Laici Missionari Comboniani

La missione dei Dodici e la nostra

Un commentario a Mc 6,7-13 (Domenica XV T.O.: 12 Luglio  2015)

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Dopo il rifiuto degli abitanti di Nazareth, Gesù, secondo Marco, inizia una nuova tappa della sua missione, coinvolgendo i Dodici, seme di un nuovo popolo che accoglie il Regno di Dio e lo fa germogliare in paesi e città. Nel testo di Marco che leggiamo questa domenica possiamo trovare molti punti di meditazione per la nostra vita di discepoli missionari. Io mi fermo brevemente a quattro di questi punti:

  • Chiamò i Dodici e cominciò a inviarli

La missione non è frutto di un’iniziativa personale, ma di una chiamata. Nel cammino del discepolato missionario ci sono momenti in cui sembra che siamo stati noi a prendere l’iniziativa, che siamo noi che vogliamo diffondere nel mondo un nostro progetto d’umanità, una nostra ideologia, la nostra maniera di vedere le cose. Ma il discepolato vero solo comincia veramente quando, superata la tappa del protagonismo personale, ci rendiamo consci che è in verità è il Signore chi ci chiama e ci invia.

Già Mosè e altri grandi profeti hanno esperimentato come la missione fallisce quando è intrapresa come un modo di auto-realizzarsi e di diventare qualcuno nella società, mentre, per il contrario, diventa feconda quando è assunta come risposta a una chiamata.

Anche gli artisti raccontano qualcosa di simile. I poeti, per esempio, dicono che non sono loro a cercare le parole, ma sono le parole che cercano loro; cioè, la poesia attinge la sua speciale forza espressiva quando, in qualche modo , “s’impone” al poeta, chi, forse, ha lavorato per ore senza successo.

Lo stesso succede con il discepolato missionario: ci vuole un momento di grazia inaspettata, un prendere coscienza di essere gratuitamente chiamato/a, un fare esperienza che la missione ricevuta va aldilà del nostro auto-controllo, la nostra auto-realizzazione, le nostre prospettive ideologiche, il nostro protagonismo… per diventare la missione di Chi ci ha chiamato a inviato. Soltanto allora la missione diventa feconda, anche quando passa per il fallimento e la croce.

LOs Angeles (centro)

  • “Due a due”

Quando invia i suoi discepoli “due a due”, Gesù segue la pratica ebraica di inviare i messaggeri a copie: il portavoce ha accanto a sé qualcuno che conferma l’autenticità del messaggio. Facendo la missione “due a due”, i discepoli si aiutano a vicenda e danno attendibilità al messaggio del Regno de la fraternità.

D’altronde, la missione “due a due” fa superare l’esperienza individuale, soggettiva, per farla diventare una proposta sociale, comunitaria, condivisa. Certamente, Gesù dedica molte ore alla preghiera individuale, nella solitudine, ma la sua missione si sviluppa sempre pubblicamente: nelle piazze e nelle sinagoghe, sulle strade e nei villaggi e città. La missione non ò un affare privato, un’illuminazione individuale; è un affare pubblico, comunitario, condiviso. Non si tratta che la missione in comune sia più facile, ma più autentica e affidabile.

  • Entrare nelle case

Nella pratica missionaria di Gesù, non ci sono luoghi riservati alla missione. Lui entra nelle sinagoghe, parla per strada, in riva al mare, nelle case di famiglia… ovunque. La missione non esclude il tempio, ma neanche rimane legata a esso. Mi apre evidente che la missione della Chiesa oggi, senza lasciare le parrocchie, deve andare molto aldilà: uscire e andare all’incontro delle persone dove loro vivono, amano, soffrono, godono e sperano.

  Annunziare la vicinanza del Regno

Vicinanza: Ecco una parola “chiave” nell’esperienza di Gesù e dei suoi discepoli. Gesù annunzia senza riposo, con parole e azioni, che Dio ò vicino alle persone e realizza gesti di sanazione, liberazione, perdono, di quell’amore che fa che le persone si alzino e comincino a camminare. In questo consiste precisamente il potere di Gesù, potere che Lui condivide con i discepoli missionari, il potere di fare che le persone si alzino e comincino a camminare come figli e figlie.

P. Antonio Villarino

Roma

Dio tra le pentole: Gesù falegname, figlio, fratello, vicino

Commentario a Mc 6, 1-6 (Domenica XIV T.O.: 25 di luglio 2015)

ConventualMarco ci mostra a Gesù come un maestro ambulante che, dopo di aver predicato nei villaggi e città attorno al Lago di Galilea, ritorna a Nazareth, il paese dove era cresciuto a dove i suoi vicini lo rifiutano perché è troppo simile a loro. Marco lo spiega con una frase che è diventata famosa: “Nessun profeta è ben accolto nel suo paese e nella sua casa”; e finisce dicendo che Gesù rima se stupito della sua incredulità.
A me sembra che l’esperienza di rifiuto che ha fatto Gesù è a bastanza comune ed è fondata su due errori che tutto noi facciamo frequentemente:

Teresa y Jesus1) Immaginiamo Dio come qualcuno lontano dalla nostra vita quotidiana
Capita in tutte le tappe della storia e in tutte le religioni. Molti pensano che Dio si lo trovi in qualcosa di straordinario: un luogo meraviglioso, una grande cattedrale, un santuario speciale, un personaggio molto importante, sopra le nuvole… Come se Dio non avessi niente a che fare con quello che siamo e viviamo nella nostra quotidianità. Invece, Gesù ci insegna esattamente il contrario: Che Dio si fa uno di noi (Emmanuele); nasce come un migrante, lavora da falegname, va in sinagoga il sabato; mangia, beve, suda, fa degli amici… E in tutto questo si rivela come il Figlio amato dal Padre.
Un modo per spiegare questa esperienza del Dio vicino è la famosa sentenza di Santa Teresa d’Ávila: “Dio c’è anche tra le pentole”. Proprio così: Non dobbiamo cercare Dio nelle cose straordinarie ma nella vita ordinaria di ogni giorno: nel lavoro, nelle relazioni di famiglia, nelle amicizie, nella lotta sincera per i diritti dei poveri, nella ricerca della giustizia e la pace… e anche nella preghiera semplice e sincera (lontana da parole eccessive a gesti esagerati)… Appunto: “Tra le pentole”.

2) Diventare scettici e duri di cuore
Dice un vecchio proverbio che non c’è persona meno rispettosa del tempio che il sacrestano: muovendosi continuamente nel luogo sacro, finisce per perdere il senso del sacro. Questo può capitare anche noi con le persone a noi vicine: membri della famiglia o della comunità, compagni di lavoro, catechisti della mia parrocchia, parroco… Convivendo da vicino con queste persone, corriamo il rischio di vedere soltanto i suoi limiti e difetti, ignorando tutto il bene che fanno. Invece di approfittare della vicinanza per imparare a d amarli e capirli meglio, finiamo per rimanere intrappolati in un atteggiamento di critica amara e dura che ci impedisce di scoprire il messaggio che sicuramente Dio ci vuole trasmettere attraverso queste persone, non ostante i loro difetti e limiti. Certo, Dio non si presenterà a noi nella veste di una persona “perfetta”, ma nella realtà delle persone concrete che abbiamo attorno a noi.
Meditando questo vangelo di oggi, prego al Signore per me e per tutti di darmi quel’umiltà che ci fa capaci di riconoscere Gesù nel’umile profeta di Nazareth e in tante persone che vivono con me e mi aiutano a percepire la presenza divina nella concreta realtà che sto vivendo, con le sue opportunità e problemi, i successi e i fallimenti.
Signore, non permettere che io diventi arrogante o cinico, come gli abitanti di Nazareth. Fa che il mio cuore rimanga sempre aperto a riconoscere la tua umile presenza attorno a me, non ostante i miei limiti e quelli degli altri.
P. Antonio Villarino
Roma

Due vite ricuperate

Commentario a Mc 5, 21-43 (XIII Domenica TO: 28 Giugno 2015)

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Marco continua a presentare Gesù che agisce sulle due rive del lago di Galilea, con un messaggio chiaro di vicinanza divina ai poveri ai cuori “rotti”; un messaggio che si esprime, non soltanto in parole ispiratrici, ma anche in gesti concreti che confermano le parole e li danno una consistenza quasi “fisica”. Gesù mette in atto quello che possiamo chiamare “segni messianici”, cioè, azioni concrete che diventano manifestazioni della presenza di Dio in mezzo al suo popolo, siano loro gli abitanti di Gerassa (“nell’altra riva”), siano quelli di Cafàrnao.

Da “impure” a figlie
Nella lettura d’oggi si racconta la storia di due donne (una bambina di dodici anni e un’adulta malata anche da dodici anni); donne che, essendo “impure” (una perché cadavere e l’altra perché perde sangue-vita), sono “toccate” da Gesù e ricuperano, non soltanto la vita, ma anche la loro dignità di “figlie”, capaci di alzarsi, di credere (“la tua fede to ha salvato”) e di condividere il banchetto della vita (“fatela mangiare”).
Alcuni sembrano leggere questi gesti di Gesù, come se Lui fosse un mago che con poteri speciali produce effetti appunto magici… Certamente, non c’è da dubitare dal grande potere di guarigione di Gesù, Ma mi sembra che questa non è la prospettiva adeguata per capire quello che è successo sulla riva del lago di Galilea neanche quello che continua a succedere oggi tra tanti veri credenti. La prospettiva adeguata è quella del “segno messianico”, cioè, un’azione, un gesto che nasce dalla confluenza di due elementi fondamentali:
L’estraordinaria capacità di Gesù di amare e di entrare in comunione con le persone nella loro concreta situazione di vita, anche se erano condannate dalla tradizione; la sua profonda sintonia affettiva che, prendendo molto sul serio la realtà delle persone, riesce a trasmettere la sua esperienza della radicale vicinanza dell’amore del Padre. Come dice Benedetto XVI, soltanto l’amore salva. Quando qualcuno si sa amato, ricupera la sua dignità, diventa capace di alzarsi e di vivere una vita piena.
La fede di persone umili, che, minacciate dalla malattia e dalla morte, aprono i loro cuori e la loro speranza a Dio come unica roccia di rifugio. Nella mia vita missionaria in Africa, Europa e America ho trovato parecchie persone che sono come il papà della bambina moribonda o la donna disperata da una malattia che la umilia e la distrugge come donna e persona.
Davanti a una simile situazione, queste persone cercano una via d’uscita: nella medicina, nella preghiera, nel buon consiglio…, ovunque ci sia un’opportunità di ricuperare la vita minacciata o perduta. Molti li dicono che non c’è niente da fare, che accettino la realtà; si beffano di loro e della loro fede… Ma questa sua ricerca va rispettata e pressa sul serio. Ed è questo che fa Gesù: a partire dalla sua estraordinaria esperienza della comunione con il Padre della Vita è capace d’entrare anche in comunione con i suoi figli e figlie che passano per momenti di speciale difficoltà, fino a rischiare di dubitare della propria dignità e di essere amati.

DSC00226Parole e azioni
Tutti gli esseri umani, inclusi quelli più sicuri e prepotenti siamo delle creature deboli, esposte a malattie, sofferenze, disprezzi, pericolo e, per ultimo, la morte, anche se a volte qualche miracolo allontana per un po’ questo finale previsto, com’è successo alla figlia di Gairo, l’emorroissa o Lazaro. Ma io no credo che l’obiettivo dei miracoli di Gesù fosse di prolungare una vita che comunque deve finire, ma quello di dare una vita differente, una vita vissuta nell’amore e nella dignità, come figli e figlie di un Padre amoroso, che prende sul serio ognuno di noi. Le due donne, dopo quel “segno messianico” di Gesù, possono dichiarare con verità: “Io sono importante per Dio, sono importante per Gesù, sono importante per la comunità degli amici di Gesù. Non sono una malata o una moribonda. Sono FIGLIA”.
Questo è il messaggio centrale di Gesù. Per farlo capire usa parole, ma anche “segni” che nei vangeli hanno una doppia condizione:
-Sono concreti a pratici, legati alla vita della gente; aiutano le persone in un modo “fisico”, risolvono un problema reale della vita reale.
-trascendono la materialità, per trasmettere qualcosa che va aldilà del gesto concreto nella sua stretta materialità. Non si riducono a un “aiuto materiale”, senza anima, senza amore; comunicano una fiducia nella persona e la spingono a superare se stessa, alzarsi e mettersi al servizio di altri.
Così, anche la missione cristiana, sull’esempio di Gesù, cammina sempre su questo binario di parola e azione, di fede e di carità, di materia e di spirito. Le due dimensioni sono essenziali e si esigono a vicenda: la parola senza azione diventa bugiarda; l’azione senza parola perde il suo senso.
P. Antonio Villarino
Roma

“Passiamo all’altra riva”

Commentario a Mc 4, 35-41 (XII Domenica del T.O., 21 di giugno 2015)

DSC00962Andare oltre le frontiere
Domenica scorsa abbiamo visto Gesù “lungo il mare” di Galilea conversando con una moltitudine di persone sul Regno di Dio con un linguaggio vicino a contadini e pescatori. Oggi vediamo come Gesù, finita quella sua conversazione, alla sera di quello stesso giorno, invita i discepoli a salire sulla barca e traversare il lago verso “l’altra riva”. Questa espressione –“l’altra riva”- sembra aver un significato molto più profondo di una semplice referenza geografica. Sappiamo che, nell’altra riva abitavano persone di cultura e religione differente, alle quali Gesù vuole incontrare e condividere con loro la stessa vicinanza di Dio. Infatti, nei vangeli ripetutamente Gesù spinge i discepoli a non rimanere nello stesso luogo, ma camminare verso altri villaggi e città e andare all’incontro di samaritani, peccatori, pagani e altri tipi di persone “differenti”.
Quest’atteggiamento missionario di Gesù fu assunto dalla Chiesa già dai primi tempi fino ad oggi. Paolo, per esempio, fu “forzato” dallo Spirito ad andare oltre la frontiera asiatica verso l’Europa (Macedonia); Francesco Xavier fecce un viaggio di mesi per portare il vangelo al Lontano Oriente; Daniel Comboni traversò il deserto africano per aprire alla Chiesa un nuovo continente; e così molti altri.
Anche oggi, la Chiesa non può rimanere attaccata alla sua posizione “di sempre”. Anche oggi lo Spirito spinge la Chiesa a cercare altre rive, superare frontiere geografiche, culturali e religiose, per andare all’incontro dell’umanità del secolo XXI nei cinque continenti: un’umanità di rifugiati a migranti, di giovani che cercano un futuro e di anziani abbandonati, di milioni di persone che sono come “pecore senza pastore” e senza un senso per la vita…. Tutti noi dobbiamo chiederci: Qual è la riva verso la quale Gesù ci invita a remare? Quali frontiere dobbiamo superare come persone, come famiglie, come comunità, come parrocchie?

Entrare nel mare e confrontare le tempeste
Sappiamo che il mare nella Bibbia rappresenta molte volte un’immagine del male che c’è nel mondo, con i suoi pericoli e tempeste, che possono distruggere e affondare la nostra piccola nave personale e anche la stessa fragile Chiesa.
Di fatto, quando uno decide di uscire del suo piccolo “mondo protetto” da tradizioni e costumi, rischia di trovarsi davanti a nuovi ostacoli e problemi, che uno non è sicuro di sapere come superare. Quando si esce dai muri della parrocchia o della comunità (dove ormai ci conosciamo e ci sentiamo abbastanza sicuri), si può trovare un mondo ostile che respinge e si oppone al nostro stile di vita e al nostro messaggio. Qualche volta, il mondo esteriore può scatenare venti fortissimi che minacciano con affondare la nostra debole fede e la fragile comunità.
Un momento come questo è quello che ci descrive Marco oggi. E Marco cci racconta che i discepoli non si comportarono da falsi super-eroi: loro avevano paura e dubitarono. Fu il momento di guardare al Signore a gridare: “Maestro, non t’importa che siamo perduti?”.

galileaAnche se non lo pare, il Signore è con noi
Marco ci racconta quel’esperienza dei primi discepoli, che, sottomessi a persecuzioni a difficoltà insormontabili, dubitarono e avevano paura, ma, alla fine esperimentarono che il Signore non era morto o addormentato, ma vivo e presente con loro nella comunità che viaggiava in mezzo alle tempeste, non ostante la loro poca fede.
Per noi, come per i primi discepoli, è importante che se vogliamo intraprendere nuove iniziative missionarie, non ci dimentichiamo di portare il Signore con noi nella barca. Non dobbiamo andare in missione soltanto con il nostro entusiasmo e la nostra creatività. Se la missione è soltanto iniziativa nostra, quando venga la tempesta, affonderemo. Ma, se portiamo il Signore con noi (nella sua Parola, nei sacramenti, nella comunità, nel suo Spirito), quando arrivi il momento della difficoltà, grideremo in preghiera sincera, il Signore risponderà e con il suo potere arriveremo alla nuova riva per condividere la buona notizia della sua presenza.
P. Antonio Villarino
Roma

Il seme germoglia e cresce da solo

CommenImagen 027tario a Mc 4, 26-34; XI Domenica del Tempo Ordinario, 14 giugno

Finito il tempo di Pasqua (Quaresima, Pasqua, Pentecoste) e le grandi solennità della Santissima Trinità e del Corpus Domini, ritorniamo adesso al tempo ordinario, in cui seguiamo la lettura continuata di uno dei vangeli, in questo anno, quello di Marco. Siamo ormai alla undicesima domenica di questo tempo ordinario e, anche se nella liturgia si legge appena un piccolo brando del capitolo quarto,  io v’invito a leggere tutto il capitolo, per cos’ cogliere l’dea di quello che l’evangelista ci vuole trasmettere.  Da mia parte, dopo aver fatto questa lettura, condivido con voi due riflessioni:

lago de galilea (jerez)

  • Una folla “lungo la riva” del lago Galilea

Come sappiamo, Gesù stabilì il suo centro d’azione per un po’ di tempo a Cafàrnao, una piccola città costiera del lago di Galilea. Lì la sua presenza causò molto entusiasmo e la gente si stringeva per avvicinarsi a lui e ascoltarlo, poiché la sua parola era di una chiarezza, semplicità a rilevanza tali che “riscaldava il cuore”. Gesù, contadino tra contadini, pescatore tra pescatori, operaio tra operai, si sentiva al suo agio con quella gente umile, sottomessa a grandi sofferenze e difficoltà, affamate di verità e di senso, che non trovavano risposte in tradizioni religiose rutinarie, sclerotizzate, che dicevano niente alla loro vita concreta. Gesù, a partire da una vicinanza affettiva alle loro preoccupazioni e lotte e dalla esperienza contemplativa del deserto, entrava in comunione con loro e si “spandeva” in narrazioni paraboliche, che spiegavano i misteri del Regno di Dio in un linguaggio legato al lavoro de campo, del mare e della vita quotidiana.

Se me permettete un’esperienza personale,  ricordo quando ho cominciato a predicare nel mio paese natale nella lingua locale. A quel tempo in chiesa si parlava la lingua ufficiale, la lingua delle autorità e della burocrazia statale. Alcune persone, con le lacrime agli occhi, mi dicevano: “Mi sembrava di ascoltare il mio nonno conversare nella cucina”. Parlare la lingua del popolo in chiesa sembrava una rivoluzione teologica, perché a quel tempo succedeva una cosa strana: la gente s’avvicinava alla chiesa parlando nella sua lingua delle cose della vita, ma appena passavano la porta della chiesa, si cambiava dizionario e struttura mentale: il prete parlava in una lingua formalizzata e rigida, lontana dalla vita, che era rimasta fuori della porta… Invece, la verità del Vangelo ha da fare più con la vita che con i libri. Penso che tutti noi che abbiamo qualche responsabilità nella trasmissione del Vangelo (genitori, professori, suore, catechisti, preti…) dobbiamo contemplare bene questo modello del Maestro che parla in parabole, che esprime la grande Parola di Dio nelle parole e categorie della vita ordinaria della gente. E bisogna ricordare che la vita spirituale non consiste in usare parole raffinate e molto precise, ma in una vira di fede nelle faccenda ordinarie della vita.

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  • Il seme cresce “spontaneamente”

Scusatemi quest’obvietà, ma mi sembra che qui risiede la chiave per capire il messaggio di Gesù oggi: “Il seme germoglia e cresce…il terreno produce spontaneamente prima lo stello, poi la spiga. Poi il chicco”.

Gesù ci dice che il Regno di Dio è come un seme che Dio semina nel nostro cuore, nella nostra comunità, nella nostra famiglia… a cresce da solo, nella misura in cui viene accolto dalla terra. Per il seme dare germogliare, crescere e dare frutto, no serve spingere lo stelo in alto, come se si volesse farlo crescere dal di fuori. Il seme ha la sua energia interiore e deve crescere  per la fecondità che Dio a seminato nel suo interiore.

Non vi sembra che alcuni genitori sembrano a volte far crescere i suoi figli forzatamente, come chi vuole spingere la spiga a dare il grano o dare un frutto che non si corrisponde con la sua vocazione personale? Non vi pare che qualche volta, nella vita di famiglia o di comunità, vogliamo forzare le persone a diventare quello che non sono, secondo i doni che Dio ha dato loro? Non ci succede a noi stessi che vogliamo apparire come infallibili o perfetti in un sforzo contro natura che ci fa diventare amareggiati, ipercritici e negativi?

Mi sembra che, con la parabola del seme che cresce da solo, Gesù ci invita, non certo a essere indifferenti, passivi o pigri, ma serene e fiduciosi; fiduciosi nel seme di Verità e di Amore che Dio ha seminato in noi e attorno a noi. Questa verità e Amore crescono e danno frutti di buone opere, anche se noi non sempre sappiamo come. Il nostro lavoro consiste in coltivare la terra e liberarla da spine e sporchizie che possano impedire il seme germogliare e crescere.

P. Antonio Villarino

Roma