Laici Missionari Comboniani

La vite, i tralci e la potatura

Commentario a Gv  15, 1-8: Quinta Domenica di Pasqua, maggio 2015

Se nella domenica scorsa Gesù usava un’immagine sorta del mondo culturale dei allevatori di bestiame (per costruire l’allegoria del Buon Pastore), quest’oggi l’immagine scelta è quella della vite, legata alla vita degli agricoltori della riva orientale del Mediterraneo, dove è cresciuto Gesù stesso. Oggi il vino è molto conosciuto e consumato ovunque e penso che, anche se molti no conoscono direttamente la pianta che produce questa deliziosa bevanda, l’immagine usata da Gesù diventa significativa per tutti noi, di qualunque cultura. Vediamo di usarla per approfondire il nostro discepolato:

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  1. La vite, la pianta capace di trasformare gli elementi chimici in nuova vita

Gesù compara se stesso con la vite, che viene piantata e coltivata dal Padre perché dia buoni grappoli ‘uva. Gesù Cristo, con la sua personalità radicata nel Amore del Padre, passa ai suoi amici, comparati con i  “rami” di un albero,  la sua stessa vita ricevuta dal Padre, in modo che anche noi possano dare frutti abbondanti. Ci sono alcuni oggi che sembrano pensare che la vita può crescere e svilupparsi “autonomamente”, come se la vite potesse crescere e dare frutto senza una terra o senza un “coltivatore”. I discepoli di Gesù, invece, sappiamo molto bene che, senza l’amore fondante del Padre e senza la “vite” Gesù Cristo, noi non diamo frutto o i nostri frutti diventano acervi.

Altri, alcuni cristiani inclusi, sembrano confondere la Chiesa con una associazione politica, un’organizzazione umanitaria o un club di filosofi. Ma la Chiesa è, in primo luogo e soprattutto, la comunità di coloro, la cui vita è legata a Dio per mezzo di Gesù Cristo. Certamente, la Chiesa è e fa molte cose: La Chiesa possiede, per esempio, molte scuole e ospedali, e porta avanti molte altre attività con effetti sociali, economici, culturale or anche politici… Ma non confondiamo le cose: La Chiesa è, in primo luogo, un spazio di fede e di relazione con il Padre per mezzo di Gesù Cristo. Se venisse a mancare questa fede, subito mancherebbe anche la Chiesa e i suoi frutti sociali.

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2.- I tralci, che sorgendo dalla pianta e danno frutto

Gesù ci dice, che se Lui è la vite, noi siamo i tralci. San Paolo, usando un’altra immagine, dice che noi siamo i membri del suo corpo. Le due immagini sono molto efficaci per farci capire che senza Gesù noi non abbiamo vita né siamo capaci di dare frutto. Per questo dobbiamo evitare due pericoli:

-Rompersi, separarsi dalla pianta: Mi ricordo di quando ero giovane e accompagnavo mio padre a lavorare nella vigna. Quanta attenzione facevamo a non rompere y tralci, specialmente quelli molto carichi! Era tanto facile strapparli e perdere il promissorio frutto che portavano nella loro fragilità. La stesa cosa succede con noi, quando per incoscienza or orgoglio, arriviamo a pensare che possiamo arrangiarci fare da soli e ci separiamo da Gesù. Se cadiamo in questa tentazione, molto presto diventiamo secchi e sterili, incapaci di dare frutto o di maturare quelli che abbiamo già prodotto. E’ fondamentale rimanere uniti a Gesù nell’amore personale, nell’obbedienza ai suoi comandamenti, nella comunione ecclesiale, nella apertura allo Spirito Santo.

-Dimenticarsi la potatura: Gli agricoltori sanno molto bene che una vigna non potata diventa subito una vigna invecchiata e incapace di fare uve. Io stesso ricordo una vite che avevamo in una delle nostre comunità. Per qualche anno, nessuno si è preoccupato di potarla, con il risultato che, non solo non dava più uve, ma la vite stessa stava morendo. Quando abbiamo deciso di potarla, in molto poco tempo la vite si riprese vigorosamente e diede già al primo anno frutto abbondante. Il significato di questa allegoria per la nostra vita è molto chiaro, se vogliamo ascoltarlo: una vita che si “abbandona”, che non viene “potata”  mediante la preghiera, l’ascolto della parola, il discepolato continuo… è una vita che diventa sterile e muore.

La vita e la missione del discepolo trovano la sua forza nella unione con Gesù; questa vita non darà frutto e muore, se non viene continuamente coltivata con l’ascolto della Parola, l’apertura allo Spirito, l’obbedienza ai comandamenti, la fedeltà alla comunità…

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3.- Il frutto: l’uva che produce il vino, capace di trasformare la vita in un banchetto di festa

Tutti noi vogliamo dare frutto, essere portatori di vita per noi e per gli altri. Ma bisogna ricordare che il frutto non è qualcosa di artificiale che si può “appicciare “dal esterno sui rami degli alberi. Il frutto non viene dall’esterno ma dall’interno. Soltanto la vita interiore della pianta può portare la pianta a dare frutto. Lo stesso succede con il discepolo/discepola: darà frutto soltanto se ha una vita interiore, una relazione profonda con Gesù Cristo, e se si fa potare dal Padre continuamente. Se così  fa, la sua vita darà molti frutti, come dice S. Paolo, frutti di bontà e generosità, di gioia e di pace, di umiltà  e di servizio… frutti di vita nuova, la cui radice sta in Gesù Cristo, e i cui rami sono continuamente potati e coltivati dal Padre mediante il suo Spirito.

P. Antonio Villarino

Roma

 

Il Pastore che ci conosce personalmente

Commentario a Gv 10, 11-18: Quarta DOMENICA di Pasqua, 26 aprile 2015

Leggiamo oggi il capitolo decimo del vangelo di Giovanni, che ci riferisce l’allegoria del Buon Pastore, un’immagine molto significativa per i popoli antichi, che dipendevano molto da pecore, capre e vacche. Noi che abitiamo maggiormente in grandi città non abbiamo esperienza diretta dell’importanza dei pastori, ma l’immagine rimane comunque assai ricca a ispiratrice anche per noi. A questo proposito, vorrei offrirvi tre punti di meditazione:

P10104231.- Il salariato e il pastore “di-centrato”
Gesù, camminando per i popoli e le città della Galilea e della Giudea, osservava, come lo facciamo noi oggi, che c’erano molti “salariati”, persone che lavoravano “solo per la paga”, che erano centrate su se stessi, sul suo denaro, il suo prestigio, la sua fama… senza interessarsi veramente a le persone che dovevano servire e che “andavano come pecore senza pastore”: molti politici pensavano più ai suoi interessi che a organizzare onestamente la società; molti genitori erano più preoccupati della loro “auto-realizzazione” e immagine che della vocazione dei loro figli; molti dirigenti religiosi agivano, non a partire dal cuore di Dio, ma come “salariati”, più preoccupati di accumulare ricchezza, onori o potere che di cercare il bene integrale delle persone.
Di fronte a questa situazione, Gesù, Figlio amato dal Padre, che da tempo si era dichiarato, attraverso i profeti, “pastore del suo popolo” (Ezechiele 34, salmo 23), si presenta come un pastore “di-centrato”, il cui centro non è lui stesso ma le “pecore” del suo Padre: malati, peccatori, discepoli… Per Lui le persone non sono strumentali ad altri fini: personali, politici, religiosi… Per Lui le persone sono, in primo luogo, figli del Padre, e non dubita di metterli al centro della su vita, disposto anche a sacrificarla per loro, libera e gratuitamente.
A me questa riflessione mi porta a due conclusioni:
– Gesù è il vero pastore della mia vita. Nessun’altro. Certo, tutti abbiamo bisogno degli altri: famigliari, amici, professori, politici, dottori, preti… Tutti loro sono, in qualche modo, “pastori” della nostra vita. Ma per me una cosa è chiara: Solo Gesù è la persona in cui io metto tutta la mia fiducia. Da lui mi faccio guidare ed amare, sicuro che mi porterà a buoni “pasti”: Parole di Verità e Amore gratuito e incondizionato. Questo fa di me una persona libera, che non si lascia trascinare dalla voce di molti pretesi pastori che vogliono usarmi come strumento per il suo interesse e gloria.
-Anche io mi sento chiamato a diventare pastore “di-centrato”. Anche io sono chiamato a fare il pastore, stile Gesù, con altri a altre. Guardando Gesù voglio imparare a pensare negli altri, non come strumenti per la mia auto-realizzazione, ma come persone con vita e vocazione propria, a cui io posso contribuire con parole e azioni e, soprattutto, con affetto sincero e testimonianza umile.

aaa2.- Conoscere ed essere conosciuto: “Io conosco le mie pecore, come il Padre mi conosce”
Lo scrittore uruguayano, Eduardo Galeano, racconta la storia di un ragazzo che, solo in ospedale nella vigilia di Natale, dice a un dottore che lo saluta prima di andarsene a casa: “Dite a qualcuno che io sono qui”… Penso che anche a voi ha colpito vedere come la gente saluta con tanto entusiasmo quando s’accorgono di essere stati ripresi dalla televisione in un atto pubblico. Mi pare che la ragione è che siamo fatti per essere “qualcuno” agli occhi di qualcuno, per essere guardati, riconosciuti da qualcuno. Senza lo sguardo di qualcuno su di noi ci sentiamo persi, insignificanti, abbandonati, come “pecore” senza un pastore che li guardi. A volte possiamo sentirci soli e che neanche le persone più vicine a noi ci conoscono veramente o ci conoscono solo “dal di fuori”.
Quello che Gesù ci dice oggi è che Lui ci conosce, che noi non siamo anonimi, persi nella massa; che siamo QUALCUNO per Lui. Gesù mi assicura che mi conosce dal di dentro e che ha con me la stessa relazione che il Padre ha con Lui: di conoscenza vera, di amore limpido, di mutua appartenenza.

P10202723.-Una comunità non esclusiva né escludente
La comunità dei discepoli di Gesù è precisamente quel gruppo di persone, in cui ognuno à conosciuto e accettato per quello che è, senza maschere, molto aldilà del suo valore “strumentale”. In una comunità cristiana le persone non vengono misurate per la sua utilità, ma per il suo essere figli amati dal Padre. In questo senso, è bello quando in una comunità, dopo la Messa, le persone rimangono salutarsi a vicenda, conoscersi e diventare qualcuno importante in mezzo ad altri ugualmente “importanti ”.
Questa comunità di persone “conosciute” dal Pastore Gesù è una comunità aperta, no esclusiva né escludente; sempre disponibile ad accettare altre “pecore”, non perché vogliamo accrescere i numeri (per potere e prestigio), ma perché vogliamo che tutti godano di questo meraviglioso Pastore e perché con Lui anche noi siamo diventati pastori-missionari “di-centrati”, perché altri “abbiano vita a l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10).

P. Antonio Villarino
Roma

Mangiare insieme, aprire la mente, diventare testimoni

Commentario a Lc 24, 35-48, Terza Domenica di Pasqua, 19 aprile 2015
Leggiamo oggi l’ultima parte del capitolo 24 di Luca. Dopo l’episodio dei due discepoli di Emmaus, che riconoscono Gesù nel “partire il pane” e che tornano a Gerusalemme per condividere quello che hanno vissuto, Luca ci racconta come Gesù si manifesta a tutto il gruppo, nel cenacolo, dove la comunità è radunata, anche se piuttosto triste, confusa e piena de dubbi. Nel testo che leggiamo oggi possiamo trovare molti spunti di meditazione. Io mi trattengo soltanto in tre:

MinoCenaEcologica1) L’importanza di mangiare assieme: “Mangiò davanti a loro”.
Luca ci racconta che, visto che i discepoli erano rimasti sotto shock e stentavano a credere quello che vedevano, Gesù domandò un po’ di cibo e si mise a mangiare davanti a loro. Mangiare con qualcuno è sempre stato un gesto di grande significato sociale. Mangiare assieme unisce le famiglie, accresce le amicizie, stabilisci vincoli sociali… e perfino favorisce gli affari.
Per quello che ci dicono i vangeli, Gesù andava frequentemente a mangiare nelle case delle persone più diverse: per festeggiare un matrimonio (Cana), per celebrare una nuova amicizia (con Levi), per trovare dirigenti sociali (farisei)… Gesù comparava anche il Regno di Dio con un banchetto a cui ci invita Dio. Mangiare assieme è un segno della nuova fraternità umana che Gesù ha annunciato nel nome del suo Padre celeste; e di questa fraternità, sigillata con il suo corpo e sangue consegnati sulla croce, è anticipazione l’ultima cena.
Gesù ha fatto della cena comunitaria un segno della sua presenza tra i discepoli, compagni nella lotta in favore del Regno di Dio in un mondo frequentemente ostile. Certo che tutto può essere falsato, come succede con certe cene ipocrite, che non sono quello che appaiono. E questo può capitare anche con il grande sacramento della presenza viva di Gesù in mezzo a noi: l’Eucarestia. Possiamo falsarla, e di fatto lo facciamo. Ma, se la viviamo onestamente, l’Eucarestia diventa il grande segno di una umanità rinnovata, di una Chiesa che ascolta la Parola a condivide il pane. Se viviamo l’Eucarestia sinceramente, Gesù è presente tra di noi, la comunità cresce nella comunione (inclusa la condivisione dei beni necessari per la vita) e l’umanità trova nel suo seno questo fermento di vita nuova, capace di farla crescere in giustizia, pace, riconciliazione e amore.
2) Menti aperte: “Le aprì le menti per capire le Scritture”
Gesù apre loro l’intelligenza per capire le Scritture a partire da quello che stanno vivendo, e per capire quello che vivono a partire dalle Scritture. Questo capitava già quando Gesù camminava sulle strade della Galilea e della Giudea. Precisamente per questo Gesù era il Maestro: aveva parole luminose, chiare, rilevanti, che erano come delle lampade che illuminavano la realtà. Ascoltandolo era facile capire come, per esempio, guarire un paralitico era più importante che seguire alcune norme religiose; che il Padre si rallegra tanto quando un suo figlio pentito torna a casa dopo una brutta esperienza; che aiutare un sconosciuto ferito ci fa diventare veri figli del Padre… che la sua propria morte trovava un senso nella fiducia assoluta e nell’amore definitivo di un Dio che non ha paura di “perdere” la propria vita per amore.
Per tutto questo, fino a oggi, e per secoli futuri, i discepoli ci raduniamo regolarmente: per ascoltare la parola di Gesù, per farci illuminare da essa in un dialogo fecondo tra vita e parola. A partire della vita cappiamo meglio la parola e, leggendo la parola, cappiamo la vita. E in tutto questo esperimentiamo che Gesù vive in mezzo a noi e ci accompagna nel nostro camminare.

P10009163) Diventare testimoni “Il suo nome sarà predicato a tutti i popoli”
Ascoltare la parola luminosa di Gesù, mangiare con Lui e con la comunità dei discepoli, esperimentare la presenza dello Spirito nella mia vita e nel mondo, è il più grande dono che ho mai potuto ricevere. Questo ha trasformato la mia vita, facendomi sentire figlio amato e fratello tra fratelli. Per questo, come Pietro e Paolo, come Luca e tantissimi altri discepoli, anche io sono un testimone, un missionario, qualcuno che vuole condividere con il mondo il dono ricevuto. Diventare testimoni di Gesù nel mondo è la più fascinante missione che una persona può avere.
La missione non è una carriera orgogliosa per fare proseliti di una setta, neanche propaganda di una ideologia o diffusione di un sistema religioso… La missione ci fa umili testimoni di un dono ricevuto: una Parola che da senso alla nostra vita nel mondo, anche in mezzo a contradizioni, nostre ed altrui; una fraternità che impariamo a costruire giorno dopo giorno, non perché noi siamo migliori degli altri, ma perché siamo discepoli, disposti a imparare, anche se questo grandioso progetto del Regno ci supera grandemente; una esperienza dello Spirito che, secondo la promessa di Gesù, ci guida, nella libertà e nell’amore, in mezzo a difficoltà, contradizioni e peccati.
Grazie, Gesù per la tua Parola; grazie per la tua cena di fraternità; grazie per il tuo Spirito che ci accompagna e ci guida in questa dolce missione di diventare tuoi testimoni, “per la vita del mondo”.
Antonio Villarino
Roma

Pace, gioia, perdono, missione

Commentario a Gv 20, 19-31: Seconda Domenica di Pasqua, 12 aprile 2015

vigo-hermanitas++++In questa seconda domenica di Pasqua, leggiamo ancora il capitolo 20 di Giovanni, che ci parla di quanto è accaduto in quel “primo giorno della settimana”, cioè, al’inizio della “nuova creazione”, della nuova epoca storica che stiamo vivendo come comunità di discepoli missionari di Gesù. La presenza di Gesù vivo in mezzo alla comunità si ripete di nuovo otto giorno dopo, per toccare il cuore di Tomasso, esattamente come succede con noi ogni domenica, quando la comunità cristiana si raduna (ogni otto giorni) per celebrare la presenza del Signore.
Il vangelo ci dice che Tomaso non credette fin che non vide il costato ferito di Gesù. Precisamente da quel costato ferito, da quel cuore che amò sino alla fine, sorge lo Spirito che fa vivere la Chiesa come corpo di Cristo. Con lo Spirito la comunità-chiesa riceve i suoi doni: pace, gioia, perdono, missione. Vediamo brevemente:

P10009071) “Pace a voi”
Gesù usa la formula tradizionale del saluto tra gli ebrei, una formula che alcune culture usano ancora oggi in un modo o un altro. Nel nostro linguaggio di oggi potremmo dire: “Ciao, come stai, ti voglio bene, sono il tuo amico, voglio essere in pace con te”. Vi pare poco? A me pare moltissimo. Ricordo quando Papa Francesco, appena eletto, si presentò alla logia della Basilica di S. Pietro e semplicemente disse: “Buona sera”. E’ bastato questo piccolo saluto per che la moltitudine saltassi di gioia. Non c’era bisogno de una profonda riflessione né di una dichiarazione speciale; soltanto quello: una semplice parola di riconoscimento dell’altro con un atteggiamento di apertura e amicizia.
In questo senso, penso all’importanza e bellezza di un saluto cordiale e affettuoso tra i membri di una famiglia, riaffermando ogni giorno la vicinanza vicendevole, che riempie la vita di gioia; penso al saluto rispettoso e positivo tra i colleghi di lavoro, che fa la vita più leggera e produttiva; penso a quella mano che ci diamo durante la Messa riconoscendo nell’altro un fratello, anche se non ci conosciamo; penso al gesto di comprensione e appoggio allo straniero… Penso alla pace mondiale di cui tanto bisogno né abbiamo in questi tempi di violenza generalizzata. In tutte queste situazioni, Gesù risorto è il primo a dirmi: “Ciao, pace a te”. Così anch’io posso diventare strumento di pace.
In oltre, è interessante notare che, salutando, Gesù mostra le sue mani e il suo costato, con i segni della tortura cui era stato sottomesso. Questo vuol dire che la pace di Gesù non à una pace “buon mercato”, superficiale; è una pace a caro prezzo, pagata con la propria vita. Ci fa ricordare che salutare con la pace non sempre è facile… anzi tante volte è molto difficile. Ma Gesù –e noi con lui– è un “guerriero” della pace, una persona coraggiosa, che non ha paura della sofferenza. La pace è frutto del coraggio, non della debolezza.

2) Gioia: “I discepoli gioirono vedendo il Signore”.
L’arrivo di Gesù, con il suo saluto di pace, produce gioia. Come produce gioia, l’arrivo di un amico; come c’è gioia in una famiglia o in una comunità, quando c’è accettazione mutua. Non si tratta di una gioia “superficiale”, che nasconde le difficoltà, i problemi o i peccati; non è la gioia di chi falsa la realtà, di chi si droga con il vino, i piaceri di ogni tipo o l’orgoglio insensato.
E’ la gioia di chi si sente rispettato e rispetta; la gioia di chi si sente riconosciuto e riconosce; la gioia di chi si sa amato e ama gratuitamente; la gioia di chi crede di essere figlio del Padre. E’ la gioia di chi ha trovato un senso per la sua vita, una missione per la quale spendere il suo tempo e le sue energie, anche se questo implica lotta e sofferenza. E’ la gioia di chi ha trovato in Gesù un amico fedele, un maestro affidabile, un Signore che vince il male con il bene.

3) Perdono: “A chi rimetterete i peccati saranno rimessi”.
La gioia del discepolo non è quella di una persona incosciente o di chi si crede “perfetto” e capace di fare tutto bene. E’ la gioia di chi si sente perdonato e disposto a seminare perdono. Gesù risorto donò alla sua Chiesa lo Spirito del perdono, della misericordia e della riconciliazione. Papa Francesco ha ricuperato per il nostro tempo il chiamato “principio misericordia”. La Chiesa non à il luogo della Legge e della condanna, ma uno spazio dove è sempre possibile ricominciare da capo. Senza misericordia, l’umanità diventa un luogo dove non è possibile la vita, perché, alla fine, non è possibile vivere di sola legge. Noi tutti abbiamo bisogno di misericordia, pace, riconciliazione, fraternità… E tutto questo è un dono che riceve chi si avvicina nella fede al Cristo risorto.

4) Missione: “Come il Padre ha inviato me, così io invio voi.
La comunità dei discepoli, pacificata, perdonata, divenuta spazio di misericordia, si fa comunità missionaria, inviata nel mondo, per diventare precisamente questo: spazio di misericordia, di riconciliazione e di pace; quanto bisogno ne ha il mono di questo spazio! Quanto è necessario diffondere nel mondo queste comunità di discepoli di discepole che umilmente credenti diventano luoghi di saluto pacifico, di perdono e di gioia profonda!
P. Antonio Villarino
Roma

Pasqua: Maria di Magdala, Pietro e “l’altro discepolo”

Commentario a Gv 20, 1-10, Domenica di Pasqua, 5 di aprile 2015

In questa Domenica di Pasque, leggiamo la prima parte del capitolo 20 del vangelo di Giovanni, in cui troviamo una comunità di discepoli formata da tre protagonisti: Maria di Magdala, Pietro e Giovanni (Chiamiamolo così, secondo la tradizione, questo “altro discepolo”). I tre, oltre a essere se stessi, rappresentano noi e tanti altri discepoli che volgiamo imparare dal nostro Maestro come avere la vera vita. V’invito a leggere questo vangelo con calma, meditando lentamente, per cercare di scoprire il suo messaggio più profondo a partire dalla vita. Da parte mia mi trattengo brevemente in ognuno di questi “personaggi”:

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  • Maria di Magdala: amore fedele e incondizionato

Maria di Magdala (secondo il paese da dove proveniva) era sicuramente una dona straordinaria, con una grande forza interiore. Non conosciamo la sua storia previa, ma sappiamo che aveva incontrato in Gesù un Amico fedele, un Maestro indiscutibile, un Signore di cui fidarsi… Lei l’ha seguito dalla Galilea fino a Gerusalemme, nelle buone e nelle cattive, e ha rimasto fedele fino alla fine, e anche aldilà della morte.

Precisamente, nel vangelo di oggi, la vediamo andando al sepolcro, mossa da un’assoluta fedeltà, anche se non sapeva come farebbe con la grande pietra che chiudeva il sepolcro, anche se pensava che il suo Signore ormai fosse morto. Niente di questo era importante per lei, il cui amore era senza condizioni  e assoluto. E quell’amore senza confini ebbe il premio di vedere la pietra rimossa e la grazia di vedere Gesù com’era realmente, nella sua realtà più autentica, non più come un uomo morto, ma come i Figlio del Padre, per sempre vivo.

Contemplando questa dona, ci viene la voglia di imitarla nella radicalità del suo amore e di consegnarci totalmente a Gesù nelle buone e nelle cattive, senza condizioni, senza paura delle “pietre” –peccati, fallimenti-contradizioni–  che s’interpongono nel nostro cammino, con una fedeltà totale, sapendo, come lei e come S. Paolo, di chi ci siamo fidati, avendo la fiducia anche noi di avere la “rivelazione” di un Gesù che si fa vivo e presente nella nostra vita, nella Chiesa, nel mondo. Ed è solo a partire di questa esperienza di Gesù vivo che noi diventiamo missionari, testimoni davanti a un mondo incredulo.

  • Pietro: un peccatore, che si lascia guidare.

Pietro era senz’altro il capo di quel piccolo gruppo di discepoli, ma non sembra che fosse il più credente, né il più lucido, né il più veloce a capire le cose. Infatti, lui non fu il primo ad andare al sepolcro; non fu neanche il primo ad arrivare: era il più lento, coli a chi era più difficile capire le cose di Dio… Ma era umile, sapeva riconoscere i suoi errori; sapeva imparare, aprirsi ad altri e approfittare la loro lucidità.

Contemplando Pietro, molti di noi ci sentiamo rappresentati in lui. Anche noi abbiamo la nostra storia di peccato e d’infedeltà; anche noi facciamo fatica a capire le vie di Dio per la nostra vita; anche noi fatichiamo a credere che Dio sia vivo oggi nel mondo, che Gesù è vivo nella sua Chiesa e nel mondo; anche noi perdiamo fiducia e abbiamo paura di essere ingannati e cadere nella delusione… Ma come Pietro dobbiamo saper aprirci ad altri, farci accompagnare, lasciarci conquistare ancora una volta da Gesù e, come Pietro, dire: “Signore, tu sai che ti amo”.

Piazza S. Pietro (amanecer)
L’altro discepolo fu capace di vedere la nascita del nuovo giorno della nuova Creazione

 

  • “L’ altro discepolo”

Tra  i discepoli c’era uno (chiamiamolo Giovanni) che sembra il più veloce, il più intuitivo, il più capace di percepire la novità di Dio, di credere e vedere quello che è aldilà della superficie. Certe cose, infatti, solo si capiscono con gli occhi dell’amore che ci permette di andare oltre le apparenze.

Anche tra di noi ci sono alcuni che sembrano più veloci e più capaci di vedere i segni dei tempi, di percepire  prima il “vento” di Dio che spinge la storia dell’umanità. Questi discepoli sono un dono per tutti, con una condizione però: che sappiano rimanere nella comunità, che non tentino di andare avanti da soli, che sappiano adattarsi ai ritmi degli altri… Soltanto così si costruisce la comunità, soltanto così il Signore si rivela veramente come centro del nuovo progetto di umanità, la nuova creazione, iniziata in questa “nuova settimana”.

In effetti, come Dio ha creato il mondo in una “settimana” simbolica, secondo la Genesi, così adesso Dio sta re-creando il mondo, re-generando l’umanità in questa nova settimana, il cui “agente attivo” è Gesù Cristo, eternamente vivo. Come Maria, Pietro e Giovanni, anche noi crediamo in questa nuova creazione, in questo nuovo giorno che spunta, perché l’amore di Dio è più forte della morte e del peccato.

 

  1. Antonio Villarino

Roma