sì che “altra” sia la politica sulla gestione delle frontiere, “altra” la logica del nostro ragionamento, “altro” lo scopo delle nostre manifestazioni, “altro” il motivo delle nostre preoccupazioni, delle nostre aspirazioni, delle nostre contestazioni, delle nostre scelte.

“Non chiuderTi alla tua stessa carne”: se cammini su questo percorso di sapienza, “la tua luce irromperà come l’alba”, davanti a te sarà la giustizia e dietro a Te la gloria del Signore, la tua luce risplenderà nelle tenebre, la tua oscurità diverrà mezzogiorno.”

“Non chiuderti alla tua stessa carne”: e il pane che condividerai con l’affamato, Ti renderà luce per i senzatetto, come luce è per te Colui che, con la Sua vita nelle mani sottoforma di pane, ha detto: “Questo è il mio corpo che è stato dato per voi”.

“Non chiuderTi alla tua stessa carne”: fai sedere i poveri alla mensa della Tua vita, e Tu sarai per loro la luce con cui Dio illumina.

E per tutti coloro che ripetutamente mi ricordano che la Chiesa non è una ONG, altrettanto ripetutamente ricordo loro che i poveri sono “la nostra stessa carne“, che il nostro pane è il loro pane, e che la Chiesa è casa loro.

Buona Domenica

Altre lettere pubblicate dal Vescovo Agrelo in questi giorni sull’immigrazione:

Carta degli emigranti

Opzione per Dio e per i poveri

Ulteriori informazioni sono presenti sul sito della Diocesi di Tangeri